Finalmente a New Orleans, non che la regione cajun ci abbia
stancati ma dopo una settimana born on
the bayou era naturale saltare in città anzi nella città più musicale del
mondo dove la musica è dappertutto e come scrive John Swenson nel suo
bellissimo New Atlantis-Musicians Battle
for the Survival of New Orleans-viene fuori dalla terra perché è qualcosa
che ha a che vedere con le vibrazioni della terra. La terra qui è una
combinazione di elementi, il fatto che tanta di essa sia sotto il livello del
mare, la sua storia come città di porto e portale nell'emisfero occidentale per
europei e africani e poi milioni di persone che hanno vissuto qui nel passato.
E' come fosse la Costantinopoli del Nuovo Mondo, ogni cosa qui è esagerata. La bellezza
è esagerata, la povertà è esagerata, così la brutalità, la musica, il cibo. Se
sei una persona con i sensi acuti tutto questo non lo devi cercare, lo senti
addosso. Ero già stato a New Orleans una prima volta nell'inverno 1994 proprio
nei giorni in cui scompariva Ylenia Carrisi la figlia di Romina Power e Al
Bano, era gennaio, l'aria era fredda e la città non era per niente sicura, al
di fuori del Quartiere Francese, oltre North Rampart Street, che è una specie
di spartiacque tra il Quartiere Francese e i quartieri sobborgo, di sera
bisognava stare attenti, addirittura un taxista si rifiutò di portarmi nella
zona dove una volta sorgeva Storyville perché, a suo dire, a lot of guns. Sono tornato nel 1999 inviato da una casa discografica per un
servizio sul redivivo George Thorogood. Il bluesman del Delaware tornava dopo
alcuni anni di silenzio con l'album Half
A Boy/ Half A Man e lo presentava alla stampa internazionale all' House of
Blues di New Orleans in quello che sarebbe stato uno show tutto muscoli e slide.
A quel tempo andava di moda Marylin Manson tra i giovani americani e la stessa
Anne Rice coi suoi romanzi sui vampiri aveva un certo seguito, il che spiega la
fauna strana ed un po' inquietante che bazzicava la città. Mi ricordo un
locale, una enorme cafeteria dove andai un paio di volte incuriosito dal suo
pubblico e dal buon caffè che facevano, il Kaldi's in Decatur Street che ora
non esiste più, pieno di gente con gli
occhi gialli e i canini appuntiti perché quello era il look di tendenza e chi
lo portava non erano certo fighetti da discoteca ma figuri di un mondo
parallelo che quando li si incrociava di sera lasciavano addosso un certo non
so che. New Orleans è così, città di santi e peccatori, di feste e cimiteri, di sesso e voodoo, di bellezza e
squallore, di vita e di morte, anche adesso che all'occhio del turista sembra
una città del tutto normalizzata qualcosa di difficile da afferrare nasconde
tra le sue case. Basta passeggiare di sera nella silenziosa ed elegante Royal
Street, una sequenza di atelier, gallerie, antiquari, negozi di vestiti (non
firmati ma sartoriali), maschere, oreficerie, negozi antichi e vintage,
lampioni a gas e si è in mezzo ad un concentrato di bello che nemmeno Parigi ha
in così poco spazio ma anche qui ad un solo blocco dalla caciara pulp al
profumo di vomito che è Bourbon Street è possibile cogliere la magia non sempre
rassicurante di una città che nasconde i suoi segreti. Non c'è nessuno quando
ci passeggio di sera tardi, solo qualche frettoloso passante, i negozi sono
chiusi e si può osservarli nella loro quiete, la luce fioca dei lampioni rende
l'ambiente ottocentesco, New Orleans è una città soffusamente illuminata anche
nelle arterie principali, l'oscurità penetra nei vicoli, c'è fascino e mistero
in Royal Street, chissà cosa doveva essere alla fine del XIX secolo nei giorni
dell'assenzio.
Dopo Katrina New Orleans ha subito delle trasformazioni.
Innanzitutto i segni della devastazione non li si vede, solo di raro, la zona
della Lower Ninth Ward, la più colpita dall'uragano, è ad est lontano dal
centro e se non avete uno scopo preciso è difficile capitarci dentro.
Lentamente sta cercando di risollevarsi, ci sono state fondazioni che hanno
incrementato la rinascita, diversa gente è ritornata dove viveva prima, Brad Pitt nel 2007 ha dato il via ad un'opera
di ricostruzione di 150 abitazioni ma il New York Times nel 2012 ha comunque
definito l'area non un sobborgo ma una giungla. New Orleans dopo Katrina è
diventata una città prevalentemente turistica, ha dovuto superare anni
difficili con una impressionante escalation di crimini di strada tra il 2006 e
il 2008 che spesso ha visto come vittime musicisti e volontari che operavano
contro il degrado sociale, lo spaccio di droga e l'imbarbarimento di certi
quartieri. Gli stessi musicisti, tra i primi a tornare a vivere in città dopo
l'uragano e tra i più solerti a mettersi al lavoro per dare una parvenza di
vita normale dopo il disastro, si sono impegnati in numerose marce di protesta
contro la violenza andando a protestare sotto il palazzo del Municipio e delle
autorità. La storia è raccontata dal giornalista della rivista locale Off Beat John
Swenson nel già citato New Atlantis, un
libro che ha vinto il Press Club
Award ed è stato segnalato da Rolling Stone come uno dei migliori testi dello
scorso anno. Lo vendeva di suo pugno, firmandolo, al VOW di Houma. Oggi New
Orleans è una città relativamente tranquilla e safe almeno nei quartieri centrali, compresi il Faubourg-Marigny un
tempo poverissimo e oggi meta di chi
raggiunge Frenchman Street per ascoltare musica e Treme il più vecchio sobborgo
afroamericano d'America, una volta inaccessibile e oggi teatro di una
riqualificazione urbana e culturale dovuta alla musica e agli artisti. Ci si
può andare tranquillamente, sta al di là di North Rampart Street vicino a
quella che una volta era la piazza dove gli schiavi ballavano e facevano festa
la domenica, Congo Square oggi Louis Armstrong Park. In Treme vi ha sede il New
Orleans African-American Museum of Art, Culture and History oltre al caratteristico Treme Cafè le cui
riviste ed il cui cappuccino val bene una visita. Intorno ci sono abitazioni
che mostrano la dignitosa povertà di un vecchio quartiere afroamericano anche
se sarebbe più giusto dire afroamericano e indiano perché qui gli schiavi
africani si sono incrociati e hanno convissuto con i nativi americani come in
nessuna altra parte degli Stati Uniti dando vita ai black indians. C'è ancora
qualche testimonianza di un recente turbolente passato, ci sono un paio di
abitazioni trasformate in centro culturale per il Mardi Gras e in mezzo a
questa dignitosa povertà non mancano sospette auto di lusso o pacchiane auto che
sembrano sopravvissute all'era Shaft. Tenere gli occhi aperti è sempre consigliato
ma il serial televisivo della HBO con Treme al centro del racconto ha fatto
bene al quartiere pur provocando la discesa in campo di speculatori arrivati
dalla East Coast e dalla West Coast che
comprano case per poi trasformarle mutando così in veste radical chic il vecchio neighborhood a dispetto degli originari residenti. E' la gentrification che avanza. Una
delle istituzioni del quartiere è la Treme Brass Band, la marchin' band più
attiva della città, ogni martedì sera suona all' d.b.a un locale
frequentatissimo di Frenchman Street
dove è facile vederla in azione in tre set di quaranta minuti ciascuno. E' una
vera esplosione di dixieland, ritmi second line e brass music scoppiettante,
rivisti in modo eclettico e spiritoso con una verve e spigliatezza da
travolgente marching band di strada.
Portano in scena la gagliarda euforia del Mardi Gras, la sezione ritmica
è affidata alla tuba e ad un rullante, la frontline è costituita da un bravo
sassofonista (che possono essere Elliott Callier o Frederick Sheppard a seconda
della serata), una tromba (Kermit Ruffins o James Andrews) ed il trombone
(Corey Henry). Il divertimento è assicurato, la gente si accalca attorno al
palco, i musicisti alternano la musica con gag spiritose e interagiscono col
pubblico, c'è chi si lascia coinvolgere e inizia a ballare, tutti bevono.
A New Orleans ci arriviamo domenica 14 ottobre con un veloce
spostamento da Houma. Attraversiamo le ultime cajun parish del viaggio,
Lafourche e St.Charles, ancora baracche prefabbricate per la pesca, piccoli motoscafi
ormeggiati sui canali, bayou, qualche insegna che annuncia pesce fresco e
gumbo, un afroamericano fuma ascoltando la radio, i soliti procioni morti. L'approssimarsi alla
città è segnalato dalla radio di bordo, in una frazione di secondo dalla stazione
sintonizzata spariscono i valzeroni cajun e le ballate malinconiche cantate in
francese ed esce un contagioso e caldo R&B che ti fa capire che siamo
arrivati, The Big Easy è lì davanti. E' un gioco da ragazzi attraversare il
Mississippi a Bridge City, uscire dalla 90 ed infilare la lunghissima
St.Charles Avenue che ci porta dritti dritti nell'albergo prenotato via
internet del Garden District. Questa è la zona più signorile della città coi
suoi viali alberati, bianche case coloniali e creole di grande fascino e elegante
architettura, stupende di sera quando sono illuminate solo da qualche piccola
luce come fosse già Natale, tanti alberi, tanto verde, la zona è attraversata
da quel tram chiamato Desiderio che percorre l'intera St.Charles Avenue e
ricorda i tram verdi che una volta circolavano per Milano. Ci si sente a casa,
la città è a misura nostra e mai ci deluderà, nemmeno per un momento nei cinque
giorni che ci staremo. Giusto il tempo per scaricare i bagagli e siamo subito a
Lafayette Square dove è in corso l'ultima giornata del Crescent City Blues and BBQ
Festival organizzato dalla stessa Fondazione che ad aprile dà vita all'enorme
Jazz-Fest, una delle istituzioni della musica americana che ogni anno oltre
agli artisti locali mette in scena le più grandi star del rock, del jazz, del soul
e del blues. Lafayette Square è nel Business District in mezzo ai palazzi e ai
grattacieli pieni di uffici ma è una piazza occupata da un piccolo parco verde
dove per l'occasione sono state sistemate bancarelle di quadri, monili, arte
povera, t-shirt, cappelli (un vezzo della città, basta guardare le foto di
Dr.John), manifesti, artigianato vario, dischi e CD. Naturalmente c'è anche l'area
food, tutto quello che potete immaginarvi in termini di crostacei, carne,
salse, veggies, tacos, fajitas e via dicendo. Va forte il po-boy,
originariamente il panino del poor boy il quale doveva sfamarsi solo con quello,
quindi una imbottitura di carne o gamberetti con salse generosa e succulenta.
Non c'è invece la muffoletta che è il panino tipico di New Orleans a cui si è
astenuto perfino Roberto. In mezzo ad un pane molliccio ci mettono di tutto,
salame, mortadella, due o tre tipi di formaggio,
cetrioli, sottoaceti e chissà cos'altro. Una bomba, un attentato alle arterie.
Non manca l'immancabile Abita, la birra della Louisiana, pur avendo un colorito
ambrato da birra belga è una mammoletta in confronto alle nostre lager o pils.
Ma siamo venuti per la musica ed è quello che conta, offerta (il festival è
assolutamente free) nel migliore dei modi ovvero all'americana. Due palchi agli
estremi opposti della piazza funzionano alternativamente, quando è finito lo
show nel palco a nord attacca lo show a sud così che bastano pochi metri per
rimettersi seduti sul prato e cambiare scenario. L'acustica è ottima, in ogni
luogo di questo viaggio dove ho ascoltato musica, che sia un bar, un club o un
palco all'aperto, la qualità audio è sempre stata ineccepibile, contrariamente
a quello che avviene da noi dove spesso si rincasa alla fine di un concerto
(l'ultimo in ordine di tempo quello della Band Of Horses all'Alcatraz) con le
orecchie martoriate o con un phon che soffia sul timpano. All'inizio del pomeriggio in Lafayette Square
picchia un sole rovente, il pubblico vaga tra il cibo e le bancarelle, qualcuno
assiste ai primi show. I bianchi sembrano prevalere in numero e con il lento andare
delle ore la piazza si riempie, chi arriva a piedi, col bus o in bici, verso
sera la piazza è esattamente divisa a metà. Tanti i black people dondolanti e
allegri, seduti con le loro vaschette piene di ogni ben di Dio di cibo o in
piedi con in mano un secchio (chiamarlo bicchiere è offensivo) pieno di Coca
Cola ghiacciata, venuti a vedere e ballare un loro beniamino, Clarence Carter,
l'attrazione dell'ultima giornata del Blues and BBQ Festival. Il quale sale sul
palco alle sette di sera e per un'ora delizia il pubblico con un soul-blues
morbido e sinuoso che occhieggia sia al
classico R&B, sia al pop elegante sia al sound urbano di Curtis Mayfield. E'
un crossover ammiccante dai toni melliflui, mi fa capire la lunga strada
percorsa da Robert Cray per arrivare al suo soul-blues, ammiro sia il modo
sciolto di cantare di Carter sia il suo
stile chitarristico molto laid back. La band lo asseconda diligente ma è lui il
mattatore. Lo accompagnano sul palco e gli mettono in mano la chitarra, ha
settanta sei anni ed è cieco, è un po' acciaccato ma possiede un fisico
asciutto e tanta vitalità. Quando inizia a suonare e cantare regala classe e ottima
musica, con pochi accordi ed una voce che è un velluto mette a dondolare l'
intera piazza infilando classici del suo repertorio come Slip Away, Making Love (At The Dark End Of The Street), I Looking For A
Fox, Tell Daddy che sono parte della storia del R&B anche se quello più
easy-listening e contaminato col pop. Le donne si sciolgono, la platea è tutta
per lui e lui la ricompensa con il suo savoir faire raccontando storie
maliziose di donne e sesso, vere o immaginarie. Prima di lui i due palchi del
Blues and BBQ Festival avevano visto all'azione acts più o meno interessanti.
Roba da neri danzanti come Latimore e Ironing Board Sam e puristi come i bravi
Richard Smith, solo con la chitarra e orientato verso il folk e Spencer Bohren,
bluesman di razza purissima capace di rilassare e di incrociare diversi
linguaggi blues. Poi, prima dell'arrivo di Clarence Carter c'erano stati i
lapilli roventi di Miss Lavelle White, una gagliarda signora afroamericana del
1929, per la precisione di Austin, piena di energia e verve, cresciuta sulle
orme di Dinah Washington ma qui supportata da una band black&white ruvida
al punto giusto dove brilla un chitarrista texano secco e nervoso, capace di sprigionare un rock-blues vibrante e
coinvolgente. Peccato aver perso il resto del festival ma in un viaggio non
tutto coincide e col senno di poi saremmo stati un giorno al VOW e due al
Blues&BBQ Fest. Nei due giorni precedenti in Lafayette Square avevano
suonato Little Freddie King, Johnny Sansone, Sugar Blue, Otis Clay e Keb
Mo. Alle 20 in punto il Blues & BBQ
Festival chiude i battenti, la piazza si svuota velocemente, rimaniamo soli con
i volontari che si mettono a pulire e sbaraccare, il tempo di un ultima birra e
rientriamo in albergo non prima di aver incrociato sotto il cavalcavia della 90
il sogno americano nella sua più moderna definizione. Una quindicina di homeless
sistemano i loro cartoni e le loro cianfrusaglie per arredare una possibile
bedroom all'aperto.
Il giorno seguente è di scena l'immancabile Bourbon Street. Ci accoglie col
suo odore di vomito stantio, il suo kitsch, le sue belle case spagnoleggianti
con i balconi di ferro battuto, i suoi
colori, le sue voci, le sue donne, il suo turismo caciarone, i suoi bicchieri
di plastica pieni di margarita e cocktail, i suoi buttadentro neri che sembrano
usciti da un telefilm di serie C, le chiassose rock n'roll band che suonano di
tutto pur di far ballare gli americani della provincia venuti a dimenticare Dio
e la crisi, da Prince a John Mellencamp, dai Supertramp ai Rolling Stones, dai
Creedence agli Areosmith. Una vera tristezza, resa ancor più misera dalla
chiusura (al suo posto c'è un fast food) del locale storico per antonomasia di
Bourbon Street ovvero l'Old Absynthe Bar dove ci hanno suonato tutti i ganzi
della città, compreso Willy DeVille di cui si può vedere un estratto nello
splendido triplo dvd tedesco appena uscito, Still
Alive. Al di là dello squallore con risvolti simpatici, Bourbon Street
rimane una istituzione del divertimento molto cara ai cittadini di New Orleans
che la rispettano e la difendono. Non a caso l'unico locale della città che non
ha serrato i battenti nemmeno per un giorno durante i giorni terribili di
Katrina è proprio un locale di Bourbon Street, la taverna di Johnny White il
cui proprietario Marcy Kreiter si è rifiutato di chiudere anche in piena
tempesta e ha offerto rifugio ai giornalisti e alle squadre d'emergenza. Una
capatina serale in Bourbon Street è d'obbligo ma se siete tipi politicamente
corretti e non sopportate la massa potete andarci il mattino, l'odore di vomito
c'è comunque ma il pubblico è ancora a nanna,
sbronzo dalla serata precedente. Ci sono naturalmente i negozi già aperti, chi
ci lavora e i bar che sciacquano i pavimenti dalla birra ingurgitata a galloni
dalle orde di turisti. Per chi voglia ascoltare buona musica dal vivo non è il
posto più indicato, meglio sconfinare in Frenchman Street appena al di là
dell'Esplanade il viale che limita ad est il French Quarter. Di giorno ci sono
baretti pieni di giornali gratuiti e tipi che lavorano coi loro portatili,
qualche libreria, di sera si raduna la gente che caracolla da un locale
all'altro per vedere e sentire musica. C'è di tutto, rock n' roll, brass band
tradizionali e groove, bluesmen, jazz antico e moderno, gruppi che mischiano R&B
con speziati intrugli locali, quando il
nome in cartello ha una certa risonanza, è il caso della Treme Brass Band al
d.b.a, si paga la cover ovvero 5 dollari
per entrare, altrimenti l'ingresso è free, le birre e gli alcolici costano
normali e se non stazionate troppo a lungo al bancone vicino alla ragazza del
bar potete evitare di essere costretti ad
ordinare a ripetizione perché nessuno tiene d'occhio se il vostro bicchiere o
la vostra bottiglia sono ormai vuoti. I locali più presi d'assalto sono il d.b.a,
il Blue Nile, lo Snug Harbor, lo Spotted Cat, il BMC, la Maison, l'Apple
Barrel, nella stessa sera potete passare dalla Treme Brass Band ad Andy
J.Forest, dal Mojo Combo ai Pocket Monster a Jamey St.Pierre and The
Honeycreepers, gente sconosciuta che suona con tutta l'anima in corpo perché sa
che deve intrattenere più pubblico possibile
visto che a nemmeno dieci metri c'è un altro locale ed un'altra band
all'azione. Inutile perdersi in dettagli, una volta che entrate in Frenchman
Street non ci uscite finché le vostre
gambe non supplicano pietà e il vostro corpo chiede solo una cosa : il letto. Quello
che vi immaginate sia New Orleans per la musica, quella di strada e dei club
che sorge dal basso e non ha intermediazioni, Frenchman Street ve lo dà. In modo
assolutamente cheap. Frenchmen Street funziona tutti i giorni della settimana,
i locali storici e gloriosi dove vanno a suonare i nomi di grido come il Maple
Leaf, l'Howlin' Wolf, il Tipitina e l'House of Blues stanno in altre zone della
città più esterne e hanno solo alcune serate programmate, principalmente nel
fine settimana. Se non volete finire tristi a bere appoggiati ad un bancone di
Bourbon Street pensando a Tom Waits in The
Heart of Saturday Night, Frenchmen Street è il posto più adatto per alzare
il tiro.
Che la musica sia la regina della città lo si sente anche
nei negozi. Quando mai da noi capita di entrare in un negozio di cianfrusaglie,
abbigliamento, libri e manifesti o addirittura alimentari e sentire una che
canta il blues con un'anima ed un trasporto tale che non si può fare a meno di
chiedere di chi si tratta o quale disco sia.
Perché il più delle volte è gente mai sentita e sconosciuta che canta dal
paradiso (o dall'inferno fate voi). Anche nel French Market che è un mercato
all'aperto di spezie e di cose turistiche dove nei chioschi si mangia bene una
cucina casalinga con pochi dollari la musica gira a mille tra banchi, tavolini
e bancarelle trasmettendo un benessere che non esiste in nessuna altra città al
mondo, almeno di quello inteso come "occidentale". Purtroppo anche
The Big Easy ha dovuto sottostare al dominio di internet ed i negozi di dischi,
una volta numerosi, adesso scarseggiano anche lì. Resiste il Louisiana Music
Factory che sta in Decatur St. proprio di fronte all'House of Blues ed è un
indirizzo storico. Ha una galattica selezione di musica locale, jazz, blues,
cajun, zydeco, R&B, swamp-rock, brass-band, di New Orleans e della
Louisiana e poi il catalogo normale di rock e pop. All'entrata sono esposte le
novità, al piano superiore ci sono i vinili, prezzi abbordabili e ottima
selezione, esiste ancora l'ascolto in cuffia per cui potete sedervi su uno
sgabello e scegliere tra una ventina di CD proposti prima di acquistare. Non
aspettatevi la FNAC o la Virgin, siamo a New Orleans, tutto sa di antico e
vissuto, è un negozio vecchio stampo dove potete scartabellare tra dischi e CD
e nessuno vi rompe le scatole. Ma il negozio di dischi più assurdo che mi sia
capitato di trovare nella mia vita sta lontano dal French Quarter, in Magazine
Street che è una via lunga parecchie miglia che va dal centro alla periferia
ovest. A tratti è una via residenziale, qualche blocco dopo diventa una specie
di grazioso agglomerato di negozi alternativi, bar, gallerie, flea store,
ristoranti, poi dopo altri blocchi subentra il degrado, un depresso minimarket
con tanto di inferriate contro i furti e merce tra gli scaffali tipo Unione
Sovietica periodo guerra fredda, negozi chiusi e sbarrati, qualche barbone,
immondizia in giro, poi più avanti ancora un agglomerato di vita e così via. Ci
passa l'autobus n.11 ed è facile andarci, al numero 1837 c'è Jim Russell's Rare Records, un
cadente magazzino che in un disordine totale offre centinaia di 45 giri,
vinili, locandine e CD. Appena arrivati si ha l'impressione di essere capitati in
una miniera d'oro ancora da sfruttare, poi la fibrillazione scema, in un'ora di
ricerche non sono riuscito a trovare nemmeno un CD che valesse la pena
comprare. Molta fuffa e tenuta male. Una donna bianca, sciatta, pigra, con
sigaretta e birra stazionava su uno sgabello guardando la Tv in pieno
pomeriggio incurante del casino che aveva intorno perché oltre alla tanta fuffa
in vendita c'era anche il problema di come organizzare la ricerca visto che di ordine
alfabetico nemmeno a parlarne e così di divisione in generi. Lo stesso artista
lo potevi trovare in più scaffali ed in più punti del locale, i vinili erano
abbandonati all'azione dell'umidità, avevano copertine spesso lacerate, rare perle
del blues e del jazz anni cinquanta ammiccavano supplicanti in condizione
pietose, i 45 giri erano accatastati
come se fossero pronti da portare in
discarica, la disposizione del materiale non seguiva nessuna logica. Certo di roba ce ne era in abbondanza ma forse
occorreva stare una settimana per ricavare qualcosa di utile, per di più i
prezzi erano tutt'altro che convenienti. E la cosa più sorprendente in mezzo a
tale confusione, che procurava le lamentele della padrona era il disastro che
l'uragano Isaac aveva causato. Una parte del soffitto in cartongesso era difatti
crollato e l'acqua aveva bagnato i CD sottostanti. Ma dopo qualche mese dal
passaggio di Isaac i CD si ritrovavano ancora nei loro verdastri involucri di
cellophane inumiditi dall' acqua salmastra che era filtrata dentro. Nessuno ci
aveva posto rimedio, fatto nulla per quei poveri CD a bagno nelle wetlands. La tipa, una autentica white trash woman, si
lamentava delle autorità locali che avevano approfittato dell'uragano per
aumentare le tasse ma, impegnata a vedere la Tv, sembrava non avesse cura per
le sue creature, lei aveva lascite così dal giorno dell'uragano senza degnarsi
nemmeno di una asciugatina. Perplessi guadagniamo la strada del Garden District
approfittando di un decoroso Fresh Market per comprare una bottiglia di
Sauvignon da bere in camera d'albergo davanti al secondo round Obama-Romney.
Il voodoo è una cosa che vi appioppano dovunque a New
Orleans, parlo della sua rappresentazione turistica di immagini, t-shirt,
libri, poster, cappelli, salse e peperoncini. C'è un Hoodoo Emporium in
Pirate's Alley sufficientemente sinistro e tetro che vende pozioni, erbe e
polveri magiche, amuleti, serpenti e insetti imbalsamati, libri sull'argomento,
il tutto fai da te per un hoodoo domestico e c'è un Museo del Voodoo piuttosto
approssimativo con reperti trovati sul campo, avanzi di riti, teschi, altarini
e quant'altro ma i miei compagni di viaggio non sembravano interessati al lato
oscuro della città ed io personalmente questo aspetto lo avevo esplorato, incluso
il vero e inquietante Voodoo Spiritual Temple in North Rampart Street, la
scorsa volta che venni a New Orleans "costruendoci" sopra con tanto di
foto (una delle quali lasciò di stucco Willy DeVille che in un'intervista mi
disse riferendosi ad uno dei fotografati giro : questo tipo lo conosco, è pericoloso, sgozza i galli !) un articolo intitolato
Bayou des Mysteres pubblicato dal Buscadero. Il Voodoo Spiritual Temple è a
pochi passi dal J&M Studio di Cosimo
Matassa, uno dei padri del New Orleans sound. Tra il 1947 e il 1956 Matassa insieme
col produttore e arrangiatore Dave Bartholomew fece registrare in quegli studi alcuni
tra i più famosi musicisti di R&B e rock n'roll tra cui Little Richard,
Professor Longhair, Smiley Lewis, Roy Brown, Lloyd Price e Shirley and Lee.
Cosimo Matassa, nato nel 1926 è ancora vivente ed è stato promosso quest'anno
nella Rock and Roll Hall of Fame di Cleveland ma tristemente il J&M Studio
è oggi una lavanderia automatica dove le lavatrici e le centrifughe per asciugare
stazionano sotto una serie di foto di artisti che testimoniano dell'illustre
passato. Non si è preservato un monumento della storia musicale della Big Easy,
ritratti di Dr.John e Billie Holiday convivono fianco a fianco con detersivi e
biancheria sporca, due targhe all'entrata sono l'unica cosa che ricorda una
delle mecche della nascita del rock n'roll oltre ad un juke box funzionante
inspiegabilmente abbandonato nel locale.
Oggi la mecca del rock n'roll a New Orleans, oltre al
Tipitina è la House of Blues di Decatur Street nel Quartiere Francese. La House of Blues è una struttura
perfettamente idonea per ascoltare musica dal vivo, c'è un patio esterno dove
si esibiscono in acustico bluesman e artisti di contorno e c'è un locale
interno tutto in legno arredato come un saloon, con diversi banconi per il
bere, impreziosito da quadri tutti concernenti la musica, in particolare il
blues, dipinti coi colori vivaci del sud e realizzati anche loro in legno con
quella artigianalità tipica dell'arte rurale afro-americana. Suggestivo il
contorno, ottima l'acustica, pratico l'ambiente, c'è un locale adiacente al
saloon dove prima dello show è possibile mangiarsi dei buoni hamburger in santa
pace, niente a che vedere con quelli delle catene. Mercoledì 17 ottobre, l'ultima
sera in città, alla House of Blues è in programma il concerto di John Hiatt col
suo Combo. Non ce lo facciamo scappare, è uno dei miei songwriter americani
preferiti, ha appena dato alle stampe il pregevole Mystic Pinball e prima di
partire ci eravamo organizzati per prenotare via internet i biglietti. Lo show è
stupendo, la cornice ideale, il miglior modo per accomiatarsi da New Orleans.
Se volete conoscere il concerto nei dettagli e nelle emozioni vi invito a
procurarvi il numero di novembre del Buscadero dove c'è l'intera recensione.
L'ultima giornata a New Orleans era cominciata nel migliore
dei modi. Nicola aveva fin dalla partenza palesato l'intenzione di comprarsi
una chitarra usata e strada facendo avevamo incontrato a Houma chi ci aveva dato
l'indirizzo di un posto dove trovare chitarre vintage a New Orleans. In realtà
questo venditore sta in un sobborgo di New Orleans al di là del Mississippi,
Algiers, patria di diversi bluesmen e sede di un rinomato studio di
registrazione dove hanno inciso il loro ultimo album i Calexico. Ci andiamo
prendendo il ferryboat vicino all'Aquarium e attraversiamo il grande fiume
godendoci la vista della skyline della città in una giornata di cielo blu.
Sbarcati ad Algiers cerchiamo il nostro posto, facile da trovare perché vicino
all'attracco. Non si tratta di un negozio ma di una modesta ma caratteristica
villetta in legno con annesso giardino su cui troneggia l'insegna Vintage Guitars. Apre a mezzogiorno,
sono le undici, facciamo un giro, beviamo una Coca Cola nel vicino pub, fa
caldo. A mezzogiorno ci presentiamo puntuali, il cancelletto è aperto, entriamo
nel giardino e poi ci infiliamo in una specie di dependance-laboratorio dove ci
sono fili, saldatori, morsetti, attrezzi da lavoro, chitarre appese al muro,
uno stereo, un divano ed una poltrona mezza sfasciata, manifesti di concerti e
club, un ventilatore che gira a palla.
Il disordine è quello tipically american, non c'è nessuno e anche quando
chiamiamo non risponde nessuno. Ci sono Telecaster appese che farebbero la
gioia di Keith Richards ed un paio di Les Paul che manderebbero in giuggiole
Warren Haynes ma non c'è nessuno. Dopo un po' di minuti Nicola entra nella
abitazione principale e strilla hey man,
una voce risponde che è sotto la doccia e arriva subito. Quando compare si
capisce che è un sopravvissuto di Woodstock, capelli lunghi arruffati, magro, barbetta
bianca, sembra vagamente Gregg Allman, porta jeans sgualciti e t-shirt
spiegazzata, sguardo furbo, poco meno di sessant'anni. Suona in una band locale
che fa CCR, Stones, Flying Burrito Brothers, Beatles, Animals, Van Morrison, lo
vediamo dalla playlist scritta a mano che c'è sul tavolino, capiamo che è the right man at the right time. Nicola
inizia a provare le chitarre, Telecaster nera degli anni sessanta e Telecaster
nera degli anni settanta mentre il nostro uomo si trincera dietro ad un Mac che
così grande non ho mai visto e si perde nelle sue cose. E' come fosse assente,
lascia che le cose vadano nel più assoluto take it easy, non cerca di vendere a tutti i costi, passa le
chitarre da provare a Nicola e aggiunge solo brevi informazioni sullo
strumento. Roberto ed io siamo beati e rilassati sul divano, le Telecaster sono
una più bella dell'altra, con quell'aspetto vissuto e "sfregiato" che
solo una chitarra vintage possiede e sembra raccontare chissà quante notti di
rock e di blues, la prima ha un suono fifties alla James Burton, uno dei
chitarristi di Elvis, l'altra identica
ma più giovane è calda e blues, bella anche lei. Preferisco il suono di quella
più vecchia ma io so suonare a malapena lo scacciapensieri. Nicola infila lo
spinotto nell'ampli, sente i suoni, accenna Pride
and Joy di Steve Ray Vaughan, gongola e pensa al prezzo, lo vediamo
concentrato sulle corde e sui conti, 800 dollari non sono bruscolini. Dopo una
decina di minuti sembra desistere, noi siamo in po' delusi e il venditore non
fa una piega.......... spiega Nicola che di Telecaster ne ha già una a casa,
non si sente di affrontare una spesa così impegnativa, poi il tipo compare con
una giapponese del 72, una Univox modello hi-flier di colore nero. E' fatta, è amore a prima vista, dopo pochi
accordi Nic la sente sua, il suono gli va, il look anche, il prezzo è
ragionevole. La pratica dell'acquisto non richiede più di cinque minuti. Quando
torniamo nelle stradine di Algiers non siamo più tre turisti italiani ma siamo
diventati un power trio, Nic ha la sua vintage
guitar a tracolla nel fodero, Roberto suona da tempo la batteria, io, un
talking blues con l'armonica prima o poi lo faccio anch'io. Con tutto il
Mississippi che ho visto qualcosa mi sarà pur entrato dentro.
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