Scelgono una copertina di sapore cosmico pscichedelico, ricorda
gli Hawkwind, la giovane band dei Greta Van Fleet per il loro terzo disco, in
realtà i primi due erano dei mini CD. Anthem of the Peaceful Army non
cambia l'impressione avuta con Black Smoke Rising e From
The Fires ovvero i tre fratelli Kiszka, cantante, chitarrista e
bassista ed il batterista Daniel Wagner, aspirano ad essere una copia
aggiornata dei Led Zeppelin e ci mettono tutto il loro impegno e la loro buona
tecnica per assomigliare agli illustri genitori. Riffoni di chitarre
elettriche, impennate ritmiche, la voce in falsetto alla Robert Plant (ma che
differenza), un massiccio martellamento in nome dell'hard-rock più granitico,
distorsioni prese di sana pianta da Jimmy Page, qualche ballata epica come
sanno fare (bene) i gruppi metal, questo è il loro menu, ribadito con una
produzione più accurata anche nel terzo lavoro. Quindi nulla da dire, i vecchi
del rock sorrideranno e magari ritireranno fuori dagli scaffali il secondo e
terzo dei Led Zep, nel primo c'era il blues che i Greta Van Fleet non hanno, oppure
In
Rock e Firefall dei Deep Purple, tanto per non spendere euro inutili,
mentre i giovani, e speriamo, si scalderanno per aver trovato un gruppo che
suona nudo e crudo come una volta, come nei dischi del padre. Ma al di là delle
diverse reazioni generazionali si tratta ora di capire se ricalcando queste
tracce, ad un certo punto, una volta riconosciuta la strada, i ragazzi in
partenza da Frankenmuth nel Michigan, città americana che più tedesca non si
può, famosa per il suo pollo fritto, la musica polacca
e Babbo Natale, saranno in grado di proseguire da soli
attraverso un orientamento esclusivamente personale, perché una strada battuta
e conosciuta è sempre difficile da abbandonare. Poteva sembrare così all'inizio
anche per i Black Crowes, quando venivano definiti degli imitatori di Stones e
Faces ma poi i corvacci si sono
ritagliati una loro via, hanno acquistato stile e scritto grandi canzoni e sono
diventati una delle migliori rock n'roll band dello scorso fine secolo.
Le correnti di pensiero, intorno ai Greta Van Fleet, estroso nome
preso in prestito da una vicina di casa, si orientano su due direzioni: da un lato
c'è chi li etichetta come band derivativa e poco originale con quei
parallelismi innegabili, e dall’altro c'è chi li osanna come i profeti della
rinascita dell’hard-rock. Dalla loro parte c'è che vengono dal Michigan, una
terra che ha dato molto all'hard-rock, basti pensare a MC5, a Stooges, al primo
Bob Seger, a Ted Nugent tanto per fare i nomi più conosciuti, quindi sono
cresciuti su un terreno fertile e le prerogative per una loro maturazione e
personalizzazione ci sono tutte.
Aspettiamo e godiamoci, se possibile, questo Anthem of the Peaceful Army con
tutte le sue ingenuità ma con l'indubbio entusiasmo che traspare da questi
solchi e da questi ragazzi.
Non che il talento sia manchevole, e come
spesso accade, a notarlo per primi, in un’intuizione dal sapore di dollari,
sono produttori e major che, una volta adocchiato il soggetto, mettono in moto
tutto quello che sta attorno al dispositivo per creare the next big thing. I Greta Van Fleet sono una macchina dall'ottima
resa, anche perché costruita da ingegneri del calibro di Marlon Young, Al
Sutton e Hershel Boone (già produttori di Kid Rock, Pop Evil, Sponge) e dalla
Republic Records ovvero affiliazione Universal. Il rischio è che le
accelerazioni esagerate su un motore non ancora messo a punto, soprattutto se a
condurre il mezzo ci sono dei neopatentati, lo brucino. Giovani poco sopra
l’età consentita per gli alcolici ma già in grado di confezionare un hard-rock
di buona fattura con acuti spacca-vetri. Il quartetto composto dai tre fratelli
Kiszka, di cui Joshua alla voce, il suo gemello Jacob alla chitarra e Samuel al
basso, e dall’amico di scuola il batterista Daniel Wagner, dimostra in questo
disco di avere sufficiente energia per zittire, almeno in parte, le
malelingue. La suggestiva Age Of Man,
descrivendoci meraviglie del ghiaccio e della neve, inizia morbida, cupa,
fluttuante, prima di lanciarsi in una progressione epica con la voce su alti
registri ed un mellotron di altri tempi, The Cold Wind è vento freddo del
Michigan e Joshua Kiszka rimane ancorato a quel provocante
falsetto, orgasmico e appassionato che fu di Robert Plant. Lover Leaver (Take Believer) spicca accattivante con la sua lunatica parte centrale fatta
di contrappunti tra la potente chitarra e la voce urlante, la linea di basso
pompa a livelli massimi,spingendo la sezione ritmica fino all’ipnosi, mentre in
un mix psichedelico e furioso il cantante dipinge l'immagine vivida di una
tentatrice che ha usurpato la sua anima. Ma i Greta Van Fleet son capaci anche
di affascinare con quella tenerezza che trasuda dall’incantevole ballata You’re The One, che scompensa un
equilibrio ormai livellato su suoni crudi e duri, e ci mostra quel lato romantico
che spesso le band metal e hard-rock, col loro approccio epico, riescono ad
esprimere con intensità, tra chitarre acustiche e intrecci vocali. Così come colpisce
la leggerezza della successiva The
New Day, scanzonata e limpida mentre
in Mountain Of The Sun fa capolino una slide di sporco
southern rock. Brave New World è invece una composizione che strizza l'occhio al prog e al rock sinfonico con quell'
atmosfera ombrosa e cupa, quasi gotica, mentre il riff acustico e nostalgico
della title track cavalca un sound
alla Rainbow e mostra tutta la
spavalderia dei Greta Van Fleet una band che può fare breccia come fecero anni
fa i Guns and Roses. Chi vivrà, vedrà.
MAURO ZAMBELLINI OTTOBRE
2018
2 commenti:
Sinceramente ho sentito ben poco della band in questione, qualcosa mi ha entusiasmato e altro meno. Sono stato tentato ma poi ho preso altro.Ad ogni modo cercherò di riprovarci nuovamente perché se i Guns 'n'Roses non mi sono mai piaciuti, loro invece un minimo di curiosità anche grazie a questa tua recensione me la suscitano..Armando
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