E' diverso tempo che manco da questo blog, un po' di
impegni, problemi vari, molta pigrizia, e poi perché bisogna scrivere per forza
se non si ha nulla da dire o da segnalare ? Ritorno con questo Summer In The
City, titolo suggeritomi da una strepitosa canzone del 1967 dei Lovin' Spoonful che con lucidità
fotografa la mia situazione di esiliato in città in questa torrida estate del
2015. Quella canzone dei Lovin' Spoonful fu tra i primi 45 giri che acquistai quando
ero pischello, esattamente a diciassette anni ma già fulminato dal rock e dal
beat. I Lovin' Spoonful erano di casa a New York anche se non tutti erano originari della
Grande Mela, ed avevano come cantante un simpatico e arguto songwriter, John Sebastian, uno innamorato di jug
music, dixieland e folk-rock. Assieme al chitarrista Zal Yanowski, altro geniaccio beat poi allontanatosi dal gruppo
perché beccato a Berkeley con della marijuana e costretto a spifferare i nomi
di chi gliela aveva passata, al bassista Steve Boone e al batterista Joe Butler
coniarono una originale miscela di pop, rock, jug music e folk che venne
chiamata good time music per le buone
vibrazioni che trasmetteva, un misto di melodie scanzonate, pigre e sognanti
ballate e pop urbano con qualche pennellata di esistenzialismo beat. Qualcuno
li definì, in modo del tutto inappropriato, la risposta americana ai Beatles,
in realtà incarnavano con le loro canzoni
strambe e il loro atteggiamento bohemienne tra vecchi beatnicks e nuovi hippies,
il lato meno serioso ed impegnato della musica che usciva dal Greenwich Village,
pur con testi affatto banali. Venivano dall'ambiente dei campus universitari ma
non avevano l'aria dei professorini e dei nuovi predicatori folk, piuttosto
sembravano dei trovatori che cantavano il lato ameno e disincantato di
un'esistenza che si prendeva gioco di conformismi, convenzioni, grigiore
middleamericano.
Il cinema si accorse di loro, Francis Ford Coppola li usò
nella colonna sonora di You're A Big Boy Now,
Woody Allen in What's Up, Tiger Lily,
film praticamente mai visti alle nostre latitudini. Il loro primo singolo
del 1965 già esplose come una bomba, Do
You Believe In Magic, e finì nelle top ten americane ma il '67 fu per loro
l'anno della consacrazione, prima con Daydream
e poi con quella Summer In The City che
ti catapultava di netto nell' afosa estate newyorchese
di downtown, con l'umidità che dai solchi sembrava appiccicarsi addosso, la
voce randagia come un gatto prigioniero di una città che non ti dà scampo, il
piano che incedeva ossessivo, il refrain insistente, quei clacson schiamazzanti e quel martello
pneumatico che trivellava l'asfalto ed il cervello dell'ascoltatore con un
rumore che te lo portavi addosso per tutta la giornata. Una grande canzone,
semplice ma esplicativa di uno stato d'animo e di una situazione ambientale
perfettamente metropolitana. Un quadro urbano
di una espressività straordinaria, la dimostrazione di come un insieme di suoni
e rumori possa essere più rappresentativo di un film o un brano letterario.
Bene, anzi no, il mio summer in the city non
ha il martello pneumatico che trivella sotto casa, almeno quello dopo un paio
di giorni avrebbe finito, ma il rumore assordante di aerei che ad ogni ora del
giorno e molte ore della notte volano sopra la mia testa e la mia abitazione
minando la mia tranquillità, i miei nervi ed il mio ascolto. Adesso che
Malpensa è stata "rilanciata" dai voli low-cost e dai cargo merci che
volano a bassa quota e fanno un rumore infernale, la situazione è diventata
insostenibile, specie nel periodo estivo. I politici (di qualsiasi colore) sono
contenti di questo aumento del 4% dei voli estivi ma loro abitano lontano dal
rumore e dall' inquinamento, in altre città, e purtroppo sono contenti anche molti
cittadini che in cambio di un paventato posto di lavoro, che nella maggior
parte dei casi si traduce in contratti iper-precari, condizioni di lavoro pessime,
rapporti di lavoro ricattabili in ruoli che spesso prevedono la scopatura delle scale
di servizio, la pulitura dei cessi, l'imburrare panini al bar, l'
impacchettatura bagagli all'entrata, sarebbero disposti anche a far entrare
l'aereo in casa loro a cenare con la famiglia. Altro che No Tav, qui sono
disposti a tutto, anche allo schiavismo. Non entro nella questione, il lavoro è
garanzia di dignità e futuro, ma questo deve essere dignitoso e assoggettato a
regole, diritti e doveri scritti e condivisi, che oggi non ci sono, ed un
aeroporto col suo traffico aereo ed il suo indotto deve essere rispettoso della
vita dei cittadini che ci abitano attorno, anche di quelli che dell'aeroporto
farebbero benissimo a meno. Invece negli anni non c'è mai stata una seria valutazione
di impatto ambientale, che sia poi stata realmente valutata dalle autorità
scientifiche competenti, cosa che avviene in tutti i paesi del mondo ed invece
la prospettiva è quella di aprire ancor di più le porte a cani e porci, vecchi
vettori fracassoni e cargo-merci che fanno un rumore infernale e ti svegliano
di soprassalto in piena notte, pur di avere traffico e business, e of corse giro di mazzette. Quando li
vedo salire gli aerei, abito al quarto piano di un palazzo con davanti poche
case e i boschi che scendono verso l'aeroporto, una volta portatori di sintesi
clorofilliana oggi sede di enormi parking con cui i proprietari di quei terreni
si sono fatti i soldi alla faccia dell'ambiente e del paesaggio,
e li vedi arrivare con le loro luci rosse, bianche e verdi e la sagoma di un uccellaccio
sornione da lontano ma aggressivo da vicino, vorrei tanto trovarmi in un
videogioco ed abbatterli con un colpo secco, liberatorio, consapevole poi di
aver fatto delle vittime innocenti. Francoforte che è uno dei maggiori hub
europei, chiude di notte per salvaguardare la salute e la tranquillità dei
propri abitanti, da noi invece porte aperte a tutti ad ogni ora del giorno e
della notte, anche ai tedeschi che fanno da noi quello che non possono fare da
loro. Spesso ascoltare un disco è un'impresa e non basta mettere a tutto volume Jet Airliner della Steve Miller Band per lenire la pillola. Torniamo
a terra e scusate lo sfogo, Summer In The
City la potete trovare nell'album Hums, il migliore tra quelli
realizzati dai Lovin' Spoonful, ri-ri-ri ristampato proprio in questi giorni.
Sono poche le novità nel rock che mi hanno colpito, ma la
spiegazione è che sono diventato difficile e compro dischi sempre più raramente,
così come centellino i concerti, sempre più cari. Ho evitato di sborsare 90
euro o giù di lì per l'ennesimo concerto di quel santo che ti fa capire quale
canzone ha cantato solo il giorno dopo, quando in internet leggi la scaletta
della sera precedente. Mi sono piaciuti per onestà e musicalità, a loro modo
molto diversi, John Hiatt al
Carroponte di Sesto San Giovanni (la recensione la potete leggere sul Buscadero
on line) e i Counting Crows nel
caldo torrido di Pistoia Blues, concerto
sudato e lirico, Duritz all'altezza del suo carisma, per nulla star ma grande
elargitore di ballate spirituali e visionarie tra il cielo e la terra che hanno
il potere di trasmettere benessere e positività anche quando parlano del lato
sbagliato della strada. Degna apertura di serata con Arianna Antinori and Turtle
Blues per l'occasione rimpolpati di sax e tromba. Sul grande palco Arianna
e soci non hanno sfigurato, anzi hanno superato l'esame di maturità, lei ha
grinta da vendere e ci crede, loro ci mettono l'anima e maneggiano bene gli
strumenti.
Acquisti pochi quindi, mi salvo ascoltando dischi e CD
che già posseggo, che sono tanti, la soundtrack quotidiana è peraltro garantita
e non mi annoio, così come non si lamentano i vicini (ci mancherebbe, col
casino che fanno gli aerei) anche quando il volume è over. Un buon dischetto è
quello dei Banditos, copertina in stile outlaw e biker, un arzillo
mix di roots-rock, southern rock, boogie, hillibilly e qualche ballata sciogli cuore.
Cantano in tre, il chitarrista Corey Parsons,
il banjoista Stephen Pierce e la vulcanica Mary Beth Richardson, la
Janis della situazione. Proprio l'alternanza delle voci permette una varietà
che non guasta e pur non essendo propriamente originali si lasciano ascoltare
con piacere vagando con una certa anarchia tra un sanguigno boogie sudista e l'hillibilly
gotico dei primi 16 Horsepower, il roots-rock agro-urbano dei Drive By Truckers
e qualche atmosfera bucolica che allenta la tanta energia e l'atteggiamento
fuorilegge di questi Banditos.
Un pimpante disco di blues arriva da uno che ha 82 anni e ha già realizzato tra live, studio e quant'altro, 62 dischi. Lui è John Mayall ed il suo Find Way To Care dimostra come il blues sia un elisir di lunga vita. Mayall è uno straordinario cantante/musicista "fresco e vivace" anche alla sua età, qui lo dimostra con una band ridotta all'osso che lo segue come un segugio mentre lui si limita a qualche colpo con l'armonica e la chitarra per dedicarsi in lungo ed in largo al pianoforte e all'Hammond. Il risultato è un blues che mette insieme vagiti antichi di British blues alla Spencer Davis Group, primi Moody Blues con la West-Side di Chicago e con Muddy Waters, tutto secondo lo stile e l'inconfondibile voce di un bluesman bianco che a suo tempo è stato innovatore e rivoluzionario ed è passato da pioniere a veterano senza colpo ferire e senza piangersi addosso. Un gigante, un uomo di blues inossidabile ed intelligente, John Mayall di Manchester.
Un pimpante disco di blues arriva da uno che ha 82 anni e ha già realizzato tra live, studio e quant'altro, 62 dischi. Lui è John Mayall ed il suo Find Way To Care dimostra come il blues sia un elisir di lunga vita. Mayall è uno straordinario cantante/musicista "fresco e vivace" anche alla sua età, qui lo dimostra con una band ridotta all'osso che lo segue come un segugio mentre lui si limita a qualche colpo con l'armonica e la chitarra per dedicarsi in lungo ed in largo al pianoforte e all'Hammond. Il risultato è un blues che mette insieme vagiti antichi di British blues alla Spencer Davis Group, primi Moody Blues con la West-Side di Chicago e con Muddy Waters, tutto secondo lo stile e l'inconfondibile voce di un bluesman bianco che a suo tempo è stato innovatore e rivoluzionario ed è passato da pioniere a veterano senza colpo ferire e senza piangersi addosso. Un gigante, un uomo di blues inossidabile ed intelligente, John Mayall di Manchester.
Di blues si
parla anche in due dischi italiani, quello della Gnola Blues Band, Down On The Line, riuscito sforzo di
portare il blues a pascolare fuori dal recinto, con un aperto ricorso alle
ballate, tutte eccellenti, e ad un rock melodico, naturalmente tinto di radici
blue, che può far storcere il naso ai fondamentalisti del genere ma soddisfa il palato eretico di quanti trovano il blues anche nei Rolling Stones, in Graham
Parker, nella Frankie Miller Band, in John Hiatt, Ry Cooder e Sonny Landreth.
Consigliato in macchina a volume alto. Contiene una personale versione di Ventilator Blues e in due brani c'è
l'inconfondibile tocco di Chuck Leavell.
Il secondo disco è quello di Paolo
Bonfanti, genovese trapiantato a Casale Monferrato, anche lui ultimamente
annoiato di solo shuffle e ortodossia in dodici battute. Nel suo nuovo disco Back
Home Alive rilegge con la sua
band alcuni brani della sua passata produzione rivestendoli di nuove sonorità e
rivisitandoli con nuovi arrangiamenti, spesso arditi e coraggiosi. Un ruolo centrale la gioca la fisarmonica
(Roberto Bongianino) che dona all'intero set un deciso orientamento roots, accentuato
dal lavoro di Steve Berlin (Los
Lobos) come produttore. Il mood è puro roots rock americano, tra intenti
cantautorali (le canzoni di Bonfanti) e attitudine da rock band tra Lobos,
Blasters e sapori louisiani, con cover centellinate tra Who (The Seeker), Van Morrison (A Nickel and A Nail) e Grateful Dead (Franklin's Tower). Due dischi che
dimostrano la maturità di quella generazione di bluesmen italiani ormai maturi
nelle loro escursioni oltre confine
.
.
I Lucero sono
una band che agli estimatori del roots-rock o alternative country è sempre
piaciuta sebbene non abbiano mai raggiunto lo status e la brillantezza dei
Drive By Truckers e nemmeno un disco che si elevasse verso l'olimpo. All'inizio
erano troppo punk per il classic rock, poi hanno ridefinito il tiro e nel 2009 si sono accorti di essere una band di
Memphis quando per l'album 1372 Overton Park hanno ingaggiato una sezione fiati e hanno
allargato il loro alternative country-rock verso i paesaggi sonori della città
occhieggiando alla Stax. Prima di allora si erano segnalati per una onesta e
sincera attitudine con un rock
urgente e aggressivo, qualche volta a
ridosso di sonorità garage ma il disco della svolta è stato proprio quel lavoro
del 2009, intitolato come il parco di Memphis attorno al quale è girata la loro
gioventù e la loro voglia di evadere con la musica. Dopo 1372 Overton Park c'è stato Woman & Work ma non ha avuto lo stesso impatto sebbene la
strada fosse la stessa e la voce di Ben
Nichols, chitarrista e leader del gruppo, una volta di più rovesciasse con
quel timbro aspro e disperato la sua inquietudine ed il suo essere fuori posto
sempre e comunque, a meno di non trovarsi in un romanzo di Cormac McCarthy.
Autore tanto amato dal nostro al punto da dedicare al suo Meridiano di sangue un mini album di ballate collocate negli
orizzonti infuocati del West. Da quel disco e dalle radici memphisiane espresse
negli ultimi lavori, nasce il nuovo disco All A
Man Should Do forse il lavoro più ponderato ed intimista dei
Lucero per quella verve balladiera che accompagna tutte le tracce del disco,
sottolineate dal continuo e minuzioso lavoro di pianoforte di Rick Steff membro originario della band
e mattatore del disco, artefice di un sound
meno aggressivo e rutilante e più avvolgente. Se difatti 1372
Overton Park faceva sfoggio di
un'euforia ed una grinta che si appoggiavano su sferragliate chitarristiche da
garage band e sul potente innesto fiatistico all'insegna di un viscerale e
primitivo rhythm and blues, All A Man
Should Do smussa gli angoli e più che il lavoro di
una band sembra il frutto di un ispirato songwriter con tutte quelle aperture
melodiche, quel fine lavoro nelle armonie, quelle ballate malinconiche e
crepuscolari e quello struggersi nella dualità delle relazioni e del sentirsi
invecchiare. Ben Nichols, l'autore dei testi, e Rick Steff hanno scelto di
cambiare copione e hanno trascinato con loro il resto della band, ma non hanno
tradito le loro origini perché se brani come They Called Her Killed con quella fisarmonica persa nei
rimpianti, la dondolante e armoniosa Baby
Don't You Want Me e il nostalgico
racconto di Went Looking For Warren
Zevon's Los Angeles sembrano spostare ad ovest il loro baricentro oppure la dolce I Wake Up In New Orleans fa capire come i Lucero si collochino in
quella tradizione di american bands tutte strade&motel, altri numeri come Young Outlaws, Can't You Here Them Howl e la splendida, conclusiva My Girl and Me In '93 sciorinano tutta una tradizione
memphisiana nell'arrangiare i fiati e nel soffiare trombe e sax come fecero gli
Stones dei primi settanta e come avrebbero voluto fare i Drive By Truckers
country-soul di The Big To Do e Go-Go
Boots . Il limite del disco è una certa ripetitività melodica sia nella
voce sia nelle sottolineature dall'onnipresente pianoforte, ma è un disco
interessante. Ascoltatelo prima in rete prima di comprarlo.
Anche 3 Shots degli Hollis Brown è un buon dischetto anche
se ai recensori della rivista su cui scrivo non è piaciuto molto. Il fatto è
che il nuovo lavoro è molto diverso da Gets Loaded con cui la band
rileggeva integralmente Loaded dei Velvet Underground
mettendoci una verve garagista da Paisley Underground e creando una atmosfera
da attrazione fatale. No, 3 Shots è molto diverso, soprattutto
perché smussa il loro dark side a favore di un approccio melodico e soul molto
più marcato. E' vero che davanti ad alcuni brani si rimane un po' basiti, ad
esempio in Death Of An Actress sembra
di sentire Leo Sayer e Sweet Tooth ha
una percentuale di zucchero tendente alla glicemia, ma in altri momenti, e mi
riferisco a Wait
For Me Virginia e a Sandy, l'equilibrio tra dolcezze e rock
n'roll funziona anche con qualche innesto di sax e trombe, una voce che si fa
soul ed echi byrdsiani. Non mancano episodi da blue-collar band, Rain Dance ha ritmo, svacco e sporcizia.
Johna Wayne cavalca tra impennate elettriche furiose
e deliranti e pause acustiche mentre in controtendenza la title track evoca i
Fleetwood Mac californiani. In fondo è vero, 3 Shots non ha un vero focus ma il disordine
degli Hollis Brown mostra creatività ed
una evoluzione tutta in divenire. Almeno speriamo.
All'inizio faticavo a
capire la grandezza di un disco come Ashes & Dust di Warren Haynes coi Railroad Earth, la jam band bluegrass più popolare d'America. Mi
sembrava come mettere insieme il limone col cioccolato, ovvero la voce bluesy
di Warren Haynes, la sua chitarra ribollente, coi violini, le corde acustiche e
i mandolini agresti dei Railroad Earth, un connubio che strideva e non creava
amalgama. Due corpi a sé. Sono bastati quattro ascolti per ricredermi, quella
di Ashes
& Dust è grande musica,
questo è un grande disco e ve lo dice uno mai troppo accondiscendente verso i
suoni country oriented. Ma qui c'è il blues mascherato da hillbilly, c' è la
stoffa del songwriter, c'è il ricercatore che va a riscoprire nella sua North
Carolina gli autori di canzoni che lo hanno influenzato (Ray Sisk, Malcome
Holcombe, Larry Rhodes), c'è il retaggio della musica celtica e della musica di
montagna ma anche il jazz acustico e l'american cosmic music, c'è insomma una
visione a 360 gradi che consente a Haynes, ben appoggiato dai Railroad Earth,
di uscire dal suo sterminato background rock/blues per rivelarsi come un
musicista a tutto tondo, il più creativo musicista che la musica americana ha
espresso negli ultimi vent'anni. E questo basta per consigliare a chiunque Ashes
& Dust, il mio personale summer of 2015 record, tra jam
pseudoacustiche (l'immensa Spots Of Time),
echi di Higway Call di Dickey Betts, ballate intimiste, scampoli dei
Dead unplugged, melodie da songwriter e
l'ombra di un'America rurale affascinante e misteriosa. Perfino l'episodio
west-coast pop di Gold Dust Woman di
Stevie Nicks, cantata con Grace Potter come fossero i Fleetwood Mac di Rumours.
Una ristampa per chiudere il
capitolo dischi. Molto si è scritto e detto a proposito della ristampa di Sticky
Fingers dei Rolling Stones. Tutto Ok, quello è uno dei capolavori della
loro discografia e di tutta la storia del rock, ma per l'ennesima volta l'appassionato che ha
acquistato l'edizione super-deluxe si è sentito prendere per i fondelli. In
quella edizione, che costa la bella cifra di 100 euro e passa, oltre agli show
della Roundhouse di Londra del marzo 1971 e di Leeds dello stesso mese, veniva
incluso nel DVD allegato un assaggio del
concerto tenuto al Marquee di Londra
dello stesso marzo. Due brani e stop. Alla faccia di chi ha acquistato la super
deluxe edition, viene pubblicato nemmeno un mese dopo ad un prezzo molto ragionevole
il CD+DVD Rolling Stones From The Vault- The Marquee Club Live in 1971 che riporta interamente tutto quel concerto al Marquee, una
specie di opera d'arte visiva e audio di cosa fossero gli Stones prima di
emigrare in Francia. Una band in cima al
mondo, non per i soldi ma per il rock n'roll, una band che aveva bisogno solo
di attaccare la spina e stappare una bottiglia di Bourbon per mandare
l'ascoltatore in orbita e far capire quanto potente sia il rock n'roll in quanto
ad eccitazione, capace di suscitare uno stato emotivo di esaltazione/benessere pari
a quello che si prova quando si "conquista" ( donne perdonatemi il
maschilismo, ma stiamo parlando degli Stones) una donna. E' solo un'oretta di
musica, perché lo show è uno special televisivo allestito per invitati e
addetti ai lavori ma basta e avanza. Midnight
Rambler non è mai suonata così disordinata e carica, Live With Me è una fucilata rhythm and blues che fa saltare le
fondamenta della Stax, Bitch è sporca
da morire e Jagger è lì sul palco non per fare l'attore ma il più sfrontato e
straordinario frontman che il rock ricordi. Obbligatorio l'acquisto.
Dai dischi ai libri, anzi
ai libri di due amici. Una marchetta? Non ho nulla da guadagnare se non una
bevuta con Denti ed un "grazie Zambo" da Cerbone. Due libretti usciti
da qualche tempo e non hanno certo bisogno della mia segnalazione. Il primo è Non
Siamo Qui Per le Caramelle, già
in ristampa visto che gli esodati (a proposito è talmente una parola fuori
senso che anche il correttore di word me la segna come errore) del sud Milano
sono tanti. Marco Denti ha raccolto la testimonianza di questi dimenticati del
capitalismo in crisi e ne ha costruito una sorta di romanzo alla Kurt Vonnegut
raccontando per filo e per segno quello che nel dicembre del 2011 un governo
eletto solo da Presidente della Repubblica ha decretato per migliaia di
lavoratori in procinto di andare in pensione. Ovvero ha condannato
all'invisibilità lavoratori con un passato di contributi regolari coniando un termine fino all'ora non
compendiato dal vocabolario della lingua italiana: ESODATI. Marco racconta il
loro travaglio senza pietismo ed indulgenza, come fosse una fiction, ma cazzo è
una cosa vera anzi verissima, uomini che sono diventati fantasmi irrequieti,
identificati con un codice, che hanno vagato, pregato, urlato, bussato, non in
cerca di una terra promessa ma del futuro che è stato loro negato con una firma
e una legge della repubblica, proprio in procinto del loro arrivo alla
pensione, togliendoli di fatto dal mercato del lavoro. Un romanzo agghiacciante,
che fa incazzare e lascia attoniti, pura fantascienza se non fosse la più cruda
real politik del nuovo millennio. Il miglior blue-collar book dell'anno.
Di altro tenore è America
2.0 di Fabio Cerbone, uno che di America se ne intende visto che è
l'animatore ed inventore del sito Roots
Highway e l' autore di libri come Levelland,
nella periferia del rock americano. La sua conoscenza dell'universo
americano è squisitamente letteraria e musicale ma approfondita e ciò gli ha
consentito di scrivere un libro che a partire da canzoni entrati nell'universo
della musica a stelle strisce più vicina al mondo dei blue collars, degli hobo,
dei ramblin' gamblin men, dei beautiful losers, racconta di una grande
illusione finita nel macero dei sogni perduti. La minuziosa conoscenza della
materia musicale ed una indubbia capacità descrittiva permettono a Fabio Cerbone di accompagnarvi
dentro le storie di cui prima avevamo sentito solo i suoni, le parole e le note
e adesso ne cogliamo il respiro, i drammi, le vicende umane, i travagli. Così
lo splendido racconto di Nella Valle di
Tecumseh basato sull'omonima canzone di Townes Van Zandt sembra un noir che crea un'attesa spasmodica e La Scheggia, costruita attorno a Sam Stone di John Prine, è la più cupa e
drammatica cartolina del post-Vietnam che l'America di provincia potesse
inviarci. Non sono gli unici racconti a coinvolgere, bellissimo è anche La Cadillac di Elvis basato sulla
canzone di John Hiatt Tennesse Plates e
pure Qualcosa di grande, liberamente
tratto da Something Big di Tom Petty ha
il potere di portarvi dentro una storia che ben riflette gli umori della
canzone da cui Cerbone ha tratto
l'ispirazione. Altri racconti sono più didascalici e sono contornati da un
romanticismo un po' calcato, quel romanticismo degli ultimi però che appartiene
di diritto a questa musica di perdenti che richiedono dalla vita la propria
chance di riscatto. Perché l'America che
piace a Cerbone e a noi non è quella dei vincitori e della forza, ma è quella
che si ritrova nella grande illusione tradita, che amabilmente Fabio Cerbone
racchiude in un libro sapientemente strutturato come un vinile, ovvero una Side
One coi raccomti dell' Heartland e di Down
The Promised Land, ed una Side Two con
Drive South, Into The Desert e Way Out West. Sedetevi in poltrona allora, infilate il CD con una
canzone di Kris Kristoffersson, o Dave Alvin o Tom Waits o ancora meglio
appoggiate la puntina su quei vinili, aprite il libro e iniziate il viaggio. Dentro
le mura della vostra stanza vi apparirà l'America come l'avete ascoltata da una
vita.
Questo post è dedicato ad
uno dei più grandi artisti del rock n'roll, vissuto per le nostre emozioni. William Paul Borsey Jr.
alias Willy DeVille di Stamford, Connecticut, 25 agosto 1950- 6 agosto 2009.
MAURO ZAMBELLINI
10 commenti:
Con Willy nel cuore, sempre...R.I.P.
Come sempre i tuoi consigli e suggerimenti sono preziosi nei dettagli e nella passione che riesci a trasmettere.
Grazie e buone ferie Zambo!
Armando Chiechi
Importantissimo il punto che fai sul blues Italiano;è giusto allargare gli orizzonti e riuscire a guardar oltre.Ricordo su questo blog il commento di un altro lettore che diceva giustamente(cito a memoria)"L'Italia è un paese di Guelfi e Ghibellini" riguardo anche al fatto che ognuno difende il suo partito e non prova a sentire o semplicemente ad ascoltare altre voci e questo vale anche per la musica.La cosa più triste poi è che spesso sono proprio i musicisti stessi ad avere paraocchi e idee del tutto personali e strane su questo o quell'altro personaggio e qui non stiamo parlando di gusti!! Fin quando ci saranno persone come te o Massarini alla Tv(giusto per citare un valido esempio)ci si potrà solo arricchire. E' vero magari dischi se ne comprano meno rispetto ad una volta,ma purtroppo c'è ancora tanta gente che crede che il rock si sia fermato ai Beatles oppure non sia andato oltre il Progressive,qualcun'altro magari da tempo ha trovato rifugio nel Jazz disprezzando il resto definendola robetta Pop. Sarò un romantico ma sogno ancora quel paese dove è possibile far convivere il tutto e poter vivere la musica in tutte le sue sfumature e colori possibili. Scusami se mi sono dilungato e Buona Estate a i Zambobrothers!! Armando Chiechi
grazie per la tua propositiva partecipazione a questo blog, Armando e buona estate anche a te. La musica non va in vacanza e ce la portiamo appresso.
Grazie per gli acuti consigli e segnalazioni...e anche per le considerazioni su Malpensa!
Quanto a Warren Haynes concordo sull'importanza e la profondità di un disco che cresce ad ogni ascolto. Warren non mi stanca mai, dall produzione solista ai Mule, dagli Allman ai Dead (anche se Trey Anastasio è stato perfetto nei concerti di Santa Clara e Chicago).
Buona estate.
E' vero, è stata un'estate avara di emozioni musicali degne di nota. A parte lo show di hiatt per il quale zambo ovviamente mi ruba le parole di bocca, segnalo solo la solita generosa e coivolgente performance dei riuniti rocking chairs nella loro casalgrande. L'esibizione in veste acustica di James Mc Murtry al pusiano day invece non posso dire che mi abbia lasciato sconvolto. Grande songwriter ma forse pecca in quanto a personalità e la veste acustica non lo ha aiutato (nelle stesse condizioni e location steve earle l'anno scorso tre spanne sopra).
Aspetteremo che l'autunno ci porti nuovi live acts interessanti, a partire dalle premiere di Blackberry Smoke (si, un pò tamarri e fracassoni, ma archiviati gli Allman, alla frutta Skynyard, fuori gioco Crowes ci si deve pur accontentare) e Rich Robinson (molto accattivante) fino ai ritorni di Ryan Bingham (già è bravo da solo,full band è portentoso) e DMB (va bene anche la metà delle emozioni di Lucca).
Sperando magari che a breve si faccia vedere dalle nostre parti quell'insopportabile faccia da schiaffi di Ryan Adams, che con un dischetto live acustico buttato lì mi ha lasciato ancora una volta senza fiato.
Enjoy your summer Zambobrothers!!!!
Paul
bentornato Zambo!
Andrea Badlands
sempre grande Zambo!
concordo soprattutto col giudizio su Ashes & Dust, davvero cresce ascolto dopo ascolto.
del resto di Warren "Wonder" Haynes che dire? è il più grande musicista oggi in circolazione, compone, canta, suona, spazia in tutti i campi...
buon ferragosto a tutti!
Aldo
Ashes & Dust, è il disco che Steve Earle non riesce più' a fare. un capolavoro.
Fin quando ci saranno persone come te o Massarini alla Tv(giusto per citare un valido esempio)ci si potrà solo arricchire.
Io ci aggiungerei anche John Vignola su radio rai.
Ben ritrovato Zambo. L'uomo che mi ha fatto spendere più soldi di tutti (in dischi), secondo soltanto a mia moglie che è imbattibile (in arredamenti e cianfrusaglie varie).
Posta un commento