giovedì 8 novembre 2012

THE BIG EASY


Finalmente a New Orleans, non che la regione cajun ci abbia stancati ma dopo una settimana born on the bayou era naturale saltare in città anzi nella città più musicale del mondo dove la musica è dappertutto e come scrive John Swenson nel suo bellissimo New Atlantis-Musicians Battle for the Survival of New Orleans-viene fuori dalla terra perché è qualcosa che ha a che vedere con le vibrazioni della terra. La terra qui è una combinazione di elementi, il fatto che tanta di essa sia sotto il livello del mare, la sua storia come città di porto e portale nell'emisfero occidentale per europei e africani e poi milioni di persone che hanno vissuto qui nel passato. E' come fosse la Costantinopoli del Nuovo Mondo, ogni cosa qui è esagerata. La bellezza è esagerata, la povertà è esagerata, così la brutalità, la musica, il cibo. Se sei una persona con i sensi acuti tutto questo non lo devi cercare, lo senti addosso. Ero già stato a New Orleans una prima volta nell'inverno 1994 proprio nei giorni in cui scompariva Ylenia Carrisi la figlia di Romina Power e Al Bano, era gennaio, l'aria era fredda e la città non era per niente sicura, al di fuori del Quartiere Francese, oltre North Rampart Street, che è una specie di spartiacque tra il Quartiere Francese e i quartieri sobborgo, di sera bisognava stare attenti, addirittura un taxista si rifiutò di portarmi nella zona dove una volta sorgeva Storyville perché, a suo dire, a lot of guns. Sono tornato nel 1999  inviato da una casa discografica per un servizio sul redivivo George Thorogood. Il bluesman del Delaware tornava dopo alcuni anni di silenzio con l'album Half A Boy/ Half A Man e lo presentava alla stampa internazionale all' House of Blues di New Orleans in quello che sarebbe stato uno show tutto muscoli e slide. A quel tempo andava di moda Marylin Manson tra i giovani americani e la stessa Anne Rice coi suoi romanzi sui vampiri aveva un certo seguito, il che spiega la fauna strana ed un po' inquietante che bazzicava la città. Mi ricordo un locale, una enorme cafeteria dove andai un paio di volte incuriosito dal suo pubblico e dal buon caffè che facevano, il Kaldi's in Decatur Street che ora non esiste più,  pieno di gente con gli occhi gialli e i canini appuntiti perché quello era il look di tendenza e chi lo portava non erano certo fighetti da discoteca ma figuri di un mondo parallelo che quando li si incrociava di sera lasciavano addosso un certo non so che. New Orleans è così, città di santi e peccatori, di feste e  cimiteri, di sesso e voodoo, di bellezza e squallore, di vita e di morte, anche adesso che all'occhio del turista sembra una città del tutto normalizzata qualcosa di difficile da afferrare nasconde tra le sue case. Basta passeggiare di sera nella silenziosa ed elegante Royal Street, una sequenza di atelier, gallerie, antiquari, negozi di vestiti (non firmati ma sartoriali), maschere, oreficerie, negozi antichi e vintage, lampioni a gas e si è in mezzo ad un concentrato di bello che nemmeno Parigi ha in così poco spazio ma anche qui ad un solo blocco dalla caciara pulp al profumo di vomito che è Bourbon Street è possibile cogliere la magia non sempre rassicurante di una città che nasconde i suoi segreti. Non c'è nessuno quando ci passeggio di sera tardi, solo qualche frettoloso passante, i negozi sono chiusi e si può osservarli nella loro quiete, la luce fioca dei lampioni rende l'ambiente ottocentesco, New Orleans è una città soffusamente illuminata anche nelle arterie principali, l'oscurità penetra nei vicoli, c'è fascino e mistero in Royal Street, chissà cosa doveva essere alla fine del XIX secolo nei giorni dell'assenzio. 

Dopo Katrina New Orleans ha subito delle trasformazioni. Innanzitutto i segni della devastazione non li si vede, solo di raro, la zona della Lower Ninth Ward, la più colpita dall'uragano, è ad est lontano dal centro e se non avete uno scopo preciso è difficile capitarci dentro. Lentamente sta cercando di risollevarsi, ci sono state fondazioni che hanno incrementato la rinascita, diversa gente è ritornata dove viveva prima,  Brad Pitt nel 2007 ha dato il via ad un'opera di ricostruzione di 150 abitazioni ma il New York Times nel 2012 ha comunque definito l'area non un sobborgo ma una giungla. New Orleans dopo Katrina è diventata una città prevalentemente turistica, ha dovuto superare anni difficili con una impressionante escalation di crimini di strada tra il 2006 e il 2008 che spesso ha visto come vittime musicisti e volontari che operavano contro il degrado sociale, lo spaccio di droga e l'imbarbarimento di certi quartieri. Gli stessi musicisti, tra i primi a tornare a vivere in città dopo l'uragano e tra i più solerti a mettersi al lavoro per dare una parvenza di vita normale dopo il disastro, si sono impegnati in numerose marce di protesta contro la violenza andando a protestare sotto il palazzo del Municipio e delle autorità. La storia è raccontata dal giornalista della rivista locale Off Beat John Swenson nel già citato New Atlantis, un libro che ha vinto il Press Club Award ed è stato segnalato da Rolling Stone come uno dei migliori testi dello scorso anno. Lo vendeva di suo pugno, firmandolo, al VOW di Houma. Oggi New Orleans è una città relativamente tranquilla e safe almeno nei quartieri centrali, compresi il Faubourg-Marigny un tempo poverissimo e oggi meta di chi raggiunge Frenchman Street per ascoltare musica e Treme il più vecchio sobborgo afroamericano d'America, una volta inaccessibile e oggi teatro di una riqualificazione urbana e culturale dovuta alla musica e agli artisti. Ci si può andare tranquillamente, sta al di là di North Rampart Street vicino a quella che una volta era la piazza dove gli schiavi ballavano e facevano festa la domenica, Congo Square oggi Louis Armstrong Park. In Treme vi ha sede il New Orleans African-American Museum of Art, Culture and History  oltre al caratteristico Treme Cafè le cui riviste ed il cui cappuccino val bene una visita. Intorno ci sono abitazioni che mostrano la dignitosa povertà di un vecchio quartiere afroamericano anche se sarebbe più giusto dire afroamericano e indiano perché qui gli schiavi africani si sono incrociati e hanno convissuto con i nativi americani come in nessuna altra parte degli Stati Uniti dando vita ai black indians. C'è ancora qualche testimonianza di un recente turbolente passato, ci sono un paio di abitazioni trasformate in centro culturale per il Mardi Gras e in mezzo a questa dignitosa povertà non mancano sospette auto di lusso o pacchiane auto che sembrano sopravvissute all'era Shaft.   Tenere gli occhi aperti è sempre consigliato ma il serial televisivo della HBO con Treme al centro del racconto ha fatto bene al quartiere pur provocando la discesa in campo di speculatori arrivati dalla East Coast e dalla  West Coast che comprano case per poi trasformarle mutando così in veste radical chic  il vecchio neighborhood a dispetto degli originari residenti. E' la gentrification che avanza.  Una delle istituzioni del quartiere è la Treme Brass Band, la marchin' band più attiva della città, ogni martedì sera suona all' d.b.a un locale frequentatissimo  di Frenchman Street dove è facile vederla in azione in tre set di quaranta minuti ciascuno. E' una vera esplosione di dixieland, ritmi second line e brass music scoppiettante, rivisti in modo eclettico e spiritoso con una verve e spigliatezza da travolgente marching band di strada.  Portano in scena la gagliarda euforia del Mardi Gras, la sezione ritmica è affidata alla tuba e ad un rullante, la frontline è costituita da un bravo sassofonista (che possono essere Elliott Callier o Frederick Sheppard a seconda della serata), una tromba (Kermit Ruffins o James Andrews) ed il trombone (Corey Henry). Il divertimento è assicurato, la gente si accalca attorno al palco, i musicisti alternano la musica con gag spiritose e interagiscono col pubblico, c'è chi si lascia coinvolgere e inizia a ballare, tutti bevono.

A New Orleans ci arriviamo domenica 14 ottobre con un veloce spostamento da Houma. Attraversiamo le ultime cajun parish del viaggio, Lafourche e St.Charles, ancora baracche prefabbricate per la pesca, piccoli motoscafi ormeggiati sui canali, bayou, qualche insegna che annuncia pesce fresco e gumbo, un afroamericano fuma ascoltando la radio,  i soliti procioni morti. L'approssimarsi alla città è segnalato dalla radio di bordo, in una frazione di secondo dalla stazione sintonizzata spariscono i valzeroni cajun e le ballate malinconiche cantate in francese ed esce un contagioso e caldo R&B che ti fa capire che siamo arrivati, The Big Easy è lì davanti. E' un gioco da ragazzi attraversare il Mississippi a Bridge City, uscire dalla 90 ed infilare la lunghissima St.Charles Avenue che ci porta dritti dritti nell'albergo prenotato via internet del Garden District. Questa è la zona più signorile della città coi suoi viali alberati, bianche case coloniali e creole di grande fascino e elegante architettura, stupende di sera quando sono illuminate solo da qualche piccola luce come fosse già Natale, tanti alberi, tanto verde, la zona è attraversata da quel tram chiamato Desiderio che percorre l'intera St.Charles Avenue e ricorda i tram verdi che una volta circolavano per Milano. Ci si sente a casa, la città è a misura nostra e mai ci deluderà, nemmeno per un momento nei cinque giorni che ci staremo. Giusto il tempo per scaricare i bagagli e siamo subito a Lafayette Square dove è in corso l'ultima giornata del Crescent City Blues and BBQ Festival organizzato dalla stessa Fondazione che ad aprile dà vita all'enorme Jazz-Fest, una delle istituzioni della musica americana che ogni anno oltre agli artisti locali mette in scena le più grandi star del rock, del jazz, del soul e del blues. Lafayette Square è nel Business District in mezzo ai palazzi e ai grattacieli pieni di uffici ma è una piazza occupata da un piccolo parco verde dove per l'occasione sono state sistemate bancarelle di quadri, monili, arte povera, t-shirt, cappelli (un vezzo della città, basta guardare le foto di Dr.John), manifesti, artigianato vario, dischi e CD. Naturalmente c'è anche l'area food, tutto quello che potete immaginarvi in termini di crostacei, carne, salse, veggies, tacos, fajitas e via dicendo. Va forte il po-boy, originariamente il panino del poor boy il quale doveva sfamarsi solo con quello, quindi una imbottitura di carne o gamberetti con salse generosa e succulenta. Non c'è invece la muffoletta che è il panino tipico di New Orleans a cui si è astenuto perfino Roberto. In mezzo ad un pane molliccio ci mettono di tutto, salame,  mortadella, due o tre tipi di formaggio, cetrioli, sottoaceti e chissà cos'altro. Una bomba, un attentato alle arterie. Non manca l'immancabile Abita, la birra della Louisiana, pur avendo un colorito ambrato da birra belga è una mammoletta in confronto alle nostre lager o pils. Ma siamo venuti per la musica ed è quello che conta, offerta (il festival è assolutamente free) nel migliore dei modi ovvero all'americana. Due palchi agli estremi opposti della piazza funzionano alternativamente, quando è finito lo show nel palco a nord attacca lo show a sud così che bastano pochi metri per rimettersi seduti sul prato e cambiare scenario. L'acustica è ottima, in ogni luogo di questo viaggio dove ho ascoltato musica, che sia un bar, un club o un palco all'aperto, la qualità audio è sempre stata ineccepibile, contrariamente a quello che avviene da noi dove spesso si rincasa alla fine di un concerto (l'ultimo in ordine di tempo quello della Band Of Horses all'Alcatraz) con le orecchie martoriate o con un phon che soffia sul timpano.  All'inizio del pomeriggio in Lafayette Square picchia un sole rovente, il pubblico vaga tra il cibo e le bancarelle, qualcuno assiste ai primi show. I bianchi sembrano prevalere in numero e con il lento andare delle ore la piazza si riempie, chi arriva a piedi, col bus o in bici, verso sera la piazza è esattamente divisa a metà. Tanti i black people dondolanti e allegri, seduti con le loro vaschette piene di ogni ben di Dio di cibo o in piedi con in mano un secchio (chiamarlo bicchiere è offensivo) pieno di Coca Cola ghiacciata, venuti a vedere e ballare un loro beniamino, Clarence Carter, l'attrazione dell'ultima giornata del Blues and BBQ Festival. Il quale sale sul palco alle sette di sera e per un'ora delizia il pubblico con un soul-blues morbido e sinuoso  che occhieggia sia al classico R&B, sia al pop elegante sia al sound urbano di Curtis Mayfield. E' un crossover ammiccante dai toni melliflui, mi fa capire la lunga strada percorsa da Robert Cray per arrivare al suo soul-blues, ammiro sia il modo sciolto di cantare di Carter  sia il suo stile chitarristico molto laid back. La band lo asseconda diligente ma è lui il mattatore. Lo accompagnano sul palco e gli mettono in mano la chitarra, ha settanta sei anni ed è cieco, è un po' acciaccato ma possiede un fisico asciutto e tanta vitalità. Quando inizia a suonare e cantare regala classe e ottima musica, con pochi accordi ed una voce che è un velluto mette a dondolare l' intera piazza infilando classici del suo repertorio come Slip Away, Making Love (At The Dark End Of The Street), I Looking For A Fox, Tell Daddy che sono parte della storia del R&B anche se quello più easy-listening e contaminato col pop. Le donne si sciolgono, la platea è tutta per lui e lui la ricompensa con il suo savoir faire raccontando storie maliziose di donne e sesso, vere o immaginarie. Prima di lui i due palchi del Blues and BBQ Festival avevano visto all'azione acts più o meno interessanti. Roba da neri danzanti come Latimore e Ironing Board Sam e puristi come i bravi Richard Smith, solo con la chitarra e orientato verso il folk e Spencer Bohren, bluesman di razza purissima capace di rilassare e di incrociare diversi linguaggi blues. Poi, prima dell'arrivo di Clarence Carter c'erano stati i lapilli roventi di Miss Lavelle White, una gagliarda signora afroamericana del 1929, per la precisione di Austin, piena di energia e verve, cresciuta sulle orme di Dinah Washington ma qui supportata da una band black&white ruvida al punto giusto dove brilla un chitarrista texano secco e nervoso,  capace di sprigionare un rock-blues vibrante e coinvolgente. Peccato aver perso il resto del festival ma in un viaggio non tutto coincide e col senno di poi saremmo stati un giorno al VOW e due al Blues&BBQ Fest. Nei due giorni precedenti in Lafayette Square avevano suonato Little Freddie King, Johnny Sansone, Sugar Blue, Otis Clay e Keb Mo.  Alle 20 in punto il Blues & BBQ Festival chiude i battenti, la piazza si svuota velocemente, rimaniamo soli con i volontari che si mettono a pulire e sbaraccare, il tempo di un ultima birra e rientriamo in albergo non prima di aver incrociato sotto il cavalcavia della 90 il sogno americano nella sua più moderna definizione. Una quindicina di homeless sistemano i loro cartoni e le loro cianfrusaglie per arredare una possibile bedroom all'aperto.

Il giorno seguente è di scena  l'immancabile Bourbon Street. Ci accoglie col suo odore di vomito stantio, il suo kitsch, le sue belle case spagnoleggianti con i balconi di ferro battuto, i  suoi colori, le sue voci, le sue donne, il suo turismo caciarone, i suoi bicchieri di plastica pieni di margarita e cocktail, i suoi buttadentro neri che sembrano usciti da un telefilm di serie C, le chiassose rock n'roll band che suonano di tutto pur di far ballare gli americani della provincia venuti a dimenticare Dio e la crisi, da Prince a John Mellencamp, dai Supertramp ai Rolling Stones, dai Creedence agli Areosmith. Una vera tristezza, resa ancor più misera dalla chiusura (al suo posto c'è un fast food) del locale storico per antonomasia di Bourbon Street ovvero l'Old Absynthe Bar dove ci hanno suonato tutti i ganzi della città, compreso Willy DeVille di cui si può vedere un estratto nello splendido triplo dvd tedesco appena uscito, Still Alive. Al di là dello squallore con risvolti simpatici, Bourbon Street rimane una istituzione del divertimento molto cara ai cittadini di New Orleans che la rispettano e la difendono. Non a caso l'unico locale della città che non ha serrato i battenti nemmeno per un giorno durante i giorni terribili di Katrina è proprio un locale di Bourbon Street, la taverna di Johnny White il cui proprietario Marcy Kreiter si è rifiutato di chiudere anche in piena tempesta e ha offerto rifugio ai giornalisti e alle squadre d'emergenza. Una capatina serale in Bourbon Street è d'obbligo ma se siete tipi politicamente corretti e non sopportate la massa potete andarci il mattino, l'odore di vomito c'è comunque ma  il pubblico è ancora a nanna, sbronzo dalla serata precedente. Ci sono naturalmente i negozi già aperti, chi ci lavora e i bar che sciacquano i pavimenti dalla birra ingurgitata a galloni dalle orde di turisti. Per chi voglia ascoltare buona musica dal vivo non è il posto più indicato, meglio sconfinare in Frenchman Street appena al di là dell'Esplanade il viale che limita ad est il French Quarter. Di giorno ci sono baretti pieni di giornali gratuiti e tipi che lavorano coi loro portatili, qualche libreria, di sera si raduna la gente che caracolla da un locale all'altro per vedere e sentire musica. C'è di tutto, rock n' roll, brass band tradizionali e groove, bluesmen, jazz antico e moderno, gruppi che mischiano R&B con  speziati intrugli locali, quando il nome in cartello ha una certa risonanza, è il caso della Treme Brass Band al d.b.a, si paga la cover ovvero  5 dollari per entrare, altrimenti l'ingresso è free, le birre e gli alcolici costano normali e se non stazionate troppo a lungo al bancone vicino alla ragazza del bar  potete evitare di essere costretti ad ordinare a ripetizione perché nessuno tiene d'occhio se il vostro bicchiere o la vostra bottiglia sono ormai vuoti. I locali più presi d'assalto sono il d.b.a, il Blue Nile, lo Snug Harbor, lo Spotted Cat, il BMC, la Maison, l'Apple Barrel, nella stessa sera potete passare dalla Treme Brass Band ad Andy J.Forest, dal Mojo Combo ai Pocket Monster a Jamey St.Pierre and The Honeycreepers, gente sconosciuta che suona con tutta l'anima in corpo perché sa che deve intrattenere più pubblico possibile  visto che a nemmeno dieci metri c'è un altro locale ed un'altra band all'azione. Inutile perdersi in dettagli, una volta che entrate in Frenchman Street non ci uscite  finché le vostre gambe non supplicano pietà e il vostro corpo chiede solo una cosa : il letto. Quello che vi immaginate sia New Orleans per la musica, quella di strada e dei club che sorge dal basso e non ha intermediazioni, Frenchman Street ve lo dà. In modo assolutamente cheap. Frenchmen Street funziona tutti i giorni della settimana, i locali storici e gloriosi dove vanno a suonare i nomi di grido come il Maple Leaf, l'Howlin' Wolf, il Tipitina e l'House of Blues stanno in altre zone della città più esterne e hanno solo alcune serate programmate, principalmente nel fine settimana. Se non volete finire tristi a bere appoggiati ad un bancone di Bourbon Street pensando a Tom Waits in The Heart of Saturday Night, Frenchmen Street è il posto più adatto per alzare il tiro.


Che la musica sia la regina della città lo si sente anche nei negozi. Quando mai da noi capita di entrare in un negozio di cianfrusaglie, abbigliamento, libri e manifesti o addirittura alimentari e sentire una che canta il blues con un'anima ed un trasporto tale che non si può fare a meno di chiedere di chi si tratta o  quale disco sia. Perché il più delle volte è gente mai sentita e sconosciuta che canta dal paradiso (o dall'inferno fate voi).  Anche nel French Market che è un mercato all'aperto di spezie e di cose turistiche dove nei chioschi si mangia bene una cucina casalinga con pochi dollari la musica gira a mille tra banchi, tavolini e bancarelle trasmettendo un benessere che non esiste in nessuna altra città al mondo, almeno di quello inteso come "occidentale". Purtroppo anche The Big Easy ha dovuto sottostare al dominio di internet ed i negozi di dischi, una volta numerosi, adesso scarseggiano anche lì. Resiste il Louisiana Music Factory che sta in Decatur St. proprio di fronte all'House of Blues ed è un indirizzo storico. Ha una galattica selezione di musica locale, jazz, blues, cajun, zydeco, R&B, swamp-rock, brass-band, di New Orleans e della Louisiana e poi il catalogo normale di rock e pop. All'entrata sono esposte le novità, al piano superiore ci sono i vinili, prezzi abbordabili e ottima selezione, esiste ancora l'ascolto in cuffia per cui potete sedervi su uno sgabello e scegliere tra una ventina di CD proposti prima di acquistare. Non aspettatevi la FNAC o la Virgin, siamo a New Orleans, tutto sa di antico e vissuto, è un negozio vecchio stampo dove potete scartabellare tra dischi e CD e nessuno vi rompe le scatole. Ma il negozio di dischi più assurdo che mi sia capitato di trovare nella mia vita sta lontano dal French Quarter, in Magazine Street che è una via lunga parecchie miglia che va dal centro alla periferia ovest. A tratti è una via residenziale, qualche blocco dopo diventa una specie di grazioso agglomerato di negozi alternativi, bar, gallerie, flea store, ristoranti, poi dopo altri blocchi subentra il degrado, un depresso minimarket con tanto di inferriate contro i furti e merce tra gli scaffali tipo Unione Sovietica periodo guerra fredda, negozi chiusi e sbarrati, qualche barbone, immondizia in giro, poi più avanti ancora un agglomerato di vita e così via. Ci passa l'autobus n.11 ed è facile andarci, al numero   1837 c'è Jim Russell's Rare Records, un cadente magazzino che in un disordine totale offre centinaia di 45 giri, vinili, locandine e CD. Appena arrivati si ha l'impressione di essere capitati in una miniera d'oro ancora da sfruttare, poi la fibrillazione scema, in un'ora di ricerche non sono riuscito a trovare nemmeno un CD che valesse la pena comprare. Molta fuffa e tenuta male. Una donna bianca, sciatta, pigra, con sigaretta e birra stazionava su uno sgabello guardando la Tv in pieno pomeriggio incurante del casino che aveva intorno perché oltre alla tanta fuffa in vendita c'era anche il problema di come organizzare la ricerca visto che di ordine alfabetico nemmeno a parlarne e così di divisione in generi. Lo stesso artista lo potevi trovare in più scaffali ed in più punti del locale, i vinili erano abbandonati all'azione dell'umidità, avevano copertine spesso lacerate, rare perle del blues e del jazz anni cinquanta ammiccavano supplicanti in condizione pietose,  i 45 giri erano accatastati come se fossero  pronti da portare in discarica, la disposizione del materiale non seguiva nessuna logica.  Certo di roba ce ne era in abbondanza ma forse occorreva stare una settimana per ricavare qualcosa di utile, per di più i prezzi erano tutt'altro che convenienti. E la cosa più sorprendente in mezzo a tale confusione, che procurava le lamentele della padrona era il disastro che l'uragano Isaac aveva causato. Una parte del soffitto in cartongesso era difatti crollato e l'acqua aveva bagnato i CD sottostanti. Ma dopo qualche mese dal passaggio di Isaac i CD si ritrovavano ancora nei loro verdastri involucri di cellophane inumiditi dall' acqua salmastra che era filtrata dentro. Nessuno ci aveva posto rimedio, fatto nulla per quei poveri CD a bagno nelle wetlands.  La tipa, una autentica white trash woman, si lamentava delle autorità locali che avevano approfittato dell'uragano per aumentare le tasse ma, impegnata a vedere la Tv, sembrava non avesse cura per le sue creature, lei aveva lascite così dal giorno dell'uragano senza degnarsi nemmeno di una asciugatina. Perplessi guadagniamo la strada del Garden District approfittando di un decoroso Fresh Market per comprare una bottiglia di Sauvignon da bere in camera d'albergo davanti al secondo round Obama-Romney.

Il voodoo è una cosa che vi appioppano dovunque a New Orleans, parlo della sua rappresentazione turistica di immagini, t-shirt, libri, poster, cappelli, salse e peperoncini. C'è un Hoodoo Emporium in Pirate's Alley sufficientemente sinistro e tetro che vende pozioni, erbe e polveri magiche, amuleti, serpenti e insetti imbalsamati, libri sull'argomento, il tutto fai da te per un hoodoo domestico e c'è un Museo del Voodoo piuttosto approssimativo con reperti trovati sul campo, avanzi di riti, teschi, altarini e quant'altro ma i miei compagni di viaggio non sembravano interessati al lato oscuro della città ed io personalmente questo aspetto lo avevo esplorato, incluso il vero e inquietante Voodoo Spiritual Temple in North Rampart Street, la scorsa volta che venni a New Orleans  "costruendoci" sopra con tanto di foto (una delle quali lasciò di stucco Willy DeVille che in un'intervista mi disse riferendosi ad uno dei fotografati giro : questo tipo lo conosco, è pericoloso,  sgozza i galli !) un articolo intitolato Bayou des Mysteres pubblicato dal Buscadero. Il Voodoo Spiritual Temple è a pochi passi dal J&M Studio di  Cosimo Matassa, uno dei padri del New Orleans sound. Tra il 1947 e il 1956 Matassa insieme col produttore e arrangiatore Dave Bartholomew fece registrare in quegli studi alcuni tra i più famosi musicisti di R&B e rock n'roll tra cui Little Richard, Professor Longhair, Smiley Lewis, Roy Brown, Lloyd Price e Shirley and Lee. Cosimo Matassa, nato nel 1926 è ancora vivente ed è stato promosso quest'anno nella Rock and Roll Hall of Fame di Cleveland ma tristemente il J&M Studio è oggi una lavanderia automatica dove le lavatrici e le centrifughe per asciugare stazionano sotto una serie di foto di artisti che testimoniano dell'illustre passato. Non si è preservato un monumento della storia musicale della Big Easy, ritratti di Dr.John e Billie Holiday convivono fianco a fianco con detersivi e biancheria sporca, due targhe all'entrata sono l'unica cosa che ricorda una delle mecche della nascita del rock n'roll oltre ad un juke box funzionante inspiegabilmente abbandonato nel locale.

Oggi la mecca del rock n'roll a New Orleans, oltre al Tipitina è la House of Blues di Decatur Street nel Quartiere Francese.  La House of Blues è una struttura perfettamente idonea per ascoltare musica dal vivo, c'è un patio esterno dove si esibiscono in acustico bluesman e artisti di contorno e c'è un locale interno tutto in legno arredato come un saloon, con diversi banconi per il bere, impreziosito da quadri tutti concernenti la musica, in particolare il blues, dipinti coi colori vivaci del sud e realizzati anche loro in legno con quella artigianalità tipica dell'arte rurale afro-americana. Suggestivo il contorno, ottima l'acustica, pratico l'ambiente, c'è un locale adiacente al saloon dove prima dello show è possibile mangiarsi dei buoni hamburger in santa pace, niente a che vedere con quelli delle catene. Mercoledì 17 ottobre, l'ultima sera in città, alla House of Blues è in programma il concerto di John Hiatt col suo Combo. Non ce lo facciamo scappare, è uno dei miei songwriter americani preferiti, ha appena dato alle stampe il pregevole Mystic Pinball  e prima di partire ci eravamo organizzati per  prenotare via internet i biglietti. Lo show è stupendo, la cornice ideale, il miglior modo per accomiatarsi da New Orleans. Se volete conoscere il concerto nei dettagli e nelle emozioni vi invito a procurarvi il numero di novembre del Buscadero dove c'è l'intera recensione.   

L'ultima giornata a New Orleans era cominciata nel migliore dei modi. Nicola aveva fin dalla partenza palesato l'intenzione di comprarsi una chitarra usata e strada facendo avevamo incontrato a Houma chi ci aveva dato l'indirizzo di un posto dove trovare chitarre vintage a New Orleans. In realtà questo venditore sta in un sobborgo di New Orleans al di là del Mississippi, Algiers, patria di diversi bluesmen e sede di un rinomato studio di registrazione dove hanno inciso il loro ultimo album i Calexico. Ci andiamo prendendo il ferryboat vicino all'Aquarium e attraversiamo il grande fiume godendoci la vista della skyline della città in una giornata di cielo blu. Sbarcati ad Algiers cerchiamo il nostro posto, facile da trovare perché vicino all'attracco. Non si tratta di un negozio ma di una modesta ma caratteristica villetta in legno con annesso giardino su cui troneggia  l'insegna Vintage Guitars. Apre a mezzogiorno, sono le undici, facciamo un giro, beviamo una Coca Cola nel vicino pub, fa caldo. A mezzogiorno ci presentiamo puntuali, il cancelletto è aperto, entriamo nel giardino e poi ci infiliamo in una specie di dependance-laboratorio dove ci sono fili, saldatori, morsetti, attrezzi da lavoro, chitarre appese al muro, uno stereo, un divano ed una poltrona mezza sfasciata, manifesti di concerti e club,  un ventilatore che gira a palla. Il disordine è quello tipically american, non c'è nessuno e anche quando chiamiamo non risponde nessuno. Ci sono Telecaster appese che farebbero la gioia di Keith Richards ed un paio di Les Paul che manderebbero in giuggiole Warren Haynes ma non c'è nessuno. Dopo un po' di minuti Nicola entra nella abitazione principale e strilla hey man, una voce risponde che è sotto la doccia e arriva subito. Quando compare si capisce che è un sopravvissuto di Woodstock, capelli lunghi arruffati, magro, barbetta bianca, sembra vagamente Gregg Allman, porta jeans sgualciti e t-shirt spiegazzata, sguardo furbo, poco meno di sessant'anni. Suona in una band locale che fa CCR, Stones, Flying Burrito Brothers, Beatles, Animals, Van Morrison, lo vediamo dalla playlist scritta a mano che c'è sul tavolino, capiamo che è the right man at the right time. Nicola inizia a provare le chitarre, Telecaster nera degli anni sessanta e Telecaster nera degli anni settanta mentre il nostro uomo si trincera dietro ad un Mac che così grande non ho mai visto e si perde nelle sue cose. E' come fosse assente, lascia che le cose vadano nel più assoluto take it easy,  non cerca di vendere a tutti i costi, passa le chitarre da provare a Nicola e aggiunge solo brevi informazioni sullo strumento. Roberto ed io siamo beati e rilassati sul divano, le Telecaster sono una più bella dell'altra, con quell'aspetto vissuto e "sfregiato" che solo una chitarra vintage possiede e sembra raccontare chissà quante notti di rock e di blues, la prima ha un suono fifties alla James Burton, uno dei chitarristi di Elvis,  l'altra identica ma più giovane è calda e blues, bella anche lei. Preferisco il suono di quella più vecchia ma io so suonare a malapena lo scacciapensieri. Nicola infila lo spinotto nell'ampli, sente i suoni, accenna Pride and Joy di Steve Ray Vaughan, gongola e pensa al prezzo, lo vediamo concentrato sulle corde e sui conti, 800 dollari non sono bruscolini. Dopo una decina di minuti sembra desistere, noi siamo in po' delusi e il venditore non fa una piega.......... spiega Nicola che di Telecaster ne ha già una a casa, non si sente di affrontare una spesa così impegnativa, poi il tipo compare con una giapponese del 72, una Univox modello hi-flier di colore nero.  E' fatta, è amore a prima vista, dopo pochi accordi Nic la sente sua, il suono gli va, il look anche, il prezzo è ragionevole. La pratica dell'acquisto non richiede più di cinque minuti. Quando torniamo nelle stradine di Algiers non siamo più tre turisti italiani ma siamo diventati un power trio, Nic ha la sua vintage guitar a tracolla nel fodero, Roberto suona da tempo la batteria, io, un talking blues con l'armonica prima o poi lo faccio anch'io. Con tutto il Mississippi che ho visto qualcosa mi sarà pur entrato dentro.


 

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