Lo
stesso Miami Steve Van Zandt ha definito Soulfire il disco di una vita, quello che ripercorre
tutta la sua storia di artista, performer, produttore, arrangiatore e
compositore. Dodici titoli divisi tra cover, canzoni nuove, reinterpretazioni
di quelli che l'autore ritiene i migliori brani scritti nella sua carriera. Ci
sono canzoni che provengono dai dischi con Southside
Johnny & The Asbury Jukes, un titolo di Gary U.S Bonds, cover di Etta
James, James Brown, Electric Flag, "in
quest'album ci sono io che faccio me stesso".
Erano
ventanni che Little Steven non
pubblicava un disco a suo nome, l'idea è nata l'ottobre scorso quando con la
sua storica band, The Disciples of Soul,
è stato invitato a suonare al BluesFest di Londra. "Sebbene in gioventù abbia avuto un periodo blues non ho mai registrato
del vero blues urbano di Chicago, ho preso in seguito altre direzioni ma il
BluesFest mi ha fornito l'occasione di rivedere alcune cose e riarrangiarle, Così
ho fatto per The Blues Is My Business di Kevin Bowe e Todd Cerney registrata da
Etta James nel 2003". E' uno dei titoli di Soulfire, il
disco scaturito dall'apparizione londinese, una one night only performance che si è trasformata in un album e nella
tournee estiva attualmente in corso. A
quel gruppo di disadattati, ladri e
portuali che sono i Disciples of Soul ( sono parole sue) si sono aggiunte
tre coriste ed una sezione fiati, tra cui Stan Harrison e Eddie Manion degli
Asbury Jukes/Miami Horns, con quella ciurma Little Steven si è infilato nel suo
studio di New York aiutato dal produttore Geoff Sanoff (Fountains of Wayne,
Stephen Colbert) e dal chitarrista Marc Ribler. Mixato dallo specialista Bob Clearmountain (Springsteen, Who,
Bowie, Rolling Stones) e da Bob Ludwig ne è uscito un disco potente, brillante,
febbrile, eccitante, dove le trombe, i tromboni e i sassofoni del soul hanno
incontrato le chitarre del rock n'roll come nei primi album di
Southside Johnny prodotti dallo stesso Van Zandt, recentemente ristampati in un
doppio CD col titolo di The Fever. Roba calda, trascinante,
che rimanda a quel sound tipico del Jersey Shore pre-The River, un mix di
torrido R&B, sanguigno soul e sguaiato rock chitarristico, uno stile che il
tempo e le nuove mode hanno affossato e adesso Soulfire riporta a galla.
Non
ci vuole tanto per entrare in sintonia con un tale disco, bastano le note delle
prime due tracce per ritornare giovani. La prima, che dà il titolo all'album, è
stata scritta da Little Steven con Anders Bruus della band danese dei Breakers,
uno dei tanti gruppi passati nel suo programma radiofonico, ed è un rock venato
di garage soul incattivito da graffi chitarristici, arrangiato da una
travolgente sezione fiati. Little Steven canta come non capitava da anni, si
sente concettualmente coinvolto dal progetto e
ridà voce a quel mood che faceva del primo disco coi Disciples of Soul,
l'ottimo Men Without Women, un manifesto di gioiosa liberazione maschile
al suono del rhythm and blues. Quel fuoco soul e quell'anima ribelle la ritroviamo
in I'm Coming Back, titolo di Better
Days altro album di Southside
Johnny prodotto nel 1991 da Little
Steven, quindici anni dopo l'esordio di John Lyon. E' un brano spudoratamente springsteeniano
sebbene ci siano cori e fiati, Little Steven trascina e canta con la foga di un
predicatore soul, sembra un miracolo averlo ancora così dopo tante pallide
esibizioni con il Boss. Toni caldi e febbricitanti anche in The Blues Is My Business di Etta James, il rock è qui diluito, si
fa per dire, da una dose di scalpitante e chiassoso R&B ma le chitarre
urlano fameliche e la festa sembra ormai nel vivo via. Il tempo di una pausa, I Saw The Light originariamente scritta
per Richie Sambora è solo un po' più smorzata, ma le voci femminili e diversi
solo di chitarra le danno carica e anticipano il clou del party. Dal carnet di Southside Johnny arrivano altri quattro
titoli. Due facevano parte di quel manifesto dell'Asbury Sound che è This
Time It's For Real, anno 1977.
Some
Things Just Don't Change è puro Motown sound, Little Steven l'ha scritta con
in mente i Temptations, l'afflato è romantico, la voce è meno negroide di
quella di Southside Johnny ma la sua disperata richiesta d'amore è commovente.
Magnifico il finale, con Little Steven che urla e supplica come fosse Joe Tex. Coreografia
wall of sound per Love On The Wrong Side
of Town co-scritta con Bruce Springsteen,
una ballad sontuosa zeppa di arrangiamenti orchestrali da boheme di New York,
l'avrei vista bene in Return To Magenta di Mink DeVille. I Don't Want To Go Home dava il titolo
all'album esordio di Southside Johnny and The Asbury Jukes ed è la prima
canzone in ordine di tempo scritta da Van Zandt affascinato da quel suono e
quel romanticismo che i Drifters avevano imposto tra la fine degli anni
cinquanta e l'inizio dei sessanta. La scrisse per Ben E.King ma non ebbe mai il
coraggio di proporgliela. Aperta da una pomposa sezione fiati e da una chitarra
acustica si tramuta in una ballad col cuore in mano, accorata, struggente come
lo potevano essere quelle ballate che quel manipolo di pionieri della costa del
Jersey portavano in giro in quegli anni. Little Steven pronuncia il celebre
verso reach up and touch the sky con
cui Southside Johnny titolerà il suo primo live ufficiale, i Persuasions fanno i cori, ce n'è a sufficienza per accompagnarvi sulla
scala del paradiso. Decisamente sferzante e cruda è Ride The Night Away co-scritta con Steve Jordan per il soul-rocker
australiano Jimmy Barnes e poi finita
in Better
Days. Rock di chitarre e di avventure, gli immancabili fiati, i cori,
le voci redenti in cerca di una terra promessa, questo è quello che manca a
Bruce Springsteen da almeno quindici anni ed invece Little Steven sa ancora
trasmettere.
I
Persuasions ci sono anche in The City
Weeps Tonight, un doo-wop in
salsa newyorchese che sa di passeggiate mano nella mano sulla boardwalk mentre
sempre New York City è il cuore di Down
and Out In New York City, cover di un James
Brown del 1973 e tema del film Black Caesar. Intrisa di bassi slappati, rifiniture
jazz, flauti, trombe, sonorità urbane, ritmo sincopato, orchestrazioni da Philly
Sound, è puro soul nel segno della blaxploitation
sullo stile di Shaft. Episodio anomalo, unico nella discografia di Little Steven,
una sorta di colonna sonora influenzata dallo score di Lilyhammer, provata dal vivo al BluesFest londinese e riarrangiata
nelle session del disco.
Le ultime due tracce di Soulfire riguardano la
ripresa di Standing In The Line of Fire co-scritta
per l'omonimo album di Gary U.S Bonds
e qui rimessa a nuovo con una coloritura spaghetti-western, come se
quest'ultimo avesse incontrato Ennio Morricone, e Saint Valentine Day scritta per Nancy Sinatra ma poi finita in un
disco delle Cocktail Slippers. Little Steven canta ombroso un altro di quei pezzacci
che sanno di rock alla Springsteen fino al midollo, ci sono però i fiati e i
cori femminili a ribadire la natura profonda di Soulfire ovvero "soul horns meet rock n'roll guitars". Come
dire un pezzo di musica americana dello scorso secolo rimessa a nuovo da un
Sopranos. Dio benedica Miami Steve Van
Zandt.
MAURO ZAMBELLINI MAGGIO 2017
2 commenti:
A dire il vero i primi roumors sull'album mi avevano incuriosito abbastanza ma aspettavo un tuo resoconto per spingermi a comprare l'album. Ora la prossima mossa sarà avere questo lavoro tra le mani. Grazie Zambo !
Ps : Spero che il "suo capo" tragga ispirazione da tutto ciò !!!
Armando
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