MILES
DAVIS BITCHES BREW 1969
"Avevo
visto chiaramente una strada verso il futuro e stavo cominciando a seguirla, lo
stavo facendo per me stesso, per quello che volevo e di cui avevo bisogno nella
mia musica, pensavo che stavo facendo la stessa cosa di Stravinskij quando era
tornato alle forme semplici". Con queste parole Miles Davis introduce
la genesi di Bitches Brew album rivoluzionario che prefigura i paesaggi
estatici di quello che sarebbe stato definito in modo semplicistico jazz-rock.
Ne fanno parte difatti tutti i musicisti che dal jazz e dall'esperienza con
Davis poi gettarono un ponte sul rock e sul funk: il sassofonista Wayne Shorter
ed il pianista Joe Zawinul inventori di Weather Report, il chitarrista John
McLaughlin ed il batterista Billy Cobham della Mahavishnu Orchestra, i bassisti
Dave Holland e Bennie Maupin, il pianista Chick Corea ed il percussionista
Airto Moreira creatori di Return To Forever, il batterista Jack DeJohnette.
"Cominciammo la mattina presto nello
studio della Columbia sulla 52ma strada e registrammo per tre giorni
consecutivi in agosto. Avevo detto a Teo Macero, il produttore del disco, di
non rompere i coglioni, di lasciare semplicemente acceso il registratore e
registrare tutto quanto, senza venire a interrompere e fare domande. Io
dirigevo come un maestro, una volta cominciato a suonare, e buttavo giù un po'
di musica o dicevo all'uno o all'altro di suonare le varie cose che cominciavo
a sentire man mano che la musica cresceva, che diventava un insieme". Il
risultato è un trip electro-jazz-funk di incredibile energia e sensualità
uscito prima come doppio album nel 1970, poi ridefinito in modo completo in The
Complete Bitches Brew Sessions del 2004.
TRAFFIC TRAFFIC
1968
L'estasi bucolica si consuma in un cottage di un
gardiacaccia ad Aston Tirrold nel Berkshire, un luogo contornato da boschi di
noccioli e pini. Sheepcott era ad un quarto di miglia dalla casa più vicina e
per anni diventa il rifugio dei Traffic. Tappeti indiani furono piazzati vicino
al camino per dare più atmosfera all'ambiente, teatro di conversazioni notturne
sull'astronomia ed il Libro Tibetano dei Morti. Il folk si amalgamò coi ritmi
latini e coi link jazz del flauto di Chris Wood, ammiratore di Rahsaan Roland
Kirk e appassionato di musica africana e giapponese. Le percussioni di Jim
Capaldi, la voce e le tastiere di Steve Winwood e le chitarre di Dave Mason fecero
il resto. Non c'era acqua corrente né elettricità, sopperiva un generatore
ausiliario, le lunghe session furono magiche ed irripetibili, in quel cottage
in mezzo alle colline inglesi successe qualcosa di straordinario, Mr.Fantasy
fu l'equivalente inglese di Music From A Big Pink e ancora
meglio fece l'omonimo secondo album prodotto da Jimmy Miller nel quale il
misticismo e il clima pastorale di quei giorni in campagna trovano sfogo in
canzoni sublimi, complesse e semplici al tempo stesso, pure e raffinate,dove
non esistevano barriere tra rock, jazz, musica etnica, pop e psichedelia color
pastello. Feelin' Alright in tutto e
per tutto.
NICK
DRAKE BRYTER LAYTER 1971
Il medesimo intreccio di folk e jazz esplorato dai
Traffic del Berkshire lo si ritrova nel secondo album del tormentato songwriter
inglese Nick Drake, anche se in questo caso l'ambientazione è prettamente
urbana e notturna. Gli arrangiamenti di Robert Kirby valorizzano l'architettura
musicale e poetica di Drake, la crema del folk anglosassone (Dave Pegg, Dave
Mattacks, Richard Thompson) si accompagna a musicisti americani di talento (il
batterista Mike Kowalski, il pianista Paul Harris) e l'ex Velvet Underground
John Cale con viola e clavicembalo
scarabocchia il quadro con misurata bizzarria. Produce da maestro Joe Boyd
un'opera che rasenta la perfezione assoluta e si distingue per la sua
leggerezza e l'abbandono estatico che induce nell'ascoltatore, nonostante i
testi parlino di alienazione urbana e delle potenzialità inespresse di una
vita. Il cantato di Drake, incantato e malinconico ma di un candore
irresistibile è la stella polare di un affascinante universo sonoro dove gli
strumenti si accarezzano in ballad che hanno le virtù della grazia e del sogno.
Una limpida chitarra acustica lascia spazio a sax e flauto, il clavicembalo e
la viola si intrecciano con organo e pianoforte, basso e batteria nemmeno si
sentono tanto sono lievi, arrangiamenti operistici si sovrappongono a
pennellate di jazz e ad un folk progressivo. Il cielo del nord è qui
rischiarato da una luce seducente.
MARVIN GAYE
WHAT'S GOING ON 1971
Potrebbe sembrare una bestemmia parlare di estasi
per un album il cui contenuto nasce attorno al punto di vista di un veterano
del Vietnam che torna in patria e si vede circondato da odio, sofferenze e
ingiustizie. Temi riguardanti l'abuso di droghe, la povertà e la guerra si
mischiano a tensioni interiori e alla paura di un mondo inquinato, alla deriva.
Ma l'architettura dell'opera, un concept album dalla struttura ciclica con le
tracce che fanno da introduzione alla successiva e quella finale riprende
l'iniziale, e sopratutto il lirismo che
pervade tutto l'album, un soul avvolgente e orchestrale con sovrapposizioni di
cantato, innesti di jazz, gospel e musica classica, fanno di What's Going On un opera monumentale,
un punto di non ritorno nella storia della soul music, ancora oggi stupefacente
tanto è il potere di coinvolgimento e il benessere quasi sensuale che trasmette.
Effetto quasi paradossale visto che tutto nasce dopo che un membro dei Four
Tops, Renaldo "Obie"Benson, durante un tour fu testimone di un atto
di violenza e brutalità da parte della polizia verso dei manifestanti pacifisti
a Berkeley nel 1969. Tornato a Detroit raccontò l'episodio al songwriter Al
Cleveland il quale ci scrisse sopra una canzone, rifiutata dai Four Tops perché
considerata di protesta e non adatta al loro repertorio. Di tutt'altro parere Benson
e Cleveland la rivendicarono invece come una canzone di amore ed incomprensione
e la cedettero all'interessato Marvin Gaye il quale aggiunse una nuova melodia,
cambiò alcune liriche, la abbellì e trasformò What's Going On in una
storia del ghetto divenuta un concept album. Un album che ha segnato in modo indelebile la
carriera di Marvin Gaye e ha indicato nuove strade nel sound della Motown.
DAVID
CROSBY IF I COULD ONLY
REMEMBER MY NAME 1971
Il flusso di coscienza che accompagna le note e il
cantato di questo disco ha del prodigioso, una illuminazione che ha incantato un'
intera generazione. Mai disco ha avuto il potere di prefigurare un universo in
cui la musica è amore e bellezza naturale. Certo fu necessario l' LSD ma che
importa, come scrisse Elémire Zolla (1926-2002) scrittore, filosofo, storico
delle religioni e conoscitore di dottrine esoteriche " la storia intima dell'uomo è fondata sulla
successione degli stupefacenti", e allora If I Could Only Remember My Name dove
già il titolo suggerisce uno stato "altro" in cui la mente se ne è
andata dal corpo, è un trip di tale potenza estatica da lasciare senza fiato,
magnificamente confusi dentro una dilatazione sensoriale di straordinaria
intensità. Mistico, visionario, onirico ma pervaso da una incredibile immediatezza
e spontaneità. Oggi può suonare come un'elegia del quadro idilliaco di una
California di libera coscienza e di libero amore ma l'album va goduto come una
lunga suite sonora, un susseguirsi di atmosfere e visioni, una sinfonia
folk-rock di suoni sospesi e chitarre sognanti screziata di colori lisergici, con
David Crosby accompagnato dall'intera comune artistica della Bay Area, dai
Grateful Dead ai Jefferson Airplane, da Joni Mitchell a Neil Young e Graham
Nash.
TELEVISION MARQUEE MOON 1977
L'estasi newyorchese ha tutt'altri suoni, altre
frizioni, distorsioni violente, nuove scenografie e sogni inquieti. Il popolo
degli hippie è ormai un ricordo e LSD una droga non più di moda, nel 1977 tutto
viene rimesso in discussione, il futuro ha colori plumbei, i Velvet Underground
avevano prefigurato con anni d'anticipo la decadenza. Ma come qualche volta
succede, per assurdo i tempi difficili generano creatività ed un tale Tom
Miller, assunto il nome del poeta simbolista Verlaine si inventa una luna al
neon attorno a cui far caracollare un acido suono chitarristico che azzarda un
unione tra i Grateful Dead e i Velvet Underground. Singolare il risultato, una psichedelia ferrosa intrisa di ossessioni
metropolitane e schizzi poetici, frastagliata di arpeggi e voli di chitarre
elettriche, quelle di Richard Lloyd e Tom Verlaine, capaci di disegnare un
nuovo cosmo musicale. Marquee Moon è un disco premonitore e spartiacque,
profondamente legato alle estetiche sonore della seconda metà degli anni
settanta (le produzioni della Ork Records)
ma proiettato in avanti. Patti Smith che con il leader dei Television ha
condiviso relazioni sia sentimentali sia artistiche, ha detto " il suono della chitarra di Tom Verlaine fa
pensare all'urlo di mille uccelli". La chitarra di Verlaine, infatti
suona stridula, straniante, assecondando le tonalità gutturali del suo cantato
da androide allucinato, ma altrettanto geniale è l'elicoidale fraseggio di
Richard Lloyd, forgiante una struggente rivisitazione della vecchia psichedelia
underground dentro gli scenari della new-wave.
SANTANA CARAVANSERAI 1972
Ad altre latitudini l'estasi si tinge di tramonti
roventi, notti di blu abbacinante, orizzonti tremolanti nel miraggio della
calura sahariana. Le cicale cantano, le carovane avanzano lentamente sulle
piste, il silenzio è musica, percussioni si rincorrono in una fusione
ritmica morbida e avvolgente, le tastiere sono un tappeto dalle mille trame, e
sopra il caravanserraglio si erge limpida, distinguibile, lirica la chitarra di
Carlos Santana che qui suona come un vento del deserto raggiungendo l'apoteosi
proprio in Song Of The Wind. E'
l'ultimo album di Santana con l'organista Gregg Rolie e il chitarrista Neal
Schon i quali formeranno i Journey l'anno seguente e a mio modesto parere
assieme ai due primi lavori del messicano, Santana e Abraxas, è una delle
perle della sua discografia. Un disco luminoso senza cadute pop-commerciali, pressoché
strumentale perché l'abbandono sensoriale è qui dettato dal suono caldo e
avvolgente, da intermezzi jazzati, da echi di mondi diversi e da una fusion che
dall'America Latina ha fatto ritorno in Africa. Perfetto in ogni dettaglio e
sfumatura, Caravanserai riesce nell'obiettivo
di sollevare l'ascoltatore in uno stato etereo con delle sonorità che sembrano
scaturire naturali dalla terra e dal vento, un eccelso intreccio strumentale con
le varie tracce legate tra di loro attraverso lo sfumare di un pezzo
nell'altro,creando una unica grande suite di puro godimento.
JOHN
COLTRANE A LOVE SUPREME 1965
Ma
che diavolo sta suonando? ,
disse Miles Davis ascoltando una delle improvvisazioni che John Coltrane
suonava sul palco dell’Half Note. Siamo nel pieno degli anni ’60, e il
sassofonista era resident
artist del club di Hudson Street. «Sembrava di stare in chiesa», ricorderà anni dopo Archie Shepp –
musicista free e
suo storico collaboratore – di quelle serate newyorkesi. A un certo punto, ha
detto Dave Liebman, «la gente ha rivolto
le mani verso il soffitto. Si sono alzati tutti in piedi, erano rapiti». A Love
Supreme è uno degli album che
hanno cambiato la storia del jazz, c’è la musica, allo stesso tempo conclusione
del periodo modale e prologo di quello sperimentale, c’è il testo,
rappresentato dalla poesia-salmo che dà titolo al disco, inserita dal
sassofonista nel libretto, e c’è la rivelazione religiosa. Tra il ’55 e il ’57,
infatti, mentre suonava con il quintetto di Miles Davis, Coltrane sprofonda
nella dipendenza da eroina che riuscirà a
a superare solo dopo un lungo periodo di solitudine nella sua casa di
Philadelphia.
“Nel 1957 sperimentai, per grazia di Dio, un
risveglio spirituale che doveva condurmi a una vita più ricca, più piena.
All’epoca, per gratitudine, chiesi umilmente di avere il privilegio di rendere
felici gli altri con la musica. Mi sembra che mi sia stato accordato, rendo
grazie a Dio”, si legge nelle note d’accompagnamento.
È un disco di spunti infiniti, per il
sassofonista era una dichiarazione d’amore rivolta verso il cielo, per i
giovani musicisti dell’epoca il manifesto espressivo totale. L’album è diviso,, in quattro sezioni – Aknowledgement, Resolution, Pursuance e Psalm ,
tutte costruite sulla base di frasi molto semplici, sulle quali vengono
innestate le jam vertiginose del sassofonista e dei musicisti del quartetto,
vere e proprie cattedrali di suoni enfatici, quasi violenti. Accompagnato da
Jimmy Garrison (contrabbasso), Elvin Jones (batteria) e McCoy Tyner
(pianoforte), Coltrane disegna un viaggio mistico che culmina nel finale, dove
il suo sax tenore si sdoppia in quella che per molti è l’improvvisazione
definitiva, l'estasi per eccellenza.
THE ALLMAN BROTHERS
BAND LIVE AT FILLMORE EAST 1971
Si
è scritto tante volte su queste pagine a proposito di questo disco, considerato
da molti il più bel live nella storia del rock e del blues,
un'opera
destinata a far parlare di se per decenni, un doppio disco da cui emergeva una band capace di mettere insieme la
fantasia di Jimi Hendrix, la tradizione blues di Muddy Waters e le invenzioni
del quintetto di Miles Davis di Kind of Blue
secondo una fluidità sonora che nessuno nel rock aveva mai
ascoltato. Ma questa volta c'è di mezzo l'estasi e non la storia e allora la
qui presente In Memory of Elizabeth Reed è
cibo degli Dei, materia pesante, la chitarra di Richard Betts sembra un
violino, l'organo di Gregg un'orchestra, Duane Allman è in cielo e la performance
assume quelle modalità che i musicisti jazz cominciavano a definire fusion.
Quell'approccio che derivava da Miles Davis e John Coltrane, in particolare dal
loro lavoro in Kind of Blue. Duane
Allman confidò al giornalista Robert Palmer che quel modo di suonare in Elizabeth Reed proveniva da quell'album,
lo aveva ascoltato così tante volte negli ultimi due anni che lo conosceva a
memoria. Quello che Duane trovava accattivante era l'improvvisazione modale che
Davis aveva sperimentato alla fine degli anni cinquanta, estendere gli assoli
basandosi su una singola scala o una sequenza di scale, piuttosto che sulla
progressione di un accordo. Questo concetto forniva grande libertà ai solisti
per condurre la musica verso nuove direzioni, una libertà che la ABB fece
propria. Gli assoli di Duane in Elizabeth
Reed, Whipping Post e Mountain Jam
furono tra le cose più inventive e creative della sua carriera di musicista e
la sua collaborazione con Dickey Betts
raggiunse un livello di potenza ed emozione che finì col contagiare gli
altri ed influenzare generazioni di musicisti.
STAPLE SINGERS BE ATTITUDE:
RESPECT YOURSELF (1972)
Per
spiegare che "in tempi come i
nostri, di rapidi mutamenti sociali, le canzoni aiutano a sincronizzarsi, a
muoversi insieme allo stesso ritmo", Jules Evans, l'autore di Estasi: istruzioni per l'uso ovvero
l'arte di perdere il controllo (Carbonio Editore), richiama questo fondamentale
"affare di famiglia" che non può essere sottovalutato da chi ama la
musica afromaericana in toto, qui nelle sue pieghe gospel e soul. L'estasi è
qui un trance mistico e religioso, ma di quella religione che appartiene agli uomini
di qualunque colore siano, la religione che avvicina sì al divino ma anche agli
altri, alla bellezza, alla comprensione e al rispetto delle diversità, alla
libertà di essere un cittadino del mondo senza barriere. L'apoteosi
discografica degli Staples Singers la trovate in Faith and Grace: A Family Journey
1953-1976 , un box che da solo allarga e prolunga l'estasi all'infinito
ma per chi non vuole trascendere in modo completo può bastare l'ascolto di
questo superbo Be Attitude: Respect Yourself.
MAURO
ZAMBELLINI
1 commento:
Bell'aeticolo letto già sul Buscadero....difficile non averli questi dischi meravigliosi ma a ben vedere almeno nel mio caso mi manca Santana,con cui non ho mai avuto un grande feeling,ma provvederò con questo che tu suggerisci..magari cercando di andare oltre a qualche buona antologia. Thanks
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