Non è un disco nuovo e nemmeno una ristampa dell’ultima ora ma quando le cose sono belle il tempo conta relativamente. Questo di Ian Hunter è un signor album, il secondo dopo aver abbandonato i Mott The Hoople, un gruppo troppo spesso assimilato al glam ma ricco di intuizioni e di lungimiranti esplosioni rock. Pubblicato nel 1976 All American Boy mette in risalto la voce di Hunter ed il suo senso della ballata, cosa che gli deriva dall’aver cominciato come folkie e soprattutto con l’essere da sempre un grande estimatore di Bob Dylan. Il suo senso della ballata, il suo erratico stile poetico, la sua lunatica ispirazione hanno fatto di lui un rocker atipico capace di ammaliare con brani dondolanti e romantici spesso accompagnati dal pianoforte e nello stesso tempo di eccitare con un rock sguaiato, anfetaminico, chitarristico, a cavallo tra Bowie e Rolling Stones e già prefiguranti un certo atteggiamento punk.
Il suo status di rocker ha conosciuto momenti felici specialmente tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ottanta con dischi quali You’re Never Alone With a Schizophrenic dove tra i musicisti spiccavano i nomi di Mick Ronson, John Cale e i due E-Streeters Roy Bittan e Max Weinberg e con l’energico live Welcome To The Club ma tra le sue opere migliori c’è sicuramente All American Alien Boy recentemente ristampato con sei bonus tracks prese tra out-takes e single version. Lo si può trovare anche in una versione giapponese di medio costo con una bella confezione ed un booklet ben informato.
Fatelo vostro perché Ian Hunter sciorina ballate di gran classe, è il caso di Letter To Britannia From The Union Jack, la pianistica Irene Wilde, la sublime You Nearly Did Me In, il midtempo di Apathy 83, la dylanesca God e rockacci sporchi di rossetto e birra (Restless Youth e All American Alien Boy) con tanto di sax rabbiosi (David Sanborn), trombe (Lewis Soloff) e tromboni che fanno molto R&B da locale malfamato. Il disco è un perfetto incrocio tra melodie british e sound americano (fu registrato agli Electric Lady Studios di New York) e ha una inconfondibile matrice urbana che richiama album come Transformer di Lou Reed e in qualche ballata anche Blood On The Tracks di Dylan...
Ma Hunter sfugge alle catalogazioni perché, come succede in un brano come Rape, nello stesso pezzo è possibile incontrare simultaneamente il folk-rocker, il cantante alla Randy Newman, lo storyteller rapito dalla luna ed il David Johansen delle notti newyorchesi, ripulito dopo la sbornia con le New York Dolls. Come Johansen e Lou Reed Ian Hunter rappresenta un pezzo degli anni settanta, quel rock metropolitano a metà tra redenzione e vizio, tra cielo e bassifondi, tra chitarre tagliabudella e un pianoforte immalinconito che ha fomentato la fantasia di tanti rock fans fulminati dal suono elettrico delle ballate e dalla cruda poesia della west side.
Di grande levatura i musicisti che accompagnano Hunter in questo lavoro: si va dal compianto Jaco Pastorius al basso a Chris Stainton al piano, da Ansley Dunbar alla batteria a Gerry Weems alla chitarra e poi i fiati di Soloff (Blood,Sweat and Tears) e David Sanborn.
Non lasciatevi fuorviare dai riccioli, il giubbino sciancrato ed il glamour di copertina, qui di zeppe, suoni di plastica e velvet goldmine non c’è ombra, solo rock e del tipo migliore.
Mauro Zambellini
3 commenti:
devo dire che, dopo averlo visto non piu' di un mese fa all' Hammersmith Apollo di Londra in accasione della reunion dei Mott the Hoople, il "ragazzo" è ancora in gran forma:
http://armadillobar.blogspot.com/2009/10/rocknroll-for-all-young-dudes.html
@tatix
Ho letto e ti ho invidiato
l'invidia è da parte mia e c'è chi l'ha visto coi Mott a Londra e ci ha fatto un pezzo. Non lasciatevi sfuggire il Buscadero di novembre. Intanto compratevi la ristampa di you're never aline with a skizophrenic con un intero cd live (genere welcome to the club) in aggiunta. Una chicca
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