La solita vecchia
storia. L'inizio promettente come country-singer ed autore di canzoni,
la gavetta con la band The Fields, due dischi all'attivo come solista
negli anni novanta (Dreams & Saturday Nights del 1994 e Desire Road del 1997)
svaniti nel nulla nonostante i titoli "filmici" e le ottime
recensioni nel mondo del country, un amicizia consolidata col maestro Doc Pomus, qualche canzone nella heavy
rotation delle stazioni radio country americane e canadesi, sostanzialmente una
carriera promettente ma ferma in rampa di lancio, fino all'inevitabile periodo
depressivo coincidente ai problemi di una madre gravemente malata e sola. Un
lavoro come magazziniere per poter procacciare i soldi delle cure mediche e un
graduale scivolamento nelle spire della dipendenza. Eroina per di più, il
conseguente deperimento fisico e diverse ricadute, dentro e fuori dai centri di
riabilitazione fino ad una ennesima e quasi fatale overdose. Sopravvissuto per
miracolo viene preso sotto cura da Buddy Arnold, fondatore del Musicians
Assistence Program, che lo porta a Los Angeles ( Woodruff è nato nel 1961 a New
York) e lo costringe a seguire un impegnativo programma di riabilitazione che lo libera dalla dipendenza e lo
ripulisce. Una storia simile a quella di molti outlaw del country, Steve Earle su tutti, qui senza galera e
vistosi guai giudiziari, finita bene e
argomento di una storia raccontata da William Michael Smith sulle pagine del
Houston Press e usata da Jesse Kornbluth
del Huffington Post come paragone al
Jeff Bridges del film Crazy Heart. Il finale è
positivo, non ci sono bandiere a stelle
e strisce che sventolano nell'ultimo fotogramma del film ma il recupero fisico
e artistico di Bob Woodruff , ancora tra
noi con le sue canzoni, il suo talento ed un nuovo disco, The
Year We Tried To Kill The Pain, titolo
esplicativo sulla sua redenzione. Uno di quei dischi di songwriting al suono
del rock che se fossero usciti all'inizio degli anni ottanta si sarebbe
guadagnato lodi e segnalazioni da entrambe le sponde dell'Oceano, specie sulle
riviste che bazzicano il confine tra canzone d'autore e roots- rock . Il disco
del ritorno è stato registrato in Svezia, nuova frontiera del rock e del
noir, con un team di musicisti locali ma
con l'aiuto significativo di Benmont Tench al piano e all'organo,
presenza che sposta il baricentro della musica di Woodruff, un tempo orientata
verso il country, in direzione di un rock d'autore con forti accenni pettyani.
Lo si avverte immediatamente, nell'iniziale I
Don't Know, biglietto da visita di quella che è la parte rock del disco,
chitarre in odore di Byrds, voce alla Petty,
melodia ariosa, vento nei capelli e strade di California. Un bell'inizio per un
disco senza smagliature, gradevole e fresco, di una piacevolezza estrema, ben
cantato e ben suonato, con Woodruff che non ha smarrito la cura dei dettagli e
la brillantezza compositiva, un mix di eleganza, appeal sixty-pop appreso da Doc
Pomus e tocco rootsy all' americana. Sono
diverse le tracce che viaggiano su questa corsia, I'm The Train sembra uscita
da un disco di Roger McGuinn grazie
anche all'agile arpeggio chitarristico di Woodruff, così come I'm
Losing You , pedal steel e country-rock alla maniera di Petty e la dolorosa
The Year We Tried To Kill The Pain, viaggio
autobiografico in una esistenza devastata da alcol, droghe, incontri d'amore
nella notte di Memphis sull'erba di Graceland (dopo averne scavalcato le mura)
e soldi che finiscono, chiusa da un' insistente richiesta di salvezza
attraverso l'amore. Mai banali i testi di Woodruff anche quando trattano una
semplice love song, nella lenta e accorata Feel Way I Feel, nella sussurrata e acustica If I was Your Man e nella
lacrimosa So Many Teardrops. In Paint
The Town Blue si sente l'eco dei Beatles, nella scoppiettante Bayou Girl
tra cipressi, spanish moss, paludi
e swamp-blues si fa largo il piano boogie di Benmont Tench . Bob Woodruff non
nasconde il suo ritrovato benessere facendosi fotografare in copertina e nel
booklet in compagnia di una maliziosa signorina in guepiere. Tutte sue le
canzoni ad eccezione di una rallentata e crepuscolare versione di Stop In The Name of Love del rinomato team Holland-Dozier-Holland.
MAURO ZAMBELLINI
1 commento:
intrigante
Posta un commento