sabato 14 marzo 2015

WILLY DEVILLE AGAIN

 
Si sono finalmente aperti i rubinetti e dopo un periodo in cui  Willy DeVille era stato seppellito anche discograficamente, cominciano a circolare documenti sulla sua purtroppo prematuramente interrotta avventura musicale. Chi si muove meglio sono i tedeschi, che non sono tutti come la Merkel, e nutrono ancora oggi grande stima per il gitano, tant'è che animano da anni un Willy DeVille International Fan Club. Fin dagli anni settanta il nostro si è esibito centinaia di volte in Germania, questo spiega il ricco archivio che esiste da quelle parti, in primis  la serie Rockpalast che ha già visto pubblicato due CD e un DVD (assemblati insieme), recensiti su questo blog,  su concerti di Mink DeVille nel 1978 e nel 1981. Adesso ritornano sul luogo del delitto dando alle stampe altri due concerti di Willy DeVille, a Bonn il 25 marzo del 1995 e nella stessa città il 19 luglio del 2008, solo un anno prima della sua scomparsa.  Entrambe le performance sono di eccelsa qualità, uno di taglio più rock, l'altro con una maggiore venatura blues. Il DeVille del 1995 è in forma smagliante, all'apice della carriera e mai così rock, pur non privandosi dello charme chicano e delle malizie New Orleans, un artista nel pieno della sua creatività con un carisma pauroso, nell'anno di pubblicazione di Loup Garou. Sul palco sembra Capitan Uncino,  vestito di nero, sicuro di sé, con orecchini, l'imponente ciuffo e fluenti capelli lunghi sulle spalle, un magnetismo incredibile. Arriva dopo che la band lo ha introdotto con un numero da orchestra di James Brown, uno strumentale col sassofono (Mario Cruz) in gran spolvero, è regale e si capisce immediatamente  la caratura del concerto. La melliflua Slow Drain gli serve per prendere le misure, poi è rock n'roll da tagliagole e rhythm and blues dinamitardo.  Steady Drivin' Man è John Lee Hooker e Highway 61 mischiati assieme, Cadillac Walk privata di ogni orpello e del tradizionale passo d'anatra con la Gibson è un boogie sporco e bastardo. In cattedra c'è Fred Koella un chitarrista che in quel periodo non aveva nulla da invidiare a Steve Cropper, la band, contrariamente a quanto c'è scritto nel booklet, vede Cruz e Koella affiancati al tastierista e fisarmonicista Seth Farber , al percussionista Boris Kinberg, al batterista Shwan Murray  e al bassista David Keys. Dopo l'inizio al fulmicotone, Willy allenta la presa e partono le ballate del border del calibro di Heart and Soul, quelle melodrammatiche come Heaven Stood Still ed una Mixed Up,Shook Up Girl che porta a passeggiare il Dylan di Pat Garrett and Billy The Kid  sulle strade di Spanish Harlem. Poi è festa  New Orleans con Key To My Heart  e Every Dog Got His Day  mentre Angel Eyes tira verso il Messico così come Demasiado Corazon dove magistrale è l'arpeggio di chitarra di Koella. Dopo l' ammiccante Hey Joe, Even While I Sleep ribolle di sapori cajun  mentre Willy ormai mattatore, passa dal parlare spagnolo, francese, inglese come un attore provetto. Quando imbraccia la slide il Mississippi inonda la Germania, Spanish Stroll è meticcia e fradicia di vizio,  il cameo di Amazing Grace per sola chitarra acustica il prologo al riff al vetriolo di una devastante Dust My Broom. Grande concerto, grande band, immenso Willy, un artista che non ha diviso arte e vita fino alle estreme conseguenze, per cui Dylan, solitamente restio ad apprezzamenti, in una recente intervista a Bill Flanagan ha proferito "inammissibile che un artista del suo livello non sia nella Rock and Roll Hall of Fame mentre lo sono gli Steely Dan e i Mamas and Papas".

               Willy DeVille nell'estate 2008 a Bonn appare nell'ultima delle sue apparizioni al Rockpalast , è un personaggio che ha dovuto lottare con le  traversie della vita, contro l'ignoranza dei discografici e del pubblico americano che non l'ha mai amato. In Germania invece è venerato e lo si vede dal pubblico numeroso, lo show è  riportato sia in DVD che in CD e mostra diversità col precedente, in primis perché  si svolge open air, secondo perché Willy ha ripristinato la sigla Mink DeVille Band col  ritorno di vecchie conoscenze quali il bravo tastierista/fisarmonicista Kenny Margolis,  il batterista Shawn Murray e il percussionista Boris Kinberg, assenti durante il periodo del trio acustico, la vocalist Yadonna Wise e il bassista Robert Curiano presente nell'Italian tour del 1984. Nuovo è il muscoloso chitarrista Mark Newman che con la slide imprime allo show un deciso approccio bluesy.  Dal Capitan Uncino di tredici anni prima, Willy si è trasformato in un incrocio tra Dracula e un nativo americano,  pallido,  emaciato, capelli lunghi dritti nerissimi, baffetti spioventi laterali, pendenti turchesi, collana e occhiali con lenti rossastre. L'aspetto non è rassicurante,  Willy, a causa dell'incidente automobilistico di qualche anno prima, si sorregge su uno sgabello e solo a tratti si mette in piedi con la chitarra.  Non mancano le sigarette, una dopo l'altra e la voce è ormai un profondo latrato blues da far impallidire perfino Howlin ' Wolf. Dà il via allo show con la litania oscura e mannara di Loup Garou raccontando di neri serpenti, paludi infestate da spiriti e lune gialle. Un inizio  magnetico che porta l'artista in quell'universo notturno e oscuro che gli anni in Louisiana gli hanno appiccicato addosso e grazie al lavoro di Mark Newman intinge in un blues viscerale. Certo non mancano gli altri ingredienti del suo pachuco come l'uptempo r&b di So So Real estratto dall'appena pubblicato Pistola,  la cajun music di Even While I Sleep e le dolcezze romantiche di Heart and Soul oltre ai lasciti del suo periodo newyorchese, Spanish Stroll e Mixed Up Shhok Up Girl. Non mancano nemmeno i suoi hits (Hey Joe e Demasiado Corazon)  e il tributo a Chuck Berry con un una torrida Savoir Faire in medley con Cadillac Walk ma sono altri i titoli a rendere questa esibizione diversa, immagine dell'ultimo corso dell'artista.  Sono due vecchi brani come Steady Drivin' Man e Just Your Friends rimessi a nuovo accentuando il drive rollingstoniano  nel primo e con una forte dose di blues alla John Lee Hooker il secondo, con l'aggiunta della fisarmonica di Margolis in una versione crepuscolare  da ultima notte di Billy The Kid. E poi c'è il lurido rockabilly di White Trash Girl, storia di degrado in un microcosmo di sottoproletariato bianco del sud, il bluesaccio Delta di Muddy Waters Rose Out Of The Mississippi Mud e lo swampin' di You Got The World In Your Hands, la prima tratta da Crow Jane Alley, la seconda da Pistola. Se a queste aggiungete poi Bacon Fat  avrete uno show mai così blues e un artista con  una ispirazione ed un savoir faire ancora lontane dal tramonto. Se ne andrà esattamente un anno dopo.

 

   Ai due irrinunciabili  Rockpalast  segue la pubblicazione di questo triplo CD antologico, Collected,  che grazie al lavoro dei  fans olandesi, aiutati   dalla locale Universal, ripercorre l'intera carriera di William Borsey Jr., dalle origini quando il suo set si chiamava Mink DeVille fino al momento della sua morte, nell'agosto del 2009, quando tutti lo conoscevano come Willy DeVille. Un' importante antologia che racchiude brani registrati con le diverse etichette più un terzo bonus CD contenente alcune rarità, qualcuna  interessante, altre di valore solo collezionistico. All'opera hanno collaborato parecchi musicisti, produttori, fotografi (Patricia Steur, Rocky Schenk) che nel corso degli anni hanno lavorato con Willy, scrivendo le note del curatissimo booklet interno e lasciando il loro appassionato ricordo su un uomo tanto eccentrico quanto generoso.

 Due CD  e 40 canzoni ricompongono la sua carriera "ufficiale" privilegiando i brani più noti e rappresentativi  in una sorta di allargato greatest hits. Il primo CD analizza i Mink DeVille Years  partendo dal 1977 ( appare quindi errato quel 1976 strillato in copertina ) perché la prima traccia è quella Spanish Stroll che uscì nel disco debutto del 77. Da quel disco, in Europa intitolato Cabretta, sono estratte anche  Mixed Up,  Shook Up Girl, Cadillac Walk, Little Girl mentre dal seguente Magenta arrivano Just Your Friends, Guardian Angel, Soul Twist. Un reato aver  tralasciato Steady Drivin'Man e Desperate Days  ma sono talmente tante le perle regalate dal gitano nel corso della sua carriera che 40 titoli sembrano davvero insufficienti a raccontare la sua arte..  Chiude il periodo Capitol Le Chat Bleu con Mazurka, Savoir Faire, This Must Be The Night, JustTo Walk That Little Girl Home , Heaven Stood Still.  Ben cinque brani dal disco "parigino" a dimostrazione dell'apprezzamento sempre riservatogli dai fans della vecchia Europa. Coup De Grace  è presente con Maybe Tomorrow, la cover You Better Move On  e Love and Emotion mentre Angels espone  Demasiado Corazon e Each Word's A Beat of My Heart . Due brani contro i tre di Sportin' Life (Italian Shoes, I Must Be Dreaming, In The Heart of The City), scelta del tutto discutibile visto la scarsa popolarità di quel disco per quel suono synth-80.  Il sipario sugli anni di Mink DeVille cala  con la superba resa di Stand By Me. Un primo CD magnifico anche se i brani sono tutti ampiamente editi, così come il materiale del secondo CD imperniato sui Willy DeVille Years. Qui prevale la parte melodica e romantica dell'artista pur  non mancando dei suoi affondi taglienti e del suo pachuco mexican- New Orleans. Dal controverso album con Mark Knopfler sono pescate Miracle,  Storybook of Love, Assassin of Love (personalmente avrei aggiunto anche Nightfalls ). Il periodo New Orleans viene affrontato con due titoli di Victory Mixture, Hello My Lover e Beating Like A Tom-Tom,  tre di Desire, Hey Joe,  Even While I Sleep e la stupenda I Call Your Name mentre un titolo dello stesso album, Voodoo Charm  è preso dal disco francese della Fnac, Big Easy Fantasy,  e solo uno di Loup Garou, Still ( I Love You Still) quando avrebbero potuto starci anche Loup Garou Bal Goulà per le sue malsane suggestioni da bayou des mysteres  e lo sporco rockabilly sudista White Trash Gir.  Copiosa la selezione dell'album memphisiano e Delta blues di Willy ovvero Horse of Different Color, ben cinque tracce (Gypsy Deck Of Hearts, Across The Borderline, Lay Me Down Easy, The Downing Of The Flamingo, Hangin  Round My Door), due ripescaggi da Crow Jane Alley (Come A Little Bit Closer e Right There, Right Then) ma qui la title track e la cover di Slave To Love avrebbero meritato  la convocazione, e due dal crepuscolare Pistola, I Remember The First Time e When I Get Home. Ci poteva stare anche la cover di Louise  di Paul Siebel perché riesumare una canzone così bella di un artista tanto sconosciuto , è mossa che poteva fare Willy DeVille, Bob Dylan e pochi altri. Eccellente anche questo secondo CD  a conferma di un songbook sontuoso  zeppo di canzoni superlative e melodie indimenticabili. Ma è il terzo CD a solleticare i fan visto le curiosità presenti, non tutte all''altezza della situazione. Occasione questa del bonus disc che era da sfruttare meglio riportando out-takes  e brani live inediti di ben altra caratura. In questo CD  ritornano in circolo le tracce che componevano la ormai introvabile soundtrack del tostissimo film di William Friedkin Cruising  ovvero  le nervose Pullin' My String,  It's So Easy  e Heat Of The Moment prodotte da Jack Nitzsche, ci sono due testimonianze della parentesi acustica e in trio di Live In Berlin, la toccante Carmelita di Warren Zevon  e Let It Be Me , il duetto con Brenda Lee in You'll Never Know   e quella Dust My Broom alla Elmore  James con cui Willy chiudeva i suoi memorabili  show degli anni novanta. Del tutto discutibile è l'inclusione delle versioni remix di Assasin Of Love, Italian Shoes, I Must Be Dreaming, tre titoli già inclusi nel secondo CD, all'insegna di quel syntho-pop  e drumming elettronico anni '80.  Non sono l' immagine corrispondente alla musica  di Willy, furono  un tentativo da parte della casa discografica di far girare il suo nome in Mtv per farlo conoscere al refrattario pubblico americano.  Dagli archivi poteva uscire materiale molto più interessante, ad esempio la versione bluesata  di Motorhead Baby di Johnny Guitar Watson,  una delle out-take di Le Chat Bleu oppure  le tante tracce live che ogni sabato mattina dalla community web radio australiana 89.7fm la trasmissione DeVille Hour mette in rete.  Azzeccata invece  la messa in campo di Who's Gonna Shoe Your Pretty Little Foot uno standard  interpretato molte volte da Willy in concerto qui in duetto "bilingue" col cantante svizzero Polo Hofer, e la versione spanglish  Cuemtame Un Cuento col gruppo spagnolo Celtas Cortos.  Quasi inedita è  Pride and Joy (niente a che vedere con lo stesso titolo di Steve Ray Vughan), B-side del singolo Italian Shoes , anche questa vestita con le sonorità sincopate  degli anni ottanta.

Succulenta la parte provenienti dalle incisioni delle 2 Meter Sessions, una stazione radio  e TV olandese divenuta nel tempo un eccezionale archivio di registrazioni in acustico per tanti artisti. Lì Willy DeVille ci è passato tre volte, nel 1987, nel 1992 e nel 1999. Le prime due sono  qui documentate: del 1987 sono Hard Time,  scheletrico blues per chitarra acustica solo sussurrato ed una affranta versione di Well It's True So True di Sheldon Ganz, registrate da Willy pochi giorni dopo la morte del fratello,  mentre non sono inedite le registrazione del 1992 (erano su un mini CD del 1993 intitolato I Call Your Name)  dove Willy faceva da ponte tra Robert Johnson e John Lee Hooker con dei blues scarni e profondi, magri accordi di chitarra ed una voce che affiorava dal fango del Mississippi. Per chi non le avesse già, I'm In The Mood,  Early Morning Blues  e Who's Gonna Shoot Your Pretty Little Foot sono la deliziosa conclusione della più completa antologia (ma il terzo CD necessitava di scelte più accattivanti) oggi in circolazione  su uno dei più grandi e sottovalutati  artisti della storia del rock.

 

MAURO   ZAMBELLINI     MARZO 2015

 


 




sabato 21 febbraio 2015

L' INVASIONE SVEDESE

 
La storia è presto detta, in Svezia si è venuta a creare una scena musicale rock che recentemente ha portato alla ribalta dischi e autori decisamente interessanti, paragonabili a quelli che offre il mercato americano. La Svezia è un paese molto avanzato in termini di sostentamento alla cultura, le difficoltà che incontrano i nostri musicisti e i gestori dei locali  là non esistono, ci sono finanziamenti e aiuti ed è naturale che fare il musicista da quelle parti non sia roba da carbonari come da noi. In più si è messa una etichetta, la Rootsy Nu., a lavorare alacremente nel settore, producendo sia artisti americani in esilio come Bob Woodruff (in questo blog a suo tempo venne segnalato l'ottimoThe Year We Tried To Kill The Pain), sia importando dischi dagli Stati Uniti come l'ultimo di Mary Gauthier, Willie Nile, Steve Earle, Drew Holcombe, sia dando fiato alla ricca scena locale diffusa su tutto il territorio nazionale, da Stoccolma a Malmoe e Goteborg. In particolare sono i songwriters a fare la parte del leone, e l'ottima padronanza dell'inglese, a tutti gli effetti seconda lingua in Svezia, è un notevole aiuto per chi voglia addentrarsi in un rock d'autore di derivazione americana, sebbene non manchi una florida tradizione di band vere e proprie, spesso sconfinanti nell'heavy metal. L'idea di una etichetta indipendente come la Rootsy Nu. è venuta  ad Akhan Olsson, ex manager di una major, che ha deciso di lavorare in un'area più di nicchia ma qualitativamente più oculata. I risultati gli hanno dato ragione, oggi la Rootsy Nu. è una delle etichette indipendenti più intraprendenti d'Europa. Il caso di Richard Lindgren è noto agli appassionati del settore, visto che è ormai di casa in Italia, ma i nomi che segnalo qui sono quelli di Doug Seegers, Basko Believes e Seasick Steve, quest'ultimo aggiunto perché residente in Scandinavia, non in Svezia ma in Norvegia e avente diverse analogia con gli altri due.

 
Il caso di Doug Seegers è la dimostrazione che nella musica i miracoli esistono ancora. Nato a New York nel 1952 e padre di due figli, ad un certo punto emigra a Nashville dove diventa un musicista di strada, regolare presenza al That Little Pantry That Could, un centro assistenziale che si occupa di sfamare e dare aiuto ai poveri di West Nashville. Doug Seegers è un homeless che racimola i pochi dollari della propria esistenza nelle strade della città. Capita che Jill Johnson presentatrice dello show televisivo svedese Jills Veranda con un team di artisti ed operatori incontrino in un parco di Nashville proprio Doug Seegers durante la realizzazione di un documentario sulla musica della città.  Johnson e Carlson lo sentono cantare Going Down The River e ne rimangono fulminati, ritornano  qualche tempo poco e con l'interessamento di Akhan Olsson gli propongono di registrare la canzone nel vecchio studio di Johnny Cash a Nashville. L'episodio passa nello show TV di Jill Johnson, il facebook di Doug Seegers viene preso d'assalto e Going Down The River diventa numero uno nelle classifiche svedesi di iTunes per dodici giorni consecutivi. Come conseguenza l'americana Lionheart Records offre un contratto discografico al musicista e gli pubblica l'album Going Down The River  prodotto da Will Kimbrough con la presenza in un brano di Emmylou Harris e in un altro, di un vecchio amico di Seegers nei giorni di Austin, Buddy Miller. L'album pubblicato la fine di maggio del 2014 sale le classifiche di vendita svedesi e l'autore viene ingaggiato per un tour estivo di 70 date. Se il miracolo c'è stato e la fortuna ci ha messo lo zampino, bisogna però dare atto a Doug Seegers di avere un talento innato, come cantante, chitarrista e songwriter, qualcosa che è parte Hank Williams, parte Hank Snow e parte Gram Parsons ma con una voce ammaliante e soul che proprio nei brani più bluastri e swing emana un sentimento ed un calore incredibile. Già se ne era accorto Buddy Miller negli anni settanta ad Austin quando la sua band incrociò questo homeless uscito da uno scuro rifugio di ubriaconi, che raccattava soldi per la bottiglia in cambio di canzoni country cantati con una voce che era un riflesso dell'anima, facendosi chiamare Duke the Drifter. Adesso Miller canta con Seegers in There'll Be No Teardrops Tonight una composizione di Hank Williams che Duke the Drifter rende molto fedele all'originale ovvero umori da Grand Ole Opry, violini e una massiccia dose di lap e pedal steel. E' una delle canzoni più orientate verso il country che compongono Going Down The River, assieme a Pour Me,  un po' di Johnny Cash ma col naso al posto dell'ugola, alla malinconica e semi autobiografica Lonely Drifter's Cry, al country-rock scavezzacollo di Hard Working Man sintonizzato sullo stile del primo brillante Todd Snider e al brioso western swing di Gotta Catch That Train. Doug Seegers canta con la facilità del veterano country singer, le sue canzoni sono frutto di una penna intinta nelle miserie e nelle illusioni della vita di strada, uniche cover sono il brano di Hank Williams e She di Gram Parsons dove il nostro, con la collaborazione di Emmylou Harris, ne dà una interpretazione da brivido, intensa e romantica. Ma dove Doug Seegers mostra classe innata, e se tutto l'album fosse stato così sarebbe stato un capolavoro, è nei pezzi più bluastri, notturni e soul. Qui si erge un cantante che muove le corde dell'emozione con una scioltezza ed uno swing davvero incredibili, in Burning A Hole In My Pocket  veste i panni di un crooner che shakera jazz, country e blues con l'abilità di un barman professionista, in Baby Lost Her Way Home Again complice il sax, il pianoforte ed un backing vocale al femminile, si cala nei club dell'ora tardi regalando malizia e savoir faire, e nelle due tracce con cui si apre il disco ovvero Angie's Song  e Going Down The River  sfoggia un country-soul magistrale con venature gospel ed una chitarra alla Ry Cooder  che potrebbe essere uscito dalle migliori incisioni della Fame e della Kent. Un homeless strappato alla strada ed un artista ritrovato, grazie agli svedesi.
 

Diverso il caso di Johan Orjansson  cantautore che ha debuttato nel 2012 con l'interessantissimo Melancholic Melodies for Broken Times  un titolo che suggerisce delle rarefazioni che attraversano un cantato malinconico e nordico, espressivo e visionario. Ora Orjansson ha cambiato nome, ha scelto di chiamarsi Basko Believes e se ne è andato in Texas a registrare il nuovo disco, precisamente a Denton dove con l'aiuto dei Midlake e in minor misura di Israel Nash Gripka ha realizzato l'ottimo Idiot's Hill  uno dei migliori dischi in ambito singer/songwriters che mi sia capitato di ascoltare recentemente. Aperto da un tintinnio strumentale e dei vocalizzi che paiono giungere dalle sconfinate foreste scandinave, In A Glade, il disco si sviluppa attraverso dieci tracce che svelano di un mondo poetico dove la potente e vibrante voce di Basko si fa carico di emozioni e visioni che sfuggono alle ovvietà del genere e trasportano in un mondo incantato dove i dettagli sonori sono importanti quanto l'espressività con cui l'autore racconta le sue storie. Personalità da vendere, splendida voce che in più di un episodio fa venire in mente il Ryan Adams più melodico, Basko Believes lambisce i territori esplorati da Damien Rice ma è meno triste e cerebrale e grazie ad un pugno di musicisti che sanno il fatto loro, costruisce una canzone d'autore dove l'eco del grande Nord si mischia a graffi elettrici, orchestrazioni, archi, chitarre acustiche e quel paesaggio melodrammatico tra folk e prog di cui sono capaci i Midlake. Crescendo di grande bellezza come Wolves si alternano a momenti solenni come Lift Me Up, calde canzoni sottolineate dal violino e da un tenue controcanto femminile come in Going Home  si accompagnano a  tracce come Entertainers dove veramente sembra di essere davanti al Ryan Adams più ispirato con una corale finale di spettrale bellezza. E poi il cantato lamentoso di The Waiting che si intreccia col soul di Rain Song, nella quale la voce chiaroscura di Basko metterebbe ko anche i cuori più gelidi, e quell'ardito attorcigliarsi in un folk da camera di Archipelago Winds trovare risposta nella magnifica Leap of Faith dove Joe McClellan fa capire quanta misura e luminosità c'è nella sua chitarra, chiusura o quasi (c'è posto per la strumentale Out Of A Glade) di un disco  che consegna uno degli autori e cantanti più promettenti nel campo di un folk/rock che ormai non ha confini. 
 

Seasick Steve, all'anagrafe Steven Gene Wold, vanta anche lui come Doug Seegers una vita burrascosa ora incanalata in un'esistenza tranquilla grazie ad un dolce esilio scandinavo. E' nato a Oakland nel 1941 e ha trascorso una infanzia segnata dagli abbandoni. I genitori si separarono quando Steve aveva quattro anni ma il bambino già a otto aveva in mano la chitarra grazie agli insegnamenti di K.C Douglas, l'autore di Mercury Blues che lavorava nel garage di suo nonno. A tredici anni Steven se ne va di casa, stanco dei maltrattamenti del patrigno, e bighellona  tra Tennessee e Mississippi fino al 1973, saltando sui treni e lavorando come contadino stagionale e cowboy. Così descrive quel periodo della sua vita: "gli hobo sono persone che viaggiano per cercare lavoro, i vagabondi sono persone che viaggiano ma non cercano lavoro, i perditempo sono persone che non viaggiano e non lavorano. Io sono tutte e tre insieme".  A Como, in Mississippi compra in un Goodwill store per 75 dollari una scalcagnata chitarra giapponese con tre corde che sarà la fortuna della sua vita. Durante gli anni sessanta comincia a esibirsi con musicisti di blues suoi amici e diventa sessionman, si impratichisce inoltre nelle tecniche di registrazione. Quando si sposta a vivere a Olympia, vicino Seattle, lavora con diversi musicisti di area indie e finalmente nel 1996 incide il suo primo album, ironicamente intitolato, This Is A Long Drive for Someone with Nothing To Think About. Emigra a Parigi dove fa il busker nel metrò, poi passa in Norvegia (ha cambiato 59 volte il posto dove vivere) e nel 2004 pubblica Cheap, il titolo fa  riferimento alle sue chitarre.  Due anni dopo la Bronzerat Records gli pubblica  Dog House Music, che gli permette di accedere allo show della BBC Hootenanny condotto da Jools Holland. Nel 2007 vince il Mojo Award per il Best Breakthrough Act e partecipa a festival importanti quali Reading, Leeds e Glastonbury. Gira il mondo, compare in Giappone, Danimarca, Australia, firma con la Warner, riempie la Royal Albert Hall, l'Hammesmith e la Grand Opera House di Belfast e viene invitato al David Letterman Show. Quello che era un hobo prima e un busker dopo è diventato una specie di star, tanto che la BBC realizza un video su di lui, Seasick Steve Bringing It All Back Home ambientato nel sud degli Stati Uniti. Wold a questo punto ammette di avere abbastanza soldi per comprarsi un trattore John Deere modello anni 60, coronamento di un sogno. Oggi Seasick Steve vive tra la Norvegia e l'Inghilterra con la sua seconda moglie, il suo nuovo disco Sonic  Soul  Surfer segue di due anni Hubcap Music  frutto della collaborazione con Luther Dickinson, John Paul Jones e Jack White. Il leader dei North Mississippi Allstars è ancora presente con la slide in due brani di Sonic Soul Surfer mentre Ben Miller aggiunge l'armonica in Summertime Boy, brano che celebra le delizie del vivere al sole della California. Il fedele Dan Magnusson si occupa di batteria e percussioni e Georgina Leach del violino. Dodici brani nella versione in CD e sedici nel LP, Sonic Soul Surfer è un disco dal suono scarno e minimale che sintetizza l'avventura musicale (ed esistenziale) di Seasick Steve, un settantenne che suona il blues con l'energia e la spregiudicatezza di un venticinquenne. Costruisce un suono basato sullo "stridio" delle sue chitarre da supermercato, tre o quattro corde pizzicate con vibrante veemenza in modo da ottenere un sound asciutto e ritmico, che ha maestri nel gesto di Mississippi Fred Mc Dowell e  R.L Burnside, passa con indifferenza da una tre corde alla Danelectro, ad un metallico cigar box a 4 corde costruito appositamente per lui da Super Chickan Johnson, usa una primitiva drum machine per creare il ritmo ed un vecchio basso Fender. E' un one man band che trae dalla musica il suo sentimento più puro, primitivo ed incontaminato, dispiega un southern sound che la modernità non ha scalfito, anzi, il suo gesto e il suo sound sono tremendamente moderni perché c'è un attitudine da band garagista di oggi, nonché il feeeling dei sopravvissuti del down-home blues come è Seasick Steve. Un blues tagliato nei boschi, un misto di suoni elettrici e acustici con una economia strumentale  da dosaggio farmaceutico,  dove è possibile riconoscere l'eco dei North Mississippi Allstars, dei 16 Horsepower, dell' hillbilly stomp della Ben Miller Band e dei primi vagiti degli ZZ Top in versione rurale.  Un disco di un surfista dell'anima che a più di settanta anni riesce ancora a sorprendere.

 

MAURO  ZAMBELLINI     FEBBRAIO 2015

 

 

martedì 27 gennaio 2015

ALMOST BROTHERS A BAND OF ROADIES

  
Il nome già di per sé induce alla simpatia e rimanda alla ben più famosa band dei fratelli Allman. Gli Almost Brothers non sono una cover band della celebre band ma l'insieme dei loro roadies, quelli immortalati in più di una celebre copertina e saliti alle cronache come the best road crew in the world. La storia è questa : ai tempi delle registrazioni di Brothers and Sisters  attorno agli Allman si era consolidata una vera e propria "famiglia" di roadies che tutti invidiavano per la loro efficienza sul campo e la totale sinergia coi musicisti della band e coi fans,  tanto da essere considerati parte integrante ed indivisibile di questa. Li si può vedere nella copertina interna di Brothers and Sisters assieme agli stessi Allman, alle fidanzate,alle mogli, ai bambini, agli amici e ai cani. Il primo road manager fu Twiggs Lyndon, un chitarrista che aveva lavorato con Little Richard e preso i primi rudimenti con la chitarra da Jimi Hendrix. Fu road manager di Percy Sledge, visionò per conto di Phil Walden un chitarrista dei Muscle Shoals allora pressochè sconosciuto, che di nome faceva Duane Allman e divenne poi egli stesso stage manager della Allman Bros.Band e tecnico dei testieristi. Avendo poi un particolare intuito per i chitarristi reclutò  Dave "Trash" Cole nelle ciurma e in seguito convinse Virginia Speed, pianista con studi classici a Dallas, ad entrare nel giro   durante il tour di Laid Back di Gregg Allman. I primi roadies in ordine di tempo furono però Mike Artz,batterista, parente di Butch Trucks e Red Dog Campbell, batterista pure lui,marine in Vietnam e capo dei tecnici dei batteristi. Personalità di rilievo della road crew fu Buddy Thornton,ingegnere che aveva lavorato al Marshall Space Flight Center e disegnato i progetti per il programma Saturno e per lo Skylab. Durante gli anni della high-school aveva suonato il basso in una band con Johnny Sandlin, diventò l'ingegnere di registrazione dei Capricorn Studios. Tutti questi tipi, oltre a costituire la ciurma da strada degli Allman, spesso si sostituivano agli stessi nel sound check, mettendo a punto suoni e strumenti e fornendo  grande aiuto e supporto alla band. Una sorta di band-ombra nel pre-show e nei momenti critici. Così facendo si impratichirono sugli strumenti ed iniziarono quasi per gioco a suonare come band vera e propria nelle feste e nei pic-nic di Macon e dintorni. Suonavano classici del blues e roba loro, spesso imitando la più famosa band a cui erano legati da amicizia e professionalmente, anni prima che un addetto alla security della band, Scooter Herring confidasse alla polizia sui numerosi approvvigionamenti di droga da parte di Gregg.

La band dei roadies si fece un nome come Almost Brothers nei club della Georgia, e arrivarono perfino a registrare del materiale, per tanti anni rimasto nel cassetto e oggi riscoperto e ripulito dall'ingegnere Buddy Thornton, il quale grazie all'aiuto di Chuck Leavell lo ha pubblicato in CD. A Band of Roadies  documenta quella piccola storia nascosta del southern rock, dieci brani che testimoniano la gagliardia di una band che suona per il puro piacere di divertirsi, imitando un po' i maestri ma mettendoci del proprio, quel sano entusiasmo che contraddistingue i set "minori"in cerca di una visibilità lunga un giorno. Dal classico blues di Roosvelt Sykes in Driving Wheel agli umori pigri e laid back di Love You (Like a Man) di Chris Smither, da Stepping Out di Memphis Slim fino alla versione di Fever, la road crew band non nasconde il suo forte attaccamento alla musica del diavolo nelle sue diverse declinazioni, da quella urbana a quella rurale, mentre è nei brani originali che la vicinanza agli Allman si fa sentire lasciando intravvedere i colori e i suoni di Brothers and Sisters, in particolare nella strumentale Rainbow Chase dove l'era  Dickey Betts è santificata in lungo ed in largo. In primo piano salgono i lunghi assoli delle chitarre, il blues si fa morbido e jazzato, la sezione ritmica è in gran spolvero (oltre ai due batteristi c'è anche un percussionista, come nel modello originale), il chitarrista Dave "Trash" Cole ci mette la voce e Virginia Speed fa con classe il suo lavoro al pianoforte. In un pezzo, Is It Wrong, si aggiunge Scott Boyer, altra conoscenza del giro, con la steel guitar.

Onesto e degnamente suonato, A Band of Roadies è una piccola sorpresa inedita per gli amanti del southern rock e della saga Allman, rende inoltre giustizia ad un gruppo di lavoratori del rock, qui finalmente non dietro le quinte ma sotto la luce dei riflettori. Democratico.


 
MAURO   ZAMBELLINI    GENNAIO 2015


 

martedì 30 dicembre 2014

MY BEST OF 2014

 
Finalmente posso iniziare diversamente questo  MY BEST OF THE YEAR, contrariamente agli ultimi anni il 2014 ha regalato (si fa per dire) ottimi dischi e splendidi concerti per quanto riguarda il rock n'roll più o meno classic. Ad essere precisi di buoni concerti ne avevo visti anche l'anno precedente, uno su tutti Neil Young & Crazy Horse a Locarno, ma pure nell'anno appena trascorso gli eventi da ricordare sono stati diversi. Neil Young è ritornato ma il suo concerto di Barolo è stato troppo inficiato dalla disorganizzazione di chi lo ha allestito per rimanere nella mia memoria, cosa invece che è successo per tre concerti "maggiori", di cui ho già scritto su questo blog. Innanzitutto lo show dei Drive By Truckers  a maggio al Shepherd's Bush Empire di Londra.


 
 
Indubbiamente il luogo conta, eccome, essere a Londra in uno dei teatri che ha visto passare parte della storia del rock, aiuta all'enfasi e alla percezione, oltre a predisporre ad un vero sentire, ma al di là del fattore ambientale, ciò a cui ho assistito ha surclassato ogni mia più rosea aspettativa. I DBT di English Oceans  sono una band completamente trasformata, rispetto alla furia punk del loro show milanese di qualche anno prima alla Salumeria della Musica (periodo Go-Go Boots) e rispetto agli orizzonti alternative country di dischi come Live from Austin, Tx . Il fatto che le parti vocali siano equamente divise tra Mike Cooley, chitarra solista, con la sua voce monocorde e lamentosa, e Patterson Hood  col suo tono disperato e sofferente, amplia il range espressivo della band, aggiunge completezza e varietà al set, rifinito con grande maestria dallo squisito lavoro di Jay Gonzalez, eclettico polistrumentista che spazia tra Hammond, piano elettrico e chitarra Gibson SG, da Brad Morgan, il batterista con barba lunga da mormone che picchia senza sbavare e senza platealità, e dal nuovo bassista Matt Patton (faceva parte dei Dexateens), alto, secco, jeans e stivaletti, con capelli a caschetto da beat dei sixties e volto sempre sorridente, il quale e ha portato una ventata di freschezza nella band. Adesso nello show dei DBT non c'è solo urgenza punk e malinconia country ma ballate spezzacuori alla Tom Petty, polverose cavalcate elettriche, l'esempio mirabile è Grand Canyon,  dove dentro c'è tutta l'America delle strade secondarie del rock, l'eco western e le rasoiate rabbiose di chi si sta giocando la vita con la musica, il mito della strada filtrato da un bizzarro fatalismo sudista, oltre ai ganci cattivi degli Stones e ad un certo romanticismo springsteeniano. Una band coi fiocchi, eccitante ed epica, a cui il nuovo disco English Oceans  ha ridato fiducia ossigenato muscoli, nervi e cuore. Del secondo concerto ho già detto oltre il dovuto, i Rolling Stones  di Zurigo sono stati brillanti come da tempo non li sentivo e non li vedevo, nulla a che vedere con le ultime due loro calate a San Siro. Passi anche la scaletta karaoke da greatest hits ma chi si può premettere di avere ancora così tanta energia da riproporle 50 anni dopo con tale entusiasmo, infilando una Satisfaction così devastante da lasciare senza parole per tanta rabbia, eccitazione e febbre elettrica. E non è stato il solo pezzo memorabile, si aggiunga poi lo spettacolo, il palco, il pubblico, l'ironia ed un Mick Jagger così assatanato e avrete il rock n'roll show che tutto l'Universo ci invidia. Il terzo concerto che mi ha impressionato è  quello dei Counting Crows all'Alcatraz di Milano il 23 novembre scorso. Ci sono momenti in cui il rock è ancora capace di regalare la felicità, cosa piuttosto rara di questi tempi, quella sensazione che solitamente si prova quando si è innamorati, beh Adam Duritz e compagni quella sera ci sono riusciti e la sensazione era tangibile, era sullo sguardo dei tanti che hanno assistito a quel concerto. Magia del rock n'roll e realtà di una band che maneggia la materia con grazia e cattiveria e di un cantante magnetico, carismatico, istrionico, che si fa rapire e coinvolgere dalle sue canzoni come lo stesso pubblico che lo ascolta, travolto dalle note e dai versi in un viaggio dove lui recita una bohéme che immancabilmente finisce col trafiggere il suo e il nostro cuore. I Counting Crows sono una band da difendere con tutte le forze, non è facile essere classici e moderni nello stesso tempo, e tantomeno unire dolcezza e asprezza con la stessa credibilità, fremiti pop da successo radiofonico e spigolature rock da road band, echi folk e furia grunge, bisogna possedere una chimica da grande band, cosa che i Counting Crows hanno, ultimi discendenti in ordine di tempo di quella dinastia di "orchestre" americane nata con The Band. Poco importa che il loro ultimo Somewhere Under Wonderland  non è tutto all'altezza delle loro cose migliori, ma il concerto è stato intenso, emozionante, recitato, quasi un flusso di coscienza. Ritorneranno il prossimo estate, chi non li ha visti a Milano si affretti a comprare il biglietto.
 

Passiamo ai dischi, quella che segue è la lista dei dieci titoli inviati un mese fa al Buscadero  per l'usuale poll annuale. Di molti titoli ne ho già parlato su questo blog per cui vado al sodo, l'ordine non è del tutto casuale : 1) Lucinda Williams   Down Where The Spirit Meets The  Bone  2)  Gary Clark Jr. Live  3)  Drive  By  Truckers    English  Oceans  4)  John   Hiatt  Terms of  My  Surrender  5)  John   Mellencamp  Plain Spoken  6) Wilko  Johnson/Roger Daltrey   Going Back Home  7) Tom Petty              Hypnotic  Eye  8) Hurray  For The  Riff   Raff   Small  Town  Heroes  9) Chris Cacavas/ Edward Abbiati  10) Me and The  Devil, Looking  Into  You- A Tribute to Jackson Browne.

Ce ne sono altri che avrei inserito se non mi fossi limitato a 10, il Jackson Browne di Standing In The Breach  ad esempio, ma ho scelto il tributo al suo songwriting  per via di alcune versioni assolutamente fantastiche, mi vengono in mente Fountain of Sorrow delle Indigo Girls, The Pretender di Lucinda Williams, sicuramente il personaggio rock dell'anno, Before The Deluge di Eliza Gylkison ( eccellente il suo disco solista The Nocturne Diaries),  a dimostrazione della rigogliosità positiva del 2014. Tra gli emergenti o presunti tali, mi va di ricordare il newyorchese Anthony D'Amato con The Shipwreck From The Shore,  i frizzanti e cool Lake Street Dive di Bad Self  Portraits, i rarefatti oregoniani Delines  con il notturno Colfax,  il cantautore inglese Ben Howard che con I Forget Where We Were  ha realizzato quello che il suo collega americano Ray Lamontagne aveva fatto con Till The Sun Turns Black  ovvero immergersi nelle ombre dell'animo umano con canzoni affatto lineari e consolatorie, portando in superficie un songwriting notturno, scapigliato ed introverso. In ambito più rock mi piace ricordare il disco di Rich Robinson, il fratello meno famoso dei Black Crowes, che al suo terzo disco solista, The Ceaseless Light, ha allargato gli orizzonti e allungato i tempi creando una musica in cui svolazzi chitarristici in libera uscita, leggiadre armonie col profumo dell'oceano, ballate che iniziano pigre e assonnate e poi salgono nel cosmo col suono liquido delle chitarre e delle tastiere, ricompongono quello stile anni settanta in cui si riflettono la psycho-California dell'epoca, il rock dei Rolling Stones seventies, il southern rock della golden era e le visioni fumate e rilassate di quanti ancora viaggiano con la musica. Ha fatto decisamente meglio del fratello Chris, che con Phosphorescent Harvest  ha calcato un po' la mano verso un sound alla Greateful Dead  era-Terrapine Station  perdendo freschezza e spontaneità e facendo suonare le chitarre con un timbro scintillante, troppo prog per i miei gusti. Il desiderio è di rivedere insieme di nuovo i due fratelli perché i Black Crowes erano un'altra cosa, e mi mancano.

 
 
Dello stesso girone infernale impossibile far finta di nulla davanti alla maestosità di Dark Side Of  The Mule  dei granitici Gov't Mule capaci di virare al blues e al rock americano un'opera così inglese e cult come quella dei Pink Floyd. Due dischi su tre del loro triplo CD+DVD  sono all'insegna delle canzoni della band britannica, versioni che misurano la bravura tecnica e la versatilità dei Muli (capaci di passare dai Grateful Dead ai Rolling Stones, dai Doors a Neil Young, come io passo dal primo al secondo piatto) con una rivisitazione di Wish You Were Here  semplicemente pazzesca, voce sospesa, liquid sky ed una chitarra che estrae dal blues gli arpeggi per dire la sacrosanta verità, che i Pink Floyd sono storia ma c'è chi suona meglio di loro.  Colossali. Tra i dischi inclusi nella lista del poll Buscadero ce ne sono due di cui ho parlato sono marginalmente in fbook : Hypnotic Eye  di Tom Petty e Terms of My Surrender  di John Hiatt. Il primo quando all'epoca della sua uscita, la scorsa estate ha diviso gli ascoltatori, chi lo apprezzava e chi lo liquidava come un disco secondario. Mi sono arruolato tra i primi, l'ho ascoltato una valanga di volte, forse è stato il disco che più ho sentito nell'estate affatto calda del 2014, a casa, in macchina, con amici, ovunque, mi piaceva quel suono semplice. rocknrollistico, tra beat e blues, arpeggi California style e canzoni talmente disimpegnate nel sound da fornire la soundtrack ad una decapottabile o ad una spider vecchi tempi, correndo su strade verso il mare. Niente di ché, solo il piacere semplice del rock n'roll come veniva pensato negli anni cinquanta e prima del '67. Nei mesi non ho cambiato idea, Hypnotic Eye  non è certo da annoverare tra gli imprescindibili di Tom Petty (Mojo  era più intrigante)e magari lo si dimenticherà presto, ma quanto mi ha fatto compagnia questa estate con la sua aria sbarazzina. Di tutt'altro spessore il disco di John Hiatt che in pochi hanno messo in risalto. John Hiatt è un tipo che fa dischi con regolarità da svizzero e ogni volta non delude, ma ci sono impennate e uno standard nobile. Per stare ai "tempi moderni", Mystic Pinball  del 2012 è standard nobile, Dirty Jeans and Muslide Hymns (2011) e The Open Road  ( 2010) sono impennate. Questo Terms of My Surrender , passato quasi inosservato, è sulla falsariga di quei due, se non ancora meglio, è un disco  che fa i conti con l'età dell'artista ed il tempo che sfugge, con le amarezze e le poche illusioni rimaste, è un disco di ballate che arrivano al cuore passando prima dalla mente, una sensibilità da vero storyteller, un disco in bianco e nero con qualche slide ed un po' di armoniche, il sound di una band da strade blu, la voce di un narratore amareggiato ma ancora in grado di raccontare storie in si ritrova quel grande romanzo americano che tutti vorrebbero scrivere. Un disco meno solare dei due precedenti citati, bluesato senza essere blues. Ottimo.
 

Sembra far parte di un altro anno tanto è distante ma è uscito all'alba del 2014,  il disco delusione dell'anno per il sottoscritto è stato High Hopes  di Bruce Springsteen. L'ho ascoltato a valanga appena uscito per cercare di capirlo, poi di botto basta, è rimasto lì con la polvere che gli si adagiava sopra, l'ho risentito recentemente, mi pare ancora più brutto che all'inizio, quando lo recensii con tre stelle. Adesso gliene darei due perché non è possibile che l'autore di The River  rilasci un disco simile. Mi conforta vedere che gli estimatori della prima ora, non parlo degli integralisti di cui è pieno il mondo e nel rock sono una vera falange, lo hanno dimenticato, ma di amici con cui parlo, mi confronto, scambio idee e battute. Un esempio, l'amico Blue Bottazzi, che lo paragonò a Combat Rock  dei Clash (peraltro non uno dei loro migliori lavori), non l'ha nemmeno citato nel suo Best di fine anno sul suo blog. Adesso ho letto che Springsteen ha il mal di schiena e si fermerà per un po' senza fare concerti, spero francamente che abbia il tempo per tornare a sfornare dischi con una cadenza più dilatata come un tempo, ci eviterebbe il mal di pancia di lavori così affrettati e raffazzonati come High Hopes. E adesso che Little Steven è in Norvegia a Lilyhammer, gli auguro di cercare un chitarrista che non sia Morello.
 

 

Capitolo ristampe o meglio Box Super Deluxe, qui sono dolori. Le case discografiche, con l'avvallo dei loro artisti, è bene dirlo, ci marciano e sembrano spillare soldi sempre a quegli stessi che prima comprarono il vinile, poi la prima ristampa in CD, poi la seconda rimasterizzata, poi l'Edizione Deluxe e adesso sono presi per la gola con Box eleganti, rifiniti, con album fotografici da sogno. Sanno che il fan è debole rispetto a certe proposte, è come Adamo davanti alla mela, lo vivo sulla mia carne ma ho adottato il metro che un vero appassionato è un collezionista (ovvero vuole tutto del suo artista preferito) che è bene che stia sotto sedativi. Ovvero non deve andare in fibrillazione non appena appare un nuovo Box "imperdibile". Non siamo carne da macello, abbiamo la nostra dignità e le nostre difficoltà ad arrivare a fine mese. E' ora di alzare gli scudi. Prendiamo The Basement Tapes Complete  di Bob Dylan and The Band, bell'opera, non si discute ma 100 euro per degli avanzi di cantina. Non l'avrei mai preso ma me l'hanno regalato a Natale, a caval donato non si guarda in bocca, il meglio di tutto il materiale presentato sta nell'originale doppio album The Basement Tapes  del 1975, caso mai procuratevi la versione Raw  economica di questa ristampa, doppio CD e pensateci bene prima di sborsare tanti soldi per il Complete,  a meno che non siate un collezionista allergico ai sedativi. Stesso discorso per il Box di Springsteen 1973-1984  con i primi otto dischi rimasterizzati "come si deve per la prima volta". Materiale arcinoto, senza nessun inedito, taglio scartato, out-takes o quant'altro, solo quelle canzoni che si sanno a memoria, mitiche, che hanno creato la leggenda del romanticismo rock urbano e innalzato Bruce a salvatore di un popolo di orfani che chiedevano gioiosamente una sola cosa, una reason to believe. Beffardo è constatare che quella reason to believe è oggi racchiusa in una scatola dal costo di 50 euro  (i CD) o 135 euro (i vinili) , senza nessuno sforzo di offrire a quegli ex-orfani (perché poi sono solo loro ad acquistarlo, non i giovani che non c'erano) qualcosa di nuovo, perduto e ritrovato. Leggo su fbook qualcuno  scrivere che i bassi di The River  non si erano mai sentiti così, a parte che per godere delle rifiniture di masterizzazione bisogna possedere un impianto di una certa levatura esoterica, e poi perché non portare a compimento la tanto paventata ristampa di The River  sull'esempio di ciò che è stato fatto per Darkness  e Born To Run  completando la "meravigliosa trilogia". Invece, The River  Deluxe  Edition  sarà probabilmente realizzata in un prossimo futuro ma nel frattempo beccatevi questa minestra riscaldata, oggi con un tecnologico microonde. Sento già qualcuno dire, ma, Zambo, cazzo, te le vai a cercare, perché parli così del Boss......il fatto è che parlerei così anche degli Stones, di Willy DeVille o di chiunque altro se fosse il caso, l'ho già detto più volte, il mio approccio al rock è laico non fideista. Di Willy DeVille, povero dimenticato dalle aristocrazie di potere del rock, si è avuto il doppio CD+DVD Live at Rockpalast  che rimette in circolo il Mink DeVille degli anni a cavallo tra 1978 e 1981, poco trattati e mai documentati, gli Stones hanno invece "liberato" parte dei loro archivi rendendo disponibili in CD e DVD ottimi concerti inediti, testimoniati solo da qualche bootleg, come i brillanti L.A.Friday 1975  e Hampton Coliseum 1981.  E' luogo comune vedere i Rolling Stones come dei mercenari, tossicodipendenti da vile denaro, e invece Springsteen come un santo che rispetta i suoi fans. Qualcosa non torna, lo Springsteen dei concerti non si discute ma lo Springsteen discografico, complice anche la Sony, si, e non solo da oggi. Sento già gli insulti arrivarmi, prendo e incasso ma non cambio idea.  Altra ristampa sotto inchiesta, il cofanetto di sei CD riguardante il terzo album dei Velvet Underground, disco fantastico, seminale e trascurato, sebbene non avanguardistico come i primi due, ma denso di belle canzoni e di sonorità scheletriche che vestono di un taglio quasi folk il rock urbano. Ebbene, tre su sei CD della Super Deluxe edition di The Velvet  Underground  sono la stessa cosa ovvero il disco originario, l'edizione mono (ma chisse ne frega) dello stesso e la stessa registrazione con il mixaggio però che volle fare  Lou Reed (closet mix) non in sintonia con il mix di Val Valentine, dove le differenze sono quasi impercettibili. Il problema è che queste ripetizioni non le regalano perché il cofanetto costa 55 euro, per fortuna c'è la Deluxe Edition in edizione economica, solo due CD, il mixaggio di Val Valentine ed il live al Matrix di San Francisco del novembre 1969, che salvano la situazione.
 

Non tutto va secondo questo schema, ad esempio per Allman Brothers Band e Rory Gallagher si è scelto la via di documentare in modo completo e definitivo due eventi cardine della loro carriera con materiale ufficialmente inedito, per i primi Live at Fillmore East,  il più bel disco dal vivo della storia del rock, e per il secondo Irish Tour  '74.  Di Live At Fillmore East  esistevano diverse edizioni, personalmente mi tengo stretta, oltre all'ormai usurato doppio vinile originario, una edizione in due CD del 2003, ma se qualcuno volesse possedere tutti gli show di quel magico marzo del 1971 a New York è accontentato, così come saranno soddisfatti i tanti fans del più grande bluesman irlandese che con i sette CD più un DVD di Irish Tour '74  possono conoscere e ascoltare l'incendio a suon di blues e rock, che Rory incurante dello stato d'assedio di quel conflitto sanguinario, appiccò nell'Irlanda di quell'anno, tra Cork, Dublino e Belfast. Altra storia ancora il bel box di quattro CD dell'artista a tutto tondo Joni Mitchell che con Love Has Many Faces ha ricomposto la sua avventura musicale ideando un'opera in quattro parti interagenti tra di loro con canzoni scelte e rimasterizzate della sua vasta collezione. Una sorta di documentario sonoro (e visivo) sull'amore e la mancanza di esso che esaltano un'artista la cui creatività attraversa senza gerarchie musica, letteratura, pittura, natura, vita vissuta, psicanalisi. Peccato che nella selezione dei brani abbia dimenticato un album così bello come l'ultimo Shine  e abbia estratto dall'incantevole Heijra  solo una traccia, delegando altre canzoni di quell'album alle versioni orchestrali contenute in Travelogue.  Al di là di ciò Love Has Many Faces  è un libro a quattro CD originale e  pur non offrendo nulla di nuovo intriga con la sua eleganza e raffinatezzao, e con una delle voci più belle che il cantautorato femminile abbia regalato. Molto di nuovo offre invece Wilco Alpha Mike Foxtrot  anche qui  quattro CD che assemblano rare tracks tra il 1994 e 2014. Non tutto è superlativo anche perché il meglio di Wilco è già stato pubblicato ma in questo caso il percorso scelto è l'approfondimento con tracce rare, inedite, uscite qui e là su delle raccolte, dei tributi e degli Ep, qualche out-takes e diversi live. Un lavoro che amplia il livello di conoscenza su una delle rock band più importanti degli ultimi ventanni.
 

 
Chiudo qui, altre cose non mi vengono in mente o non le ho ascoltate, se dovessi dare una votazione da uno a cinque al 2014, musicalmente e solo musicalmente parlando, affibbio un quattro. Confrontato col 1984 o il 1974,  il voto potrebbe diventare tre se non addirittura due, ma i tempi sono cambiati e bisogna adattarsi. Per curiosità elenco invece il BEST delle ultime due decadi, il 1994 quando scrivevo per Il Mucchio e il 2004.

1994, la Top 20 del Mucchio era così costituita : David Byrne (omonimo), Jeff Buckley (Grace), Johnny Cash (American Recordings), Nick Cave (Let Love In), Cooder/Tourè (Talking Timbuktù), Grant Lee Buffalo (Mighty Joe Moon), Ben Harper (Welcome To The Cruel World), Ted Hawkins (The Next Hundred Years), Tom Petty (Wildflowers), Portishead (Dummy). Primal Scream (Give Out But Don't Give Up), Robbie Robertson (Music For The Native Americans), Rolling Stones (Voodoo Lounge), Todd Snider (Songs For The Daily Planet), Soul Coughin (Ruby Vroom), Soundgarden (Superunknown), Jon Spencer (Orange), Sugar (File Under Easy Listening), Jimmie Vaughan (Strange Pleasure), Neil Young (Sleeps With TheAngels).

2004, i miei dieci per il pool del Buscadero erano: Pearl Jam (Live at Benaroya Hall), Cheap Wine (Moving), Dr.John (N'Awlinz: Dis Dat or D'Udda), Jesse Malin (The Heat), Patti Smith (Trampin'), Tarbox Ramblers (A Fix Back East), JJ Cale (To Tulsa and Back), North Mississippi Allstar (Hill Country Revue/Live Bonnaroo), Dwight Yoakam (Used Records), Bobby Charles (Last Train To Memphis). Il poll dei giornalisti del Buscadero aveva decretato disco dell'anno Trampin' di Patti Smith davanti a Dr.John e A Ghost Is Born  di Wilco.

A voi le valutazioni e Buon Anno

MAURO ZAMBELLINI    30 DICEMBRE 2014