lunedì 12 novembre 2018

Cartoline dal Sud: 2) NASHVILLE, TENNESSEE

 
Il mio quarto viaggio nel sud-est degli Stati Uniti inizia a Nashville, città che non avevo mai visto, e si concluderà dopo quindici giorni a New Orleans, città che ormai conosco quasi a memoria ed ogni volta ci torno volentieri. Siamo in tre, con me ci sono Roberto, l'organizzatore dell'Ameno Blues, anche lui fortemente motivato dalla musica, e Gigi, storico compagno di venture più o meno proibite. A Nashville via Londra arriviamo la sera del 2 ottobre, ci staremo tre giorni, pochi ma quanto basta per farsene un'idea. Il viaggio è lungo, i giorni non sono molti, bisogna calibrare bene le tappe e Nashville offre molti punti di interesse, soprattutto musicali. Non è una città bellissima ma sono poche le città americane che possono fregiarsi di un simile apprezzamento, i paragoni con le città europee sono fuorvianti. 

Sarà per la musica, la  centrale Broadway piena di locali e di negozi di stivali e il Cumberland River che la attraversa ma Nashville mi ricorda un po' Austin anche se quest'ultima è più calda e colorata per via delle sue influenze messicane e la sua skyline non me la sono ancora oggi tolta dagli occhi. Insomma la preferisco ma Nashville  vanta  più musei musicali  oltre che un intero quartiere, Music Row, interamente dedicato all'industria discografica. Sbarazziamo il campo sul fatto che Nashville voglia dire solo country music, affatto, a Nashville potete trovare di tutto, dal blues al rock a qualsiasi sottogenere che il sud degli Stati Uniti abbia partorito. E' vero che sta nel Tennessee, vicino agli Appalachi, ma qui il sud si comincia a sentire di brutto, anche nella cucina, sempre abbondante e over, specchio di quel more is better che stride con il nostro più raffinato less is better. Dopo una settimana non se ne può più di quelle montagne carbo-proteiche e si sogna una spartana aglio, olio e peperoncino. Ma tant'è.  Dicevo dei musei, dall'Hotel Clarion, a est del Cumberland River e vicino al Nissan Stadium, patria della squadra di football dei Tennessee Titans, dove siamo alloggiati, arrivare sulla centrale Broadway è un gioco da ragazzi ma è meglio spostarsi con la navetta perché in centro i parking sono carissimi. Appena imboccata la Broadway da sud ci si imbatte nel Johnny Cash Museum,

visita obbligata per chi ama e ha amato l'uomo in nero. Occhi e orecchie vanni in giuggiole tra copertine di dischi, fotografie, vestiti, cimeli, poster, chitarre, stivali, giacche, film e postazioni digitali dove è possibile selezionare le canzoni di Cash, anche nelle versioni di altri. La vita dello straordinario musicista nato nell'Arkansas ma di fatto legato a Nashville dove è morto nel settembre del 2003 dopo aver vissuto nella vicina Hendersonville, nel Tennessee, è raccontata per filo e per segno.

Come è noto gli americani hanno una storia che paragonata alla nostra è ridicola ma una cosa che sanno fare bene è valorizzare quel poco che hanno. Con tutte le nostre ricchezze artistiche, storiche e archeologiche dovremmo imparare da loro come si difende un patrimonio, non lo si lascia degradare e si fa business. Perché con la cultura si fanno soldi e si crea lavoro, nonostante qualche cretino affermi il contrario.

Se il Johnny Cash Museum è una piccola delizia, la  Country Music Hall of Fame è un imponente palazzo dedicato al cuore bianco della musica americana.  Non avere problemi di spazio garantisce esposizioni colossali, padiglioni dove è possibile esibire pure delle  automobili, qui è il caso dell'enorme Cadillac dello stilista country&western Nudie (quello delle giacche di Gram Parsons per intenderci) accessoriata di corna di vacca e di fucile saldato sul cofano posteriore. Oltre ad una serie di "gingilli" kitsch piazzati per tutta la carrozzeria dell'auto.

E' una delle stravaganze del Museo che al di là delle bizzarrie mantiene una rigorosità esemplare nel ricapitolare con foto, pannelli, cimeli, dischi, strumenti, poster, vestiti e quant'altro l'evoluzione della country music  con i suoi principali e più oscuri protagonisti. Dagli immigrati europei anglo-scoto-irlandesi e tedeschi coi loro archeologici strumenti e le loro arie, fino al country moderno, comprese quelle tondeggianti ragazzine bionde cotonate e truccate che cantano pop pensando sia country, sognando magari di diventare la nuova Dolly Parton. Altra stoffa. Ma c'è posto anche per emergenti interessanti come Sturgill Simpson e Chris Stapleton a cui hanno allestito apposite bacheche.  

Se tutto il Museo è top, ci sono due  sezioni che mi hanno deliziato in modo particolare, forse perché più vicine al mio sentire, e sono quelle dedicate alla carriera di Emmylou Harris ( Songbird's Flight), e soprattutto quella denominata Outlaws & Armadillos che attraverso una ricchezza di materiale impressionante  racconta del country fuorilegge degli anni 70 contaminato con il rock e con la scena di Austin. Dai pionieri del movimento tipo Tom T.Hall, Bobby Bare  fino ai veri apostoli di quel filone ovvero Waylon Jennings, Willie Nelson, Jesse Colter, Tompall Glaser, Kris Kristoffersson, Billy Joe Shaver, David Allan Coe,senza dimenticare i poeti Townes Van Zandt, Guy Clark, Jerry Jeff Walker e i cani sciolti Kinky Friedman e Terry Allen e i flatlanders Joe Ely, Butch Hancock e Jimmy Dale Gilmore.
 E' una sezione temporanea ma dura  fino al febbraio del 2021, interessantissima, favolosa, allestita in modo superbo con pannelli ricchi di foto e scritti dove viene spiegato tutto, anche i dettagli più nascosti. Varrebbe la pena visitare la Country Music Hall of Fame anche solo per questa sezione ma nel museo si accede anche allo storico studio B della RCA dove registrarono Elvis Presley, Waylon Jennings, Dolly Parton e altri famosi. Due ore e mezzo di visita e non sentirli, da evitare invece lo shop, prezzi elevati anche nei dischi e oggettistica super turistica. Meglio quello del Johnny Cash Museum.

Ascoltare musica sulla Broadway è la cosa più semplice di questo mondo, già dalle 10 di mattina i locali versano birra, friggono alette di pollo e patatine ed esibiscono musicisti in tutte le salse.

Dallo scoppiettante gruppo di giovani country-rockers a folksinger al femminile che strimpellano davanti a tre persone ancora assonnate, da scafati cowboy che amplificano in modo chiassoso il classico Nashville sound a piccoli combo che mischiano honky tonk e rockabilly, ce n'è per tutti i gusti e si può girare da un locale all'altro (gli ingressi gratuiti e si può evitare di bere ad ogni tappa) senza per forza di cose ubriacarsi. Il più interessante di questi locali, per l'arredamento interno, i cimeli , la qualità della birra e delle signorine al banco è il Nudie's Honky Tonk, inventato dallo stesso Nudie e dislocato a fianco del celebre negozio di dischi di Ernest Tubb, dentro il quale c'è una
ampia selezione di country, bluegrass e affini con la parte finale occupata da un altare dedicato a Loretta Lynn. Per due giorni di seguito attorno a mezzogiorno al Nudie's Honky Tonk  mi è capitato di ascoltare un brillante gruppo country-rock di cui non ricordo il nome che visto alle nostre latitudini farebbe il botto. Ma anche lì l'apprezzamento era notevole ed il secchiello dei tips ben pieno. Ma i locali migliori per ascoltare musica non stanno sulla Broadway, bisogna andare in altri quartieri. A East Nashville per esempio divenuto il quartiere più in della città per insediamento artistico, atelier e ristoranti.  Ma una traversa della Broadway ospita una delle sale da concerto migliori d'America, la chiesa madre della musica country, il Ryman Auditorium.  Vale la pena una visita, anche se non la regalano, e se ha avete fortuna di capitare nei giorni giusti, un concerto. Annunciati erano Bob Weir, Boz Scaggs e Jason Isbell & 400 Unit, ma non nei giorni della mia permanenza a Nashville. Peccato.
 

Il quartiere chiamato The Gulch sta tra la Broadway ed il Music Row ed è un quartiere fighetto come se ne incontrano sempre più spesso nelle città americane. Anche Austin ne ha di simili. Negozi trendy all'europea, wine bar, veggie e sushi bar, atmosfera soft. Pure un piccolo supermercato con all'interno una tavola calda per poter mangiare senza avvelenarsi, accompagnati da ottima musica diffusa. Questa è una delle ricchezze americane, non il cibo intendo, ma la musica nei locali, almeno nel sud-est. Dai bar ai ristoranti, dalle tavole calde ai negozi, la musica è sempre "di livello", abbondanza di rock storico (non per forza classico) e roba nuova allettante e interessante che fa venir voglia di comprarsi il disco. Proprio lì nella tavola calda leggo su uno delle tante riviste  gratuite che riportano gli eventi della settimana,mi  sembra fosse il Nashville Scene, il concerto di tale Kristina Murray, che dalla presentazione sembra essere una delle promesse del songwriting di Nashville. Prendo nota, mi piace viaggiare seguendo l'input del momento, difficilmente programmo un viaggio attorno a grandi concerti almeno di non andare appositamente, preferisco lasciarmi trasportare da ciò che viene e prediligo ambientazioni piccole, club, bar, juke joint.
Comunque sono arrivato a The Gulch perché allo Station Inn , locale ruspante e confortevole di Pine Street, si esibisce Jack Pearson, chitarrista e cantante che tra il 1997 ed il 1999 fu nella  Allman Brothers Band. Ne uscì per questioni di tinnito ma non ha mai abbandonato la musica divenendo un musicista molto seguito dalla comunità di Nashville ed in genere da tutti gli appassionati di rock-blues. Un vero mago della chitarra, stimato e apprezzato, richiesto in festival e concerti ma limitato negli spostamenti causa la sua paura di volare.  E' di casa allo Station Inn dove ci suona mediamente una volta al mese, ed il locale, in realtà non troppo grande, è gremito. Si esibisce in trio col batterista Joshua Hunt ed il tastierista Charles Treadway che per tutto il concerto farà scorrere le sue dita su un  Hammond che regala pienezza al suono del combo. Un suono fluido e pastoso, un mix di rock, blues e jazz che Jack Pearson, capelli lunghi, baffoni bianchi, aspetto piuttosto dimesso, terrà ancorato a paesaggi allmaniani. Pearson è un virtuoso dal tocco elegante e dal fraseggio melodico, non ha una voce formidabile ma le sue qualità li sfodera tra le corde della chitarra creando quel suono a ruota libera che trova compimento nella splendida versione di In Memory of Elizabeth Reed, molto applaudita dai presenti. La performance è divisa in due lunghi set con una lunga pausa nel mezzo, il tempo per girovagare nel locale, comprarsi una t-shirt e ordinare delle birre, servite al banco da due signore anziane che contribuiscono a rendere lo Station Inn più un centro anziani che un rock club. Facile in questa pausa avvicinare Pearson, farsi firmare il suo Live in vendita all'entrata e strappargli la promessa di un intervista il giorno dopo, che non avverrà causa un forte raffreddore che lo costringerà a letto. Tra i titoli passati e riconosciuti I Can Fix It, World Gone Crazy, Real Hot Pepper, uno strambo rifacimento di Besame Mucho e la bella cover di As The Years Go Passing By, un brano che hanno suonato tutti, da Albert King a Fenton Robinson, da Eric Burdon a Santana, da Jeff Healy a Gary Moore. Lunghezze oltre gli otto minuti, brani che se non fosse per le pause per accordare le chitarre e asciugarsi il sudore, si unirebbero in una lunga ininterrotta jam. Prima dell'esibizione in trio, Jack Pearson in coppia col maestro del fingerpicking, l'australiano Tommy Emmanuel ha deliziato i presenti con un paio di numeri acustici di alta scuola.
 

Di tutt'altro tenore la sortita la sera seguente al The Basement un oscuro locale al 1604 di 8th Ave. South, periferia sud di Nashville. Arrivarci è un po' come uscire dalla città, abitazioni sparse, magazzini, qualche area abbandonata,  luci inesistenti ed una casa che sembra uscita da un film horror. L'indirizzo parla chiaro ma di musica  non se ne vede l'ombra, qualche asse di legno inchiodato in diagonale sulla porta suggerisce l'abbandono dell' abitazione, piuttosto cadente. Poi una luce che proviene dal retro indica il vero accesso, bisogna costeggiare una stradina laterale e ci si ritrova in un cortile sul retro della casa . L'atmosfera horror non cambio ma un tipo giovane sul ballatoio in legno antistante all'entrata maneggia un mazzetto di dollari, per cui capisco al volo come funziona. Otto dollari e tre band, mi pare conveniente. Due locali comunicanti  non molto ampi, poche sedie, un bagno sgangherato, un bancone per le birre con un barman maleducato, un piccolo patio per i fumatori ed una oscurità piuttosto inquietante. Pare di essere in uno scalcinato centro sociale o in una casa occupata ed invece è uno dei luoghi culto della musica underground, e non solo,  di Nashville. Naturalmente fili a vista che pendono come stelle filanti, impianto elettrico pre-bellico e ventole arrugginite che sparano aria fredda da bronchite. Un posto così in Italia lo chiudono ancora prima di aprirlo, invece negli States funziona e l'acustica è perfetta. Dopo aver maneggiato con cavi, amplificatori e microfoni sul palco, una band di cowboy texani parte senza presentarsi e pronunciare verbo. Una graziosa cantante con cappellaccio, jeans a zampa, capelli lunghi e chitarra a tracolla trascina la band sulle note di un classico country-rock elettrico aggiornato con una spigliatezza ed una freschezza giovanile. Siamo dalle parti del cow-punk ma le melodie sono il forte del loro set. 45 minuti di musica e non si smette un minuto di far andare il piedino.  Non mi preoccupo nemmeno di conoscere il loro nome, nell'oscurità basta la loro musica e la loro spontaneità. Dopo di che è la volta di Kristina Murray la star della serata. Nativa della Georgia, è oggi di casa a Nashville dove si è fatta un nome tra i songwriters della città e giornali e riviste parlano di lei. The Basement si è difatti riempito per il suo arrivo, un pubblico giovane , per età molto diverso da quello dello Station Inn. Supportata da una gruppo di cinque elementi, tra cui due tastiere, la bella Kristina infila una canzone dietro l'altra sfoggiando una bella voce ed una varietà tematica che la posiziona su quella strada indicata al tempo da Emmylou Harris e Linda Ronstadt che oggi arriva a Courtney Marie Andrews.
Un mix di troubadour storytelling, folk-rock, country-rock e accenni southern rock, cantato col piglio di chi si muove nell' underground ma ha ambizioni da grande. Un sound solido che permette diversi assoli di chitarre ed il dialogo tra pianoforte ed organo, Kristina Murray si fa prendere dal calore del pubblico e sciorina per intero i pezzi del suo Southern Ambrosia dove accanto ai nomi citati spuntano cenni di Jackson Browne,  sognanti ballate ed uno scoppiettante honky-tonk. Il disco è prodotto da  Michael Rinne ed è pubblicato dalla Loud Magnolia Records della stessa Murray. Da tenere presente, a Nashville sulla Murray sembrano scommetterci e gli applausi sono generosi. Quando, dopo un'ora la Murray lascia il palco, è il momento della terza band ma il fuso orario non è ancora stato smaltito per cui  la cosa migliore sembra essere quella di tornare in hotel. Arrivederci a Macon.

 

MAURO ZAMBELLINI  NOVEMBRE 2018

 

































1 commento:

armando ha detto...

Preziosi e da conservare questi tuoi appunti di viaggio,almeno per chi come me e direi noi tutti appassionati,negli anni ci siamo nutriti di musica e di letture come Mucchio Selvaggio e Buscadero. Non c'è da dire altro...le radici sono nella cottonbelt e non riconoscerlo è assurdo. Questi tuoi appunti non fanno altro che rinnovare e aggiornare le pagine di un antico e mai dimenticato amore chiamato Rock'n'roll....grazie Zambo,grazie di tutto cuore !!! Armando