Viaggio in Afghanistan 1975.
Mi sono
laureato il 21 luglio. Nessuno della mia famiglia, mio padre lavora, mia madre
e i fratelli al mare a Bellaria. In compenso incontro un amico poco prima della
discussione della tesi. Un tiro di erba, un aperitivo, ricordo confuso e fumoso
della discussione della tesi, sicuramente non molto brillante. Il giorno dopo
mi rendo conto che ho davanti a me sei mesi particolari, perché sono laureato
ma dovrò attendere gennaio 1976 per poter fare l’esame di Stato e iniziare a
lavorare. Un’altra chiara consapevolezza: ho risolto il problema della
sopravvivenza, ora posso permettermi di fare le cose che mi piacciono. Tra mio padre
e mia nonna Elvira raggranello circa 300.000 lire di regalo/laurea e devo solo
decidere come spendere qualche mese di questo periodo particolarmente
fortunato: è la fine del lungo iter di studi ma non è ancora l’inizio del
lavoro e delle responsabilità. Una vera fase di passaggio. Qualche settimane
prima, nel periodo di stress pre-laurea, avevo visto al cinema “ Il sogno delle
Mille e una notte” di Pasolini. Ero rimasto turbato e ammaliato dalla
scenografia, ambientata mi sembra tra Nepal e Yemen, e lentamente mi si era
insinuato il desiderio di andare a Est, in modo generico. Ero già stato per tre
volte in Marocco negli anni precedenti e già mi era successo di essere stato
spinto dalla visione di un film a desiderare e poi decidere di fare un viaggio in
qualche modo collegato. Era stato nel 1970, qualche mese dopo aver visto “Easy
rider “. L’inevitabile coincidenza (questa storia sarà piena di coincidenze):
il mio amico Gigi R, compagno di scuola delle elementari, attualmente mio compagno di appartamento a
Pavia dove studia Economia e Commercio, mi propone di fare un viaggio di un
mese per l’Europa con tappa finale al festival Rock dell’Isola di Wight.
Sarebbe stato il primo di tre viaggi insieme, con lui e la sua ragazza
Mariarosa,: dopo l’Europa i primi due viaggi in Marocco.
Un’altra
coincidenza col 1970 la fine di una storia d’amore. Nel 1970 ero appena stato
lasciato da Monica, il primo amore della mia vita. Simbiotici per quasi due
anni, negli ultimi mesi io a Pavia lei a Milano e percorsi di crescita
divergenti portano, come spesso succede a quell’età, a voler andare altrove. E’
lei che fa il passo, e dopo pochi giorni di scoramento la proposta del viaggio
la vivo come occasione di rinascita. Adesso, 1975, era appena finita la
convivenza di due anni, nella sua casa, con Giovanna, molto intelligente,
determinata e fragile. Anche in questo caso è stata lei a voler chiudere.
Eravamo molto diversi e forse poco compatibili, ma condividevamo bellissimi
momenti di scambio che lei definiva “ orgasmi mentali “.
La prima tappa del
viaggio è Firenze, vado a trovare il mio amico Rinaldo M, detto “ Prato” dalla sua città di origine, che era
stato a Pavia un paio d’anni a studiare Filosofia. Ero già stato un’altra volta
a trovarlo a Firenze, nella sua casa di via dei Ginori, a due passi da San
Lorenzo. Trovo una situazione tragicamente cambiata: lui e la sua dolcissima “
Pirilla “ sono diventati eroinomani, così come il loro giro di amici, tutti ex
militanti di Lotta Continua. Andrea, responsabile del servizio d’ordine a
Firenze, Stefano, il ritratto di David Crosby con lo stesso sorriso amaro. La
fine dei sogni nati alla fine degli anni ’60 sta già mietendo le proprie
vittime tra i più fragili e disperati. E’ un virus non virus che si espande a
macchia d’olio. Condivido alcuni giorni in cui sono l’unico a non farsi. Non ho
mai avuto la tentazione di compiere un atto contrario non ai miei principi
etici ma semplicemente al mio piacere di vivere e di essere attratto solo da
cose sane. Mi viene in mente la canzone “ The Pusher “ degli Steppenwolf: You know I've smoked a lot of grass O' Lord, I've popped a lot of pills, But I never touched nothin' That
my spirit could kill.You know, I've seen a lot of people walkin' 'round With tombstones in their eyes…
Questo mi ha permesso di non aver
paura di stare in una situazione che avrebbe respinto molti. Scopro il
significato, per me che sono di formazione laica, del concetto di “pietas” nel
suo significato di compassione e rispetto. Così come so che questa esperienza
avrebbe sicuramente influenzato la mia disponibilità, nel 1980, ad accettare la
proposta della USL di Omegna di aprire il primo ambulatorio per le
tossicodipendenze. Nessun medico era allora disponibile e i miei colleghi mi
guardavano come un paria della professione, medico di serie B.
In uno
di quei giorni a Firenze divido un acido in tre parti con Rinaldo e Pirilla,
curioso con prudenza. Più visioni che allucinazioni, senza mai una perdita del
controllo assoluta. Curiosa esperienza di comunicazione non verbale con la
ragazza di “Crosby“ che incontro per la prima volta e che non assumeva nessun
tipo di sostanze: ci accorgiamo di aver avuto un dialogo non verbale a più
scambi semplicemente guardandoci negli occhi in modo rilassato. Avrei avuto
qualche coda percettiva e di ipersensibilità più avanti. Un giorno vado in
autostop con la moglie di Andrea a Orvieto per un concerto di Umbria Jazz. Ci
ospita una coppia con bambina che avevo conosciuto in Sardegna a Rocca Ruja,
dove eravamo gli unici a fare campeggio libero vicino a una spiaggia. Alla fine
del concerto, mentre esco dalla piazza, incontro Gigi e Mariarosa con un paio
di amici e di corsa mi dicono che stanno partendo per la Grecia. “Andiamo a
Paros!”. Ciao ciao.
Al
mercato di San Lorenzo compro uno zaino militare e una borraccia, pastiglie di
cloro, e mi organizzo per partire l’indomani. Non ho una macchina fotografica,
non ho l’attitudine di fare lo scatto al momento giusto nel posto giusto. Non
potevo immaginare che sarei stato in posti non più raggiungibili
per lungo tempo e mai più uguali a com’erano a stati allora.
Avrei
rivisto Rinaldo e Pirilla nel 1977 a Bologna nel folle meeting che ha segnato
la fine definitiva di ogni sogno condiviso, ovviamente sieropositivi. Li ho
persi e non ho avuto più la possibilità di sapere del loro destino. Il giorno
dopo vado coi mezzi pubblici all’ingresso della autostrada a Firenze Signa e
inizio l’autostop. Ogni passaggio finiva nell’autogrill precedente l’uscita di
chi mi dava il passaggio. Dormo col sacco a pelo su un prato di autogrill. Il
giorno dopo arrivo a Brindisi e mi imbarco per la Grecia. Sul traghetto
incontro Giorgio, conosciuto un giorno a casa di Rinaldo, che sta viaggiando
con Anita, reduce da un aborto conseguenza di un rapporto con un ragazzo nel
frattempo sparito. Sto ad Atene un giorno per vedere Partenone e altro, non
rimanendo particolarmente colpito. Ben altro sarebbe stato l’impatto coi tesori
archeologici e la bellezza di Siracusa, in cui ho passato un anno da militare
dal luglio 1976 al giugno 1977, ma questa è un’altra storia. Devo prendere una
prima decisione su dove andare: subito a Oriente verso la Turchia ? Scelgo di
concedermi prima qualche giorno di mare, sono in Grecia e ne dovrebbe valer la
pena. Guardo la mappa in biglietteria e mi dico: perché non Paros ? Sul
traghetto man mano che ci avviciniamo all’isola mi sento turbato. Ripenso alla
fine della mia storia con Giovanna e sentimenti contrastanti si impadroniscono
di me, compresa la percezione di sentirla vicino. Appena sceso a terra decido
al volo di prendere l’autobus che porta in un paesino più piccolo e meno
turistico, a circa dieci chilometri. Sono preda di un’inspiegabile ansia e a un
certo punto, guardando dal finestrino, vedo di spalle una figura femminile
seduta su una roccia. Malgrado mi dica che non ha senso, penso che potrebbe
essere lei. Un chilometro e scendo, torno indietro ed è proprio lei, in vacanza
con un’amica. Non ci abbracciamo, entrambi impacciati e un po’ “nordici” nel
manifestare i sentimenti.
Torniamo
insieme sulla spiaggia in cui hanno piantato la loro tenda e chi trovo? Gigi,
Mariarosa e i loro amici, accampati a pochi metri. Passiamo la sera insieme,
con loro e con altri con cui avevano familiarizzato. Dormo nel mio sacco a pelo
a cielo aperto per un paio di notti e
vivo la situazione in modo tranquillo. Ritorno sulla terraferma con Gigi e gli
altri, in partenza per un’altra parte della Grecia, che mi avrebbero dato un
passaggio in direzione Turchia. Rifiuto il gentile invito di tre ragazze austriache
di rimanere ospite nella loro tenda invece di partire, lusingato dalla proposta
ma più interessato a continuare il mio viaggio. Giovanna mi avrebbe poi
ricercato al ritorno per una ripresa della nostra relazione che sarebbe durata
altri sei mesi. Non sono mai riuscito a darmi una spiegazione convincente della
mia esperienza psichica di percezione della sua presenza su quell’isola e in quel villaggio: effetto dell’LSD che apre le porte di parti del
nostro cervello meno esplorate? Risposte banali tipo “il caso”, “la fortuna” o
“il destino” fanno parte della categoria “ Mi invento qualcosa che non esiste
per spiegare qualcosa che non so spiegare”.
Il
passaggio verso la Turchia finisce all’altezza delle Termopili. Saluto gli
amici e aspetto un paio d’ore prima che mi raccolga una coppia di Genova con
una R4 senza sedili posteriori, diretti proprio a Istanbul. Si capisce che è la
prima volta che viaggiano all’estero quando cerchiamo un taxi per andare, dal
camping in cui si erano piazzati, verso il centro città. Il taxista chiede una
cifra iperbolica e non lesina atteggiamenti aggressivi, loro sono in evidente
difficoltà, io gestisco la trattativa
con calma riportando la tariffa a cifre ragionevoli e realizzano che in Turchia
per loro non saranno rose e fiori. Mi propongono di rimanere con loro per un
po’ di giorni, ma li saluto e vado subito a Sultanahmet, centro storico nonché
vero punto di snodo di tutti i percorsi verso Oriente. Trovo una camera low
cost e poi individuo la strada occupata da coloro che vanno o tornano dai vari
itinerari, per cercare eventuali situazioni a cui aggregarmi, Peace Bus o
altro. Devo anche decidere dove
voglio andare: Estremo Oriente (Persia, Afghanistan, India), Siria e oltre, le
spiagge turche. Nei due giorni a Istanbul ho modo di apprezzare, oltre alla
bellezza del centro della città, l’ottima cucina low cost di molti negozi
alimentari o ristorantini. Cucina mediterranea in versione originale, ottime
verdure, poca carne o pesce ben assemblati, spezie abbondanti senza eccessi.
Una sera appena mi sdraio sul mio letto per dormire ho un ritorno psichedelico
dalla mia porzione di LSD, allucinazioni ottiche di luci e colori; mi ci
abbandono più curioso che spaventato ma capisco che per alcuni individui la
perdita del controllo potrebbe essere un’esperienza traumatica e innescare
pericolose paranoie.
Decido di andare in Afghanistan e compro il biglietto, 20 dollari, per il viaggio fino a Teheran. Autobus Mercedes con aria condizionata e conosco subito gli altri cinque turisti non orientali del bus, con cui avrei passato i quattro giorni fino a Herat, prima città dell’Afghanistan. Tra loro c’è un italiano, Francesco P. di San Benedetto del Tronto, diretto coraggiosamente in India senza sapere una sola parola di inglese e con un piccolo handicap motorio esito di una displasia bilaterale congenita dell’anca. Faccio amicizia con Rudi Tschögl, biondo austriaco dai lunghi capelli che mi invidiava perché in Austria non avevano un partito come il Partito Comunista Italiano. Gli altri compagni di viaggio un insipido belga, uno jugoslavo rozzo, Goran, definito da Rudi “cultural junkie”, e Daniel, un canadese molto teso. Mi confesserà verso la fine del viaggio fatto insieme di essere un corriere della droga che viaggia via terra per motivi di tracciabilità prima di affrontare il ritorno in Canada col suo carico di eroina. Non è un tossico ma è pieno di debiti, sposato e con figli, e ha molta paura. Concordiamo di viaggiare insieme fino a Herat anche per motivi di sicurezza. In Iran sono gli ultimi anni dello Scià, sappiamo che la situazione è molto tesa, i turisti non molto graditi, e il percorso da Mashad a Herat un po’ avventuroso. Sosta notturna del viaggio a Erzurum, grosso centro non lontano dal monte Ararat, che vediamo in lontananza. Usciamo dall’albergo in cerca di cibo e troviamo… una pizzeria! In realtà è un piccolo locale con forno a legna che fa delle pizze con pomodoro, ragù di carne di ? e aromi vari: buonissima.
Decido di andare in Afghanistan e compro il biglietto, 20 dollari, per il viaggio fino a Teheran. Autobus Mercedes con aria condizionata e conosco subito gli altri cinque turisti non orientali del bus, con cui avrei passato i quattro giorni fino a Herat, prima città dell’Afghanistan. Tra loro c’è un italiano, Francesco P. di San Benedetto del Tronto, diretto coraggiosamente in India senza sapere una sola parola di inglese e con un piccolo handicap motorio esito di una displasia bilaterale congenita dell’anca. Faccio amicizia con Rudi Tschögl, biondo austriaco dai lunghi capelli che mi invidiava perché in Austria non avevano un partito come il Partito Comunista Italiano. Gli altri compagni di viaggio un insipido belga, uno jugoslavo rozzo, Goran, definito da Rudi “cultural junkie”, e Daniel, un canadese molto teso. Mi confesserà verso la fine del viaggio fatto insieme di essere un corriere della droga che viaggia via terra per motivi di tracciabilità prima di affrontare il ritorno in Canada col suo carico di eroina. Non è un tossico ma è pieno di debiti, sposato e con figli, e ha molta paura. Concordiamo di viaggiare insieme fino a Herat anche per motivi di sicurezza. In Iran sono gli ultimi anni dello Scià, sappiamo che la situazione è molto tesa, i turisti non molto graditi, e il percorso da Mashad a Herat un po’ avventuroso. Sosta notturna del viaggio a Erzurum, grosso centro non lontano dal monte Ararat, che vediamo in lontananza. Usciamo dall’albergo in cerca di cibo e troviamo… una pizzeria! In realtà è un piccolo locale con forno a legna che fa delle pizze con pomodoro, ragù di carne di ? e aromi vari: buonissima.
Arriviamo
a Teheran in tarda mattinata e cerchiamo la coincidenza più rapida per Mashad.
Aspettiamo alcune ore nei pressi della stazione degli autobus e percepiamo un
clima molto teso. Poca gente in giro, sguardi ostili nei nostri confronti,
nessun altro turista in circolazione. L’ostilità nei confronti del regime si
estendeva probabilmente a tutto ciò che rappresentava l’Occidente corrotto.
Unico bel ricordo costituito da buonissime uova strapazzate al pomodoro vendute
fuori dalla stazione da un tipo che, con un bidone che fungeva da fornello, una
padella, del grasso di dubbia origine, senz’acqua a disposizione e solo qualche
straccio, riusciva a servire rapidamente le persone in attesa. La scoperta
della fame e il gusto del cibo risanatore sarà una delle caratteristiche del
viaggio.
Arriviamo
a Mashad, città sacra meta di pellegrinaggio da tutto il paese, e il clima,
anche atmosferico, è diverso. Città bellissima, centro del commercio del
turchese acquistabile a poco prezzo, clima caldo. Nessuno di noi viaggiava con
una guida turistica, ma con una serie di informazioni acquisite col passaparola
di altri viaggiatori e grazie a ciò troviamo un confortevole campeggio in
centro città con comode camere e piscina e decidiamo di fermarci un giorno.
Riesco a salvare dall’annegamento Francesco che si era imprudentemente buttato
in piscina non sapendo nuotare convinto che l’acqua fosse bassa. E dire che
proveniva da uno dei porti pescherecci più importanti del Mediterraneo! Appare
ancora più miracoloso il fatto che sia riuscito ad andare fino in India, il suo
obiettivo, così sprovveduto. E a tornare a casa sano e salvo.
La città è piena di pellegrini ma anche di negozi, tutto ruota attorno al magnifico Santuario dell’Imam Reza e alla Moschea Goharshad, dove i colori dominanti sono l’oro e il turchese. Faccio conoscenza con tre ragazzi del posto, studenti, molto interessati a sapere notizie sul mio mondo. Mi dicono che potrei sembrare un persiano: sono abbronzato, capelli nerissimi, baffi folti, lenti a contatto e quindi niente montature di occhiali sospette, e mi propongono di entrare con loro - ovviamente senza parlare - all’interno di uno dei magnifici cortili del Santuario, vietati agli infedeli. La tentazione è forte ma basta una breve visione di cosa potrebbe essere un carcere persiano per decidere di rinunciare.
Il
tragitto da Mashad al confine con l’Afghanistan è complicato e mal servito
anche perché non è percorso dagli abitanti dei due paesi, che non hanno
relazioni. L’ultimo mezzo di linea arriva a tarda sera in un villaggetto nella
periferia di Torbat-e-
Jam (dove Jam non si riferisce a un’allegra musica
improvvisata) a 50 km dal confine, dove
l’unico posto praticabile è una specie di locanda con delle brande di legno e
paglia nel giardino. Siamo gli unici
forestieri e nella notte buia ci sembra che ci siano tipi poco
rassicuranti avvolti in caffetani incappucciati. Non ho paura ma solo prudente
vigile attenzione, anche perché siamo in sei, il gruppo più numeroso. Ci
organizziamo in turni di guardia di due ore per coppia e tiriamo fino alle 8
del mattino per rimetterci in viaggio rapidamente. Da lì mezzi di fortuna,
camion stracarichi e arriviamo alla dogana persiana. Edificio moderno in
cemento armato e vetro, pieno di
poliziotti e dotato di vetrine che esibiscono tutti i mezzi usati da persone
provenienti dall’Afghanistan che cercavano di passare la frontiera con droghe e
beccati, con tanto di foto dello sfortunato insieme ai poliziotti. Tanto per
farti capire cosacosa non devi fare al ritorno. Passiamo
alla stazione afgana che è una baracchetta di legno da cui si affaccia un tipo
stralunato (fatto?) che ci dicesemplicemente “ Welcome in Afghanistan “.A
Herat cerchiamo una sistemazione congiunta, prima di andare l’indomani ognuno
per la sua strada. Francesco ha fretta di raggiungere l’India, gli altri non so e poco mi interessa. Con
Rudi concordiamo di viaggiare ancora insieme fino a Kabul e poi vedremo. Mentre
siamo nelle nostre due camere collegate a disfare bagagli e sistemarci entrano
due ragazzi italiani, di Brescia mi dicono, a chiedere informazioni di viaggio. Nella confusione del via vai rubano
tutti i soldi dal portafogli di Rudi, lasciando generosamente i documenti.
Quando ce ne accorgiamo sono spariti. L’unica soluzione possibile è che io gli
presti 50 dollari per permettergli di completare il suo viaggio. Ai costi di
allora e in quei luoghi le mie 300.000 lire erano più che sufficienti, anche
col prestito. Di italiani fetenti ne ho incontrati un bel po’ in giro per il
mondo. Non siamo per tradizione dei viaggiatori, come gli anglosassoni o gli
olandesi, che hanno commerciato e colonizzato gli angoli del mondo. Gli
italiani che viaggiano appartengono a due categorie: i crocieristi o
frequentatori massivi dei luoghi alla moda, perché conoscono solo quelli
essendo ignoranti in geografia, o gli avventurieri senza scrupoli pronti a
fregare il prossimo alla prima occasione. Dopo esserci imbattuti nel seconda
tipologia a Herat, a Kabul ci imbattiamo nella prima categoria sociologica,
ovviamente la versione hippy. Lungo capello, abiti orientali, piazzati tutto il
giorno a sentire musica rock, strafatti, senza curarsi di guardarsi attorno.
Decidiamo di fermarci qualche giorno per visitare Kabul, rifocillarci, fare il
bucato e camminare un po’ dopo giorni passati in gran parte col culo su un sedile
di autobus.
Kabul in
quegli anni era una città turistica crocevia di chi andava o tornava
dall’India, con una politica estremamente liberale rispetto al consumo di
hashish, uno dei capisaldi della politica economica di un paese sostanzialmente
molto povero. In contrasto col resto del paese è pulita, ordinata, esibisce un
certo benessere e uno spirito laico. Unica eccezione in un viaggio declinato al
maschile, vedi ragazze in jeans e t-shirt e il clima è pigramente rilassato.
Ristoranti vegetariani, ma anche pizzerie e fast food. In quegli anni
rappresentava il culmine di una politica di sviluppo civile e sociale unico in
quell’area: tolleranza religiosa, valorizzazione del ruolo delle donne nella
società compensavano la mancanza di risorse economiche di un paese
caratterizzato da un territorio montano e brullo e dalla mancanza di sbocchi al
mare e del petrolio, abbondante nella vicina Persia. Inoltre si trovava
sull’asse Herat – Kandahar – Kabul, la via di collegamento stradale principale
che collegava Oriente e Occidente. Questo ruolo di via di passaggio e i
contatti conseguenti con il mondo esterno rendevano Kabul una metropoli
cosmopolita. Ricordo che uno dei monumenti principali dell’Afghanistan era il
Buddha di Bamyan, grandiosa statua scavata nella roccia, testimonianza della
tolleranza religiosa in un Paese in gran parte islamico, fatto esplodere dai
Talebani pochi anni dopo. In sintesi un Paese con un bel mix di povertà e
modernità.
Conosciamo
in un bar un ragazzo inglese che a Londra lavora in un negozio di alimenti bio,
interessato come noi a continuare il viaggio, e partiamo con autobus di linea
per andare verso Nord. Prima tappa sarà Mazar-i-Sharif, capoluogo del Nord e
quarta città del paese. Il viaggio di circa 470 km dura circa 8 ore, partiamo
col caldo da Kabul e ci inerpichiamo lungo il passo che attraversa il massiccio
dell’Hindukush, con vette oltre i 6.000 metri. Facciamo una sosta in cima al
passo di Kotal- e- Salang
e
letteralmente congeliamo appena scesi dall’autobus: siamo a 3.878 metri di
altitudine. Arrivati a Mazar ritorna il piacevole clima caldo asciutto
dell’altopiano. Anche a Mazar-i-Sharif c’è una bellissima Moschea Azzurra,
centro della città. Colore costante: Moschea Blu a Istambul e il santuario di
Mashad turchese e oro. Quest’area, pur essendo geograficamente molto
periferica, ha dato i natali a Zoroastro, ma avuto anche una forte presenza
buddista e comunità ebraiche. Un raro caso di convivenza tra più religioni.
Da questo momento in poi non ci sono più
turisti oltre a noi, con qualche rara eccezione di piccole spedizioni
scientifiche o geografiche. Siamo lontani dai percorsi di collegamento
Oriente-Occidente e interessati all’impatto con un mondo a sé. Dopo un giorno a
Mazar, decidiamo di andare oltre per vedere un paio di villaggi. Ovviamente
nessun mezzo di trasporto ufficiale ma minibus o camioncini che caricano gente,
bagagli, animali fino all’inverosimile. Ci guardano curiosi ma discreti, sono
molto dignitosi. Il paesaggio è molto brullo, solo attorno ai corsi d’acqua che
scendono dalle montagne si formano piccole aree verdi che permettono la vita.
Il primo dei villaggi è Agcha, piccolissimo. In ognuno c’è una piccola casa ex
presidio militare che funge anche da albergo. Cammino lentamente nella strada
principale dove è in corso un mercato di tappeti. Sono bellissimi, tutti in
rosso e blu con diverse fantasie di disegno e di misura. Non si vede in giro
una donna, solo qualche vecchia. Le donne sono chiuse in casa a tessere
tappeti, prigioniere, fin da bambine. Seduto in un angolo un riparatore di
tazze di terracotta lavora creando graffette di alluminio (o peltro?) fuso che
sigillano i cocci. Si vede comunque che la plastica sta arrivando anche qui.
Tutto scorre con molta lentezza e il paesaggio ricorda l’iconografia classica
della Palestina nell’età di Cristo. Non c’è praticamente niente da mangiare se
non meloni d’acqua, qualche biscotto secco e, dentro una specie di baule con
acqua fresca, bottiglie di vetro di Coca Cola. Ne apprezziamo il contenuto
zuccherino e caffeinico quasi salvavita. Ci sarebbe, appesa in una specie di
macelleria, della carne, probabilmente ovina, molto apprezzata dalle mosche del
circondario, ma anche io e Rudi diventiamo per l’occasione vegetariani come il
nostro compagno di viaggio inglese. Cammino per il villaggio e vedo al lavoro
nel suo “negozio” un orafo che mi invita, a segni, a bere una tazza di the.
Inizia una conversazione priva del minimo di lingua comune. Mi chiede:
“Turkestan?“ facendo chiaramente capire che voleva sapere da dove provenissi, e
il Turkestan è uno dei territori di confine verso Ovest. Non potendo contare
sul fatto che la parola “Italia” potesse avere un significato per lui, gli ho
ripetuto sei volte “Turkestan” usando i gesti per indicare il senso di “oltre”
a più riprese. Forse l’ultimo italiano passato da queste parti potrebbe essere
stato Marco Polo. Non c’è la televisione, poca elettricità, e solo negli
edifici principali; la giornata è scandita naturalmente dall’alba e dal
tramonto. Ci troviamo a vivere l’esperienza dell’essenzialità e della lentezza
scoprendo di non annoiarci. Il tempo rallenta e si riempie di cose semplici.
Sarà uno dei patrimoni più importanti regalati da questo viaggio: saper
distinguere l’essenziale dal superfluo.
Oltre a
noi nella casetta che funge da albergo ci sono cinque o sei individui con
l’aspetto inequivocabile dei militari in borghese. Il mio compagno di viaggio
inglese, che è il più informato, ci parla di tensioni al confine con l’Unione
Sovietica e ci troviamo non lontano dai territori di Turkmenistan, Uzbekistan e
Tajikistan. In effetti sappiamo che la strada di collegamento con Herat non è
praticabile e dovremo fare il percorso a ritroso verso Kabul e Kandahar che è
molto più lungo. Nel 1979 ci sarebbe stata l’invasione.
Ci
spostiamo il giorno dopo a Balkh, villaggio un po’ più grande. C’è anche un
affollato mercato e cerchiamo qualcosa di commestibile, siamo piuttosto
affamati. Troviamo biscotti e delle uova, non aggredibili dalle mosche. La
gente è particolarmente colpita dalla lunga chioma bionda e dalla pelle lattea
di Rudi. Troviamo anche un paio di adolescenti curiosi di capire chi siamo e
cosa facciamo lì, ci dicono che un loro zio, che dovrebbe essere qualcosa tipo
il vigile o il poliziotto del villaggio, ci vorrebbe conoscere. Li seguiamo per
un breve tratto e entriamo in una casetta dove lo zio ci aspetta. Ci sediamo
sui tappeti e ci offrono l’immancabile the, frutta secca, biscotti; sono tutti
molto cordiali, ma sempre in modo composto e rilassato. Cerchiamo di farci
capire coi ragazzi che fanno da interpreti, scopriamo che i giovani studiano
l’Inglese e che il loro sogno è venire in Occidente. Prima di congedarci lo zio
ci offre un dolcetto a metà tra melassa
e una caramella Mou che immaginiamo possa contenere un po’ di
tetraidrocannabinolo. Usciamo lentamente dal villaggio verso la casa-albergo in
cui siamo ospitati e lentamente sale l’effetto del dolcetto all’hashish,
leggero e rilassante. Ci ritroviamo a rimirare le montagne circostanti con
un’attenzione e una concentrazione che ci fanno andare oltre la casa per
qualche decina di metri. Rientriamo, ciascuno nel suo letto senza il solito
confronto di esperienze serale. Mi ero portato da casa solo un libro,
“Psicologia di massa del fascismo” di Wilhelm Reich, che ritengo attuale anche
oggi per capire il perché dell’ampio consenso popolare a demagoghi e
sovranisti. Avendolo finito in pochi giorni ho trovato su una bancarella
“Papillon” in inglese, che è stata la mia lettura durante gran parte del
viaggio, pallosetto ma utile per perfezionare la conoscenza dell’Inglese. Le
serate le spendevamo leggendo e confrontando le esperienze; era interessante il
confronto con un comunista austriaco e un ecologista inglese.
La
mattina dopo inizia il viaggio di ritorno verso Mazar-i-Sharif e poi Kabul, con
l’unico bus in partenza dal villaggio. Mentre sta arrivando l’autobus mi sfrego
gli occhi e mi cade una lente a contatto sulla sabbia. Inizia una spasmodica
ricerca con un occhio miope e uno compensato mentre il bus si avvicina sempre
più. Si ferma e io sto ancora cercando, chiedo: “Un momento, un momento” e
finalmente trovo la lente e salgo al volo, con la lente in bocca!
Arrivato
a Kabul, dopo alcuni giorni di semidigiuno, vado a cercare un ristorante
vegetariano, sapendo di dover riabituarmi gradualmente al cibo. Mangio del riso
e un po’ di verdure ma il mio apparato digerente è talmente atrofizzato che mi
vengono alcune scariche di diarrea, non preoccupanti ma fiaccanti. Ero stato sempre
prudente rispetto al cibo e soprattutto all’acqua, facendo ampio utilizzo della
borraccia militare e delle pastiglie di cloro comprate a Firenze seguite dopo
un po’ dalle anticloro per tamponare l’acidità. Il ritorno è a passo più
spedito rispetto all’andata.
Nel frattempo ci siamo separati dai compagni di viaggio: l’inglese verso l’India e Rudi ancora più spedito di me per tornare a casa sfruttando al meglio i 50 dollari. Verrà a trovarmi ad Ameno un paio di anni dopo con la sua ragazza, ospiti per una settimana. Alla dogana persiana, come previsto, il mio zaino viene passato al setaccio alla ricerca di droghe; al posto del cane poliziotto c è un vecchietto sdentato e cencioso che ispeziona e annusa. Malgrado tutto non mi sento poi così tranquillo.
Nel frattempo ci siamo separati dai compagni di viaggio: l’inglese verso l’India e Rudi ancora più spedito di me per tornare a casa sfruttando al meglio i 50 dollari. Verrà a trovarmi ad Ameno un paio di anni dopo con la sua ragazza, ospiti per una settimana. Alla dogana persiana, come previsto, il mio zaino viene passato al setaccio alla ricerca di droghe; al posto del cane poliziotto c è un vecchietto sdentato e cencioso che ispeziona e annusa. Malgrado tutto non mi sento poi così tranquillo.
Il tempo
passa più lentamente nei trasferimenti di ritorno, hai meno curiosità rispetto
al contesto e ti senti proiettato verso casa. Unica conoscenza interessante,
sul tratto di autobus Mashad-Teheran, una tipica ragazza inglese, bionda,
magra, colorito pallido e vestito a fiorellini, che scopro essere anche lei
laureata in Medicina da poco. Ha fatto da sola via terra il viaggio dall’India,
dove ha dei conoscenti, e a Teheran ha il volo per Londra. Mi conferma che per
gli anglosassoni viaggiare in India, che è stata a lungo una colonia, è come
per noi andare in Sicilia o Sardegna: un concetto di periferia del territorio
decisamente diverso. Mi spiega che la loro bevanda nazionale, non potendo
produrre il vino, è il the, che proviene comunque da una colonia. E’ molto
coraggiosa, comunque, a viaggiare da sola, donna, in un territorio come questo.
In
Turchia a Erzurum, poiché il bus per Istanbul è previsto nel tardo pomeriggio,
decido di partire in autostop di mattina. Dopo un paio d’ore di attesa mi
caricano padre e figlio con un camion. Sono contadini, si vede dal carico e
dall’aspetto. Dopo un po’ il padre estrae un coltello e… prende una pagnotta e
me ne taglia una grossa fetta. Mi spella anche un paio di rape. Sì, rape, uno
dei cibi che ho più gustato nella mia vita. Ricordo ancora il piacere della
fame, soddisfatta peraltro con un pane fatto in casa e della verdura
freschissima.
Arrivato ad Ankara decido di riprendere i mezzi di linea.
A Istanbul ho la pessima idea di dormire all’Ostello della gioventù, dove mi becco le pulci. Trasferimento in hotel carino, doccia veloce e problema risolto senza code.
Arrivato ad Ankara decido di riprendere i mezzi di linea.
A Istanbul ho la pessima idea di dormire all’Ostello della gioventù, dove mi becco le pulci. Trasferimento in hotel carino, doccia veloce e problema risolto senza code.
Torno a
Sultanahmet per organizzare il ritorno in Italia, possibilmente non più via
Grecia ma via Iugoslavia, sia per motivi economici sia di velocità. Trovo una
coppia, un americano figlio di militari di stanza in Germania e la sua ragazza
tedesca, con un cane di grossa taglia. Hanno un bel furgone che ha avuto dei
problemi meccanici importanti a causa dei quali non hanno più soldi. Cercano
compagni di viaggio disposti a pagare una cifra ragionevole per viaggiare
insieme verso la Germania via, appunto, Iugoslavia. Aderisco subito al progetto
e mi do da fare per cercare gli altri tre membri dell’equipaggio. Le condizioni
sono 20 dollari a testa e di notte si dorme fuori dal furgone dove invece loro
due stanno col cane. Mi informano anche che, a causa dei malanni, il mezzo non
potrà andare oltre gli 80 km ora di velocità. In poche ore troviamo gli altri
tre membri dell’equipaggio: il primo è Francesco P, di ritorno dall’India,
felicissimo di rivedermi. Il suo intercalare tipico e frequente era “orca
madoska“ e me ne rifila una raffica mentre ci raccontiamo le nostre avventure.
Col
ragazzo americano condividiamo la passione per la musica Rock, lui suona la
chitarra e per fortuna ha una dotazione di cassette ricca e qualificata; io
sono incaricato di scegliere cosa suonare. Mi fa conoscere i Little Feat, per
me ignoti allora, che diventeranno uno dei miei gruppi preferiti dal 1978 con
l’uscita dello stupendo live “Waiting for Columbus“. Impieghiamo qualche giorno
a fare il nostro viaggio. Io scendo a Novi Sad, attuale Slovenia, dove cerco un
passaggio verso l’Italia. Ci salutiamo con Francesco e andiamo ciascuno per la
propria strada. L’avrei incontrato di nuovo a San Benedetto del Tronto nel 1999
quando sono andato a lavorare come direttore sanitario dell’ASL di Fermo. Lui
lavorava come fisioterapista in quella di San Benedetto e ci siamo ritrovati,
con tanto di invito a cena.
Mi dà un
passaggio fino alla frontiera un signore anziano ma in ottima forma. Mi chiede
ovviamente notizie su di me e poi mi confessa che vive in Iugoslavia dalla fine
della guerra e che non può rientrare in Italia poiché è stato tra i partigiani
comunisti che non hanno accettato l’invito di Togliatti a deporre le armi e ha
continuato a giustiziare i fascisti più compromessi del Friuli. Non avevo mai
approfondito prima di allora la storia delle prime settimane successive al 25
Aprile ’45. L’incontro col mio autista mi ha ovviamente incuriosito e spinto a
informarmi su un periodo di Storia
recente che interessa a tutti dimenticare.
Nel
frattempo ho deciso di iscrivermi alla Scuola di Specializzazione di Igiene e
Medicina Preventiva sciogliendo i dubbi residui rispetto all’ipotesi di fare
Psichiatria. Ero andato a fare l’esame dopo aver fatto uno spinello col mio
amico Fred e il professor De Marchi, forse ispirato dai miei occhi lucidi, mi
aveva chiesto la differenza fra Illusioni e Allucinazioni. Ammirato per la
brillante trattazione dell’argomento, oltre ad avermi proposto il 30 mi aveva
chiesto se ero eventualmente interessato a specializzarmi in Psichiatria; gli
ho risposto che la condizione di frequentare cinque anni a tempo pieno senza
poter lavorare non era nei miei piani. E il viaggio mi aveva sciolto le ultime
riserve.
Via
treno sono arrivato a Desio, dove viveva la mia famiglia. E’ almeno un mese che
non tocco alcol, massa grassa ridotta al minimo, muovermi molto con uno zaino
di dieci chili mi ha rafforzato. Mi sento proprio bene, sono in perfetta forma
fisica come non sono mai stato, soddisfatto per l’esperienza, carico per
affrontare il futuro.
Ho
preferito farmi i due chilometri dalla stazione a casa per il piacere di
arrivare, suonare il campanello e dire: “Ciao mamma, sono arrivato”.
colonna sonora: Jan Garbarek & Ustad Fateh Ali
Khan Ragas
and Sagas
colonna
sonora: Nusrat Fateh Ali Khan Nusrat
Fateh Ali Khan
ROBERTO NERI MAGGIO 2020
3 commenti:
Che storia! Io faccio parte di una generazione successiva, ma ho conosciuto alcune persone che hanno vissuto in pieno quella temperie storica e culturale, per certi versi a metà fra personaggi alla Berlin di Lou Reed e sognatori come in certe canzoni di Jackson Browne.
Rimane sempre in me la curiosità di sapere come avrei vissuto i miei vent'anni negli anni Settanta, invece che negli anni Ottanta, certamente molto diversi per le esperienze che si potevano fare.
Grazie per aver condiviso questa pagina di vita
Mi riconosco nelle parole di Corrado...nei '70 ero un ragazzino ma gli '80 che hanno segnato la mia maturita' mi sono andati un po' stretti.Musicalmente sempre piu' attaccato alla precedente decade di cui sopra ma il mio " on the road" di formazione l'ho fatto tra Tunisia e l'Atlas Marocchino nella seconda meta' degli ottanta pur avendo nel cuore e nella mente altri deserti e altri southwest ma spesso i sogni sono nemici della realta' !!
Armando
Bello e avvincente il
diario di viaggio di
Roberto Neri.
A Sultanahmet una citazione l'avrebbe meritata il
Pudding Shop e il suo
famoso tabellone, dove
venivano affissi una
moltitudine di bigliettini
sui passaggi richiesti e/o
offerti da chi passava di
li' o per andare piu' in la' in Oriente o per le
mete di rientro in diversi
Paesi europei e non.
Nel 1974,con il mio amico
Edoardo,ci limitammo a scoprire la Turchia e il
Pudding Shop lo ricordo bene,come i trasfermenti in
autostop con i camionisti,
di cui parla anche Roberto
Grazie per l'immersione che ci hai regalato nel tuo
viaggio in Afghanistan e
in quell'epoca irripetibile
Marco
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