Adesso che
se n'è andato sale una tremenda nostalgia. I suoi problemi di salute erano noti
ma il fatto che negli ultimi due anni fosse tornato a suonare da noi sembrava
il sereno dopo la tempesta. Lo vidi l'ultima volta nel febbraio del 2012 a
Cologne Bresciano, salì sul palco un po' traballante, si sedette
sulla sedia, controllò la chitarra e partì in quinta per un'ora e
dieci minuti di ribollente rock-blues fugando ogni dubbio e confermandosi uno
dei grandi maestri del genere. T-shirt nera, pantaloni scuri, cappello western
calato sugli occhi, magro e pallido come un fantasma, Johnny Winter non si
risparmiò ed infilò uno show rimastomi nel cuore. Un rock-blues secco,
asciutto, concentrato, potente, una sintesi senza trucchi, fronzoli e
divagazioni di radici e feeling, una cotoletta cotta al punto giusto con patate
di contorno. Niente di più niente di meno. Quando, dopo un'ora di blues sparato
a mille, Johnny Winter finalmente si alzò dallo sgabello ed il microfono venne
posizionato alto si capì che si era alla fine del concerto, Johnny Winter aveva
ormai un'autonomia di poco più di un'ora ma in quell'ora diede tutto al meglio,
un maestro. L'albino sembrava un vecchio sciamano di qualche tribù del deserto,
impugnò la Gibson Firebird e con la slide
fece delle memorabili Dust My Broom e
Highway 61 come bis.
Nato nel 1944, Johnny Winter è stato
l'archetipo del guitar hero un po'
maledetto ed il primo dei chitarristi contemporanei a emergere dal Texas,
sebbene i suoi natali siano nel Mississippi. E'stato una delle figure cruciali
del rock-blues americano degli anni settanta associando la lezione di Lightnin'
Hopkins e T-Bone Walker al tagliente suono slide di Elmore James e alle corde
tirate allo spasimo di Albert King. Dotato di una voce aspra e urlata che deve
molto a quella di Blind Lemon Jefferson, Johnny Winter ha saputo sposare la
purezza del blues con i pruriti elettrici e le durezze del rock divenendo, tra
gli anni sessanta e la decade successiva, estremamente popolare tra il pubblico
bianco dei mega raduni pop. Tanti i dischi meritevoli d'acquisto della sua
lunga discografia, adesso che se ne è andato il
ricordo va all'incisione più vicina,il dignitosissimo Roots
del 2011.
Chi volesse invece avere una sintesi della sua avventura può
ricorrere a The Essential, pubblicato lo scorso anno, due CD che fotografano la sua
produzione dall'esordio su Columbia nel 1969 con l'omonimo Johnny Winter fino a Raisin
Cain' del 1980, ovvero il suo periodo migliore, attraversando tutti i
suoi album più riusciti ovvero Second Winter, Johnny Winter And, Saints and
Sinners e Nothin' But The Blues. Da
questi dischi arrivano chicche come
Dallas, prima rivelazione dello Winter con la slide, seguita dall'altra
perla in termini di slide quale TV Mama, da
una Rock and Roll Hoochie Koo che
fonde il blues di Winter con l'hard rock di Rick Derringer e Lou Reed, dalla
scrittura tradizionale di Leland
Mississippi Blues, sua città natale al r&B con tanto di fiati di Miss Ann, dalla melodica I'll
Drown In My Tears alla sudista Prodigal Son (sembra di sentire i
migliori Lynyrd Skynyrd), dal Delta di Sweet
Papa John fino a quella che rimane la sua cover più esplosiva, una
rivisitazione di Highway 61 che fa
letteralmente a fette quella di Bob Dylan. Tanti i brani estratti dagli album
citati, ai quali vanno aggiunti White, Hot & Blues del 1978 e John
Dawson Winter III del 1974. A
coronare l' eloquente The Essential, un modo piuttosto
sbrigativo ma quanto mai efficace di coprire i suoi anni migliori, ci sono i
brani live, più di un terzo delle 34 tracce che compongono il doppio CD. Sono
estratti dai formidabili Live at Fillmore East 10/3/70 (una Good
Morning Little Schoolgirl alla velocità della luce), da Johnny
Winter And/Live ( l'epica It's My
Own Fault e la scatenata Jumpin' Jack
Flash), dal devastante Still Alive and Well, da Captured
Live del 1976, da Together
(una funkissima Harlem Shuffle con Edgar Winter da
relegare in soffitta la versione dei Rolling Stones) e da The Woodstock Experience (
tra cui una splendida Mean Town Blues),
album quest'ultimo pubblicato solo nel 2009.
Una saggia decisione quella di
documentare il Johnny Winter live perché sotto i riflettori l'albino maledetto
ha dato il meglio di sé, il palco è la sua vera casa ed il suo blues-rock ha
trovato modo di rivelarsi in riff acrobatici, in serratissimi giochi di slide,
in esplosioni di energia pura, in torrenziali flussi di gioia ed eccitazione ma
anche in acuti di dolore e sofferenza come solo un vero bluesman può esprimere.
Johnny Winter ha vissuto il blues nella sua essenza più profonda, quello che il
texano ha imparato dai suoi maestri non sono stati gli accordi e lo stile ma il
feeling e la spontaneità. Johnny Winter
è stato uno grande bluesman bianco, uno dei primi a capire cosa volevano le masse
del rock dal blues. Sia pace all'anima sua.
MAURO ZAMBELLINI
2 commenti:
quando al concerto a cui ho assistito lo vidi entrare sul palco accompagnato da due energumeni e sistemato su una sedia mi sono detto che ci sarebbe rimasto secco lì, ma quando è iniziato il concerto c'è stata la trasfigurazione e ho visto fuoco e fiamme
Era lui l'unico vero Jack lampo-che-guizza.Per me una spanna sopra anche a Stevie Ray.
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