Il mio quarto viaggio nel sud-est degli Stati
Uniti inizia a Nashville, città che non avevo mai visto, e si concluderà dopo
quindici giorni a New Orleans, città che ormai conosco quasi a memoria ed ogni
volta ci torno volentieri. Siamo in tre, con me ci sono Roberto,
l'organizzatore dell'Ameno Blues, anche lui fortemente motivato dalla musica, e
Gigi, storico compagno di venture più o meno proibite. A Nashville via Londra
arriviamo la sera del 2 ottobre, ci staremo tre giorni, pochi ma quanto basta
per farsene un'idea. Il viaggio è lungo, i giorni non sono molti, bisogna
calibrare bene le tappe e Nashville offre molti punti di interesse, soprattutto
musicali. Non è una città bellissima ma sono poche le città americane che
possono fregiarsi di un simile apprezzamento, i paragoni con le città europee
sono fuorvianti.
Sarà per la musica,
la centrale Broadway piena di locali e di negozi di stivali e il Cumberland
River che la attraversa ma Nashville mi ricorda un po' Austin anche se quest'ultima
è più calda e colorata per via delle sue influenze messicane e la sua skyline non
me la sono ancora oggi tolta dagli occhi. Insomma la preferisco ma Nashville vanta più
musei musicali oltre che un intero
quartiere, Music Row, interamente dedicato all'industria discografica.
Sbarazziamo il campo sul fatto che Nashville voglia dire solo country music,
affatto, a Nashville potete trovare di tutto, dal blues al rock a qualsiasi
sottogenere che il sud degli Stati Uniti abbia partorito. E' vero che sta nel
Tennessee, vicino agli Appalachi, ma qui il sud si comincia a sentire di brutto,
anche nella cucina, sempre abbondante e over, specchio di quel more is better
che stride con il nostro più raffinato less is better. Dopo una settimana non
se ne può più di quelle montagne carbo-proteiche e si sogna una spartana aglio,
olio e peperoncino. Ma tant'è. Dicevo
dei musei, dall'Hotel Clarion, a est del Cumberland River e vicino al Nissan
Stadium, patria della squadra di football dei Tennessee Titans, dove siamo
alloggiati, arrivare sulla centrale Broadway è un gioco da ragazzi ma è meglio spostarsi
con la navetta perché in centro i parking sono carissimi. Appena imboccata la Broadway
da sud ci si imbatte nel Johnny Cash Museum,
visita obbligata per chi ama e ha amato l'uomo in nero. Occhi e orecchie
vanni in giuggiole tra copertine di dischi, fotografie, vestiti, cimeli,
poster, chitarre, stivali, giacche, film e postazioni digitali dove è possibile
selezionare le canzoni di Cash, anche nelle versioni di altri. La vita dello
straordinario musicista nato nell'Arkansas ma di fatto legato a Nashville dove
è morto nel settembre del 2003 dopo aver vissuto nella vicina Hendersonville,
nel Tennessee, è raccontata per filo e per segno.
Come è noto gli americani hanno una storia che
paragonata alla nostra è ridicola ma una cosa che sanno fare bene è valorizzare
quel poco che hanno. Con tutte le nostre ricchezze artistiche, storiche e archeologiche
dovremmo imparare da loro come si difende un patrimonio, non lo si lascia
degradare e si fa business. Perché con la cultura si fanno soldi e si crea
lavoro, nonostante qualche cretino affermi il contrario.
Se il Johnny Cash Museum è una piccola
delizia, la Country Music Hall of Fame è un imponente palazzo dedicato al cuore
bianco della musica americana. Non avere
problemi di spazio garantisce esposizioni colossali, padiglioni dove è
possibile esibire pure delle automobili,
qui è il caso dell'enorme Cadillac dello stilista country&western Nudie (quello delle giacche di Gram
Parsons per intenderci) accessoriata di corna di vacca e di fucile saldato sul
cofano posteriore. Oltre ad una serie di "gingilli" kitsch piazzati
per tutta la carrozzeria dell'auto.
E' una delle stravaganze del Museo che al
di là delle bizzarrie mantiene una rigorosità esemplare nel ricapitolare con
foto, pannelli, cimeli, dischi, strumenti, poster, vestiti e quant'altro
l'evoluzione della country music con i
suoi principali e più oscuri protagonisti. Dagli immigrati europei
anglo-scoto-irlandesi e tedeschi coi loro archeologici strumenti e le loro
arie, fino al country moderno, comprese quelle tondeggianti ragazzine bionde
cotonate e truccate che cantano pop pensando sia country, sognando magari di
diventare la nuova Dolly Parton. Altra stoffa. Ma c'è posto anche per emergenti
interessanti come Sturgill Simpson e Chris Stapleton a cui hanno allestito
apposite bacheche.
Se tutto il Museo è
top, ci sono due sezioni che mi hanno
deliziato in modo particolare, forse perché più vicine al mio sentire, e sono quelle
dedicate alla carriera di Emmylou Harris
( Songbird's Flight), e soprattutto quella denominata Outlaws & Armadillos che attraverso una ricchezza di materiale
impressionante racconta del country
fuorilegge degli anni 70 contaminato con il rock e con la scena di Austin. Dai
pionieri del movimento tipo Tom T.Hall, Bobby Bare fino ai veri apostoli di quel filone ovvero
Waylon Jennings, Willie Nelson, Jesse Colter, Tompall Glaser, Kris
Kristoffersson, Billy Joe Shaver, David Allan Coe,senza dimenticare i poeti
Townes Van Zandt, Guy Clark, Jerry Jeff Walker e i cani sciolti Kinky Friedman
e Terry Allen e i flatlanders Joe Ely, Butch Hancock e Jimmy Dale Gilmore.
E'
una sezione temporanea ma dura fino al
febbraio del 2021, interessantissima, favolosa, allestita in modo superbo con
pannelli ricchi di foto e scritti dove viene spiegato tutto, anche i dettagli
più nascosti. Varrebbe la pena visitare la Country
Music Hall of Fame anche solo per questa sezione ma nel museo si accede
anche allo storico studio B della RCA dove registrarono Elvis Presley, Waylon
Jennings, Dolly Parton e altri famosi. Due ore e mezzo di visita e non
sentirli, da evitare invece lo shop, prezzi elevati anche nei dischi e
oggettistica super turistica. Meglio quello del Johnny Cash Museum.
Ascoltare musica sulla Broadway è la cosa più
semplice di questo mondo, già dalle 10 di mattina i locali versano birra,
friggono alette di pollo e patatine ed esibiscono musicisti in tutte le salse.
Dallo scoppiettante gruppo di giovani country-rockers a folksinger al femminile
che strimpellano davanti a tre persone ancora assonnate, da scafati cowboy che
amplificano in modo chiassoso il classico Nashville sound a piccoli combo che
mischiano honky tonk e rockabilly, ce n'è per tutti i gusti e si può girare da
un locale all'altro (gli ingressi gratuiti e si può evitare di bere ad ogni
tappa) senza per forza di cose ubriacarsi. Il più interessante di questi
locali, per l'arredamento interno, i cimeli , la qualità della birra e delle
signorine al banco è il Nudie's Honky
Tonk, inventato dallo stesso Nudie e dislocato a fianco del celebre negozio
di dischi di Ernest Tubb, dentro il quale c'è una
ampia
selezione di country, bluegrass e affini con la parte finale occupata da un
altare dedicato a Loretta Lynn. Per due giorni di seguito attorno a mezzogiorno
al Nudie's Honky Tonk mi è capitato di ascoltare un brillante gruppo
country-rock di cui non ricordo il nome che visto alle nostre latitudini
farebbe il botto. Ma anche lì l'apprezzamento era notevole ed il secchiello dei
tips ben pieno. Ma i locali migliori per ascoltare musica non stanno sulla
Broadway, bisogna andare in altri quartieri. A East Nashville per esempio
divenuto il quartiere più in della città per insediamento artistico, atelier e
ristoranti. Ma una traversa della
Broadway ospita una delle sale da concerto migliori d'America, la chiesa madre
della musica country, il Ryman
Auditorium. Vale la pena una visita,
anche se non la regalano, e se ha avete fortuna di capitare nei giorni giusti,
un concerto. Annunciati erano Bob Weir, Boz Scaggs e Jason Isbell & 400
Unit, ma non nei giorni della mia permanenza a Nashville. Peccato.
Il quartiere chiamato The Gulch sta tra la Broadway ed il Music Row ed è un quartiere
fighetto come se ne incontrano sempre più spesso nelle città americane. Anche
Austin ne ha di simili. Negozi trendy all'europea, wine bar, veggie e sushi
bar, atmosfera soft. Pure un piccolo supermercato con all'interno una tavola
calda per poter mangiare senza avvelenarsi, accompagnati da ottima musica
diffusa. Questa è una delle ricchezze americane, non il cibo intendo, ma la
musica nei locali, almeno nel sud-est. Dai bar ai ristoranti, dalle tavole
calde ai negozi, la musica è sempre "di livello", abbondanza di rock
storico (non per forza classico) e roba nuova allettante e interessante che fa
venir voglia di comprarsi il disco. Proprio lì nella tavola calda leggo su uno
delle tante riviste gratuite che
riportano gli eventi della settimana,mi
sembra fosse il Nashville Scene, il concerto di tale Kristina Murray, che dalla
presentazione sembra essere una delle promesse del songwriting di Nashville.
Prendo nota, mi piace viaggiare seguendo l'input del momento, difficilmente
programmo un viaggio attorno a grandi concerti almeno di non andare
appositamente, preferisco lasciarmi trasportare da ciò che viene e prediligo
ambientazioni piccole, club, bar, juke joint.
Comunque sono arrivato a The
Gulch perché allo Station Inn , locale ruspante e
confortevole di Pine Street, si esibisce Jack
Pearson, chitarrista e cantante che tra il 1997 ed il 1999 fu nella Allman
Brothers Band. Ne uscì per questioni di tinnito ma non ha mai abbandonato
la musica divenendo un musicista molto seguito dalla comunità di Nashville ed
in genere da tutti gli appassionati di rock-blues. Un vero mago della chitarra,
stimato e apprezzato, richiesto in festival e concerti ma limitato negli
spostamenti causa la sua paura di volare. E' di casa allo Station Inn dove ci suona
mediamente una volta al mese, ed il locale, in realtà non troppo grande, è gremito.
Si esibisce in trio col batterista Joshua Hunt ed il tastierista Charles
Treadway che per tutto il concerto farà scorrere le sue dita su un Hammond che regala pienezza al suono del
combo. Un suono fluido e pastoso, un mix di rock, blues e jazz che Jack
Pearson, capelli lunghi, baffoni bianchi, aspetto piuttosto dimesso, terrà
ancorato a paesaggi allmaniani. Pearson è un virtuoso dal tocco elegante e dal
fraseggio melodico, non ha una voce formidabile ma le sue qualità li sfodera
tra le corde della chitarra creando quel suono a ruota libera che trova
compimento nella splendida versione di In
Memory of Elizabeth Reed, molto applaudita dai presenti. La performance è divisa in due lunghi set con una lunga pausa nel
mezzo, il tempo per girovagare nel locale, comprarsi una t-shirt e ordinare
delle birre, servite al banco da due signore anziane che contribuiscono a
rendere lo Station Inn più un centro anziani che un rock club. Facile in questa
pausa avvicinare Pearson, farsi firmare il suo Live in vendita
all'entrata e strappargli la promessa di un intervista il giorno dopo, che non
avverrà causa un forte raffreddore che lo costringerà a letto. Tra i titoli passati e riconosciuti I Can Fix It, World Gone Crazy, Real Hot
Pepper, uno strambo rifacimento di Besame
Mucho e la bella cover di As The
Years Go Passing By, un brano che hanno suonato tutti, da Albert King a
Fenton Robinson, da Eric Burdon a Santana, da Jeff Healy a Gary Moore. Lunghezze oltre gli otto minuti, brani
che se non fosse per le pause per accordare le chitarre e asciugarsi il sudore,
si unirebbero in una lunga ininterrotta jam. Prima dell'esibizione in trio,
Jack Pearson in coppia col maestro del fingerpicking, l'australiano Tommy Emmanuel ha deliziato i presenti
con un paio di numeri acustici di alta scuola.
Di tutt'altro tenore la sortita la sera seguente
al The Basement un oscuro locale al
1604 di 8th Ave. South, periferia sud di Nashville. Arrivarci è un po' come
uscire dalla città, abitazioni sparse, magazzini, qualche area abbandonata, luci inesistenti ed una casa che sembra uscita
da un film horror. L'indirizzo parla chiaro ma di musica non se ne vede l'ombra, qualche asse di legno
inchiodato in diagonale sulla porta suggerisce l'abbandono dell' abitazione,
piuttosto cadente. Poi una luce che proviene dal retro indica il vero accesso,
bisogna costeggiare una stradina laterale e ci si ritrova in un cortile sul
retro della casa . L'atmosfera horror non cambio ma un tipo giovane sul
ballatoio in legno antistante all'entrata maneggia un mazzetto di dollari, per
cui capisco al volo come funziona. Otto dollari e tre band, mi pare
conveniente. Due locali comunicanti non
molto ampi, poche sedie, un bagno sgangherato, un bancone per le birre con un
barman maleducato, un piccolo patio per i fumatori ed una oscurità piuttosto inquietante.
Pare di essere in uno scalcinato centro sociale o in una casa occupata ed
invece è uno dei luoghi culto della musica underground, e non solo, di Nashville. Naturalmente fili a vista che
pendono come stelle filanti, impianto elettrico pre-bellico e ventole
arrugginite che sparano aria fredda da bronchite. Un posto così in Italia lo
chiudono ancora prima di aprirlo, invece negli States funziona e l'acustica è
perfetta. Dopo aver maneggiato con cavi, amplificatori e microfoni sul palco,
una band di cowboy texani parte senza presentarsi e pronunciare verbo. Una graziosa
cantante con cappellaccio, jeans a zampa, capelli lunghi e chitarra a tracolla
trascina la band sulle note di un classico country-rock elettrico aggiornato con
una spigliatezza ed una freschezza giovanile. Siamo dalle parti del cow-punk ma
le melodie sono il forte del loro set. 45 minuti di musica e non si smette un
minuto di far andare il piedino. Non mi
preoccupo nemmeno di conoscere il loro nome, nell'oscurità basta la loro musica
e la loro spontaneità. Dopo di che è la volta di Kristina Murray la star della serata. Nativa della Georgia, è oggi
di casa a Nashville dove si è fatta un nome tra i songwriters della città e
giornali e riviste parlano di lei. The Basement si è difatti riempito per il
suo arrivo, un pubblico giovane , per età
molto diverso da quello dello Station Inn. Supportata da una gruppo di cinque
elementi, tra cui due tastiere, la bella Kristina infila una canzone dietro
l'altra sfoggiando una bella voce ed una varietà tematica che la posiziona su
quella strada indicata al tempo da Emmylou Harris e Linda Ronstadt che oggi
arriva a Courtney Marie Andrews.
Un mix di troubadour storytelling, folk-rock,
country-rock e accenni southern rock, cantato col piglio di chi si muove nell'
underground ma ha ambizioni da grande. Un sound solido che permette diversi
assoli di chitarre ed il dialogo tra pianoforte ed organo, Kristina Murray si
fa prendere dal calore del pubblico e sciorina per intero i pezzi del
suo Southern
Ambrosia dove accanto ai nomi citati spuntano cenni di Jackson Browne, sognanti ballate ed uno scoppiettante
honky-tonk. Il disco è prodotto da
Michael Rinne ed è pubblicato dalla Loud Magnolia Records della stessa
Murray. Da tenere presente, a Nashville sulla Murray sembrano scommetterci e
gli applausi sono generosi. Quando, dopo un'ora la Murray lascia il palco, è il
momento della terza band ma il fuso orario non è ancora stato smaltito per cui la cosa migliore sembra essere quella di
tornare in hotel. Arrivederci a Macon.
MAURO
ZAMBELLINI NOVEMBRE 2018
1 commento:
Preziosi e da conservare questi tuoi appunti di viaggio,almeno per chi come me e direi noi tutti appassionati,negli anni ci siamo nutriti di musica e di letture come Mucchio Selvaggio e Buscadero. Non c'è da dire altro...le radici sono nella cottonbelt e non riconoscerlo è assurdo. Questi tuoi appunti non fanno altro che rinnovare e aggiornare le pagine di un antico e mai dimenticato amore chiamato Rock'n'roll....grazie Zambo,grazie di tutto cuore !!! Armando
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