(Matador)
Dopo il criptico tentativo di mettere in musica Edgar Allan Poe con The Raven, il cantore di New York torna ad una delle sue opere più difficili, contraddittorie ed osteggiate, quel Berlin che nel 1973, anno della sua pubblicazione, fece scrivere a Rolling Stone: un album palesemente offensivo, la fine della carriera di Lou Reed.
La storia non è andata come prevedeva l’illustre rivista americana, Lou Reed si è conquistato a pieno merito un posto di primo piano nella storia del rock e a trentacinque anni dalla sua pubblicazione Berlin è considerato uno dei capolavori della sua discografia. Un opera non facile, ieri e oggi, che descrive la disperata e devastante storia di un violento junkie (Jim) e della sua fidanzata prostituta (Caroline), due americani che vivono in una Berlino sfigurata dalla guerra, dall’iniziale stato di euforia dovuto all’uso delle anfetamine fino all’inevitabile caduta in una spirale di dipendenza, violenza, schizofrenia e degrado che porta Caroline a suicidarsi dopo che le autorità le hanno tolto l’affidamento dei figli. Opera cupa e malata, ambientata in una plumbea atmosfera mittleuropea, orchestrata come se si trattasse di una specie di cabaret tedesco, con un massiccio uso del piano (Bob Ezrin, collaboratore di Lou Reed), con partiture di viola e violoncello e impregnato delle sonorità metalliche delle chitarre di Steve Hunter e Dick Wagner, Berlin è una coraggiosa rappresentazione del clima di decadenza estetica e morale che pervase un certo ambiente rock degli anni ’70, storie, come ha suggerito lo stesso autore, di gente che esisteva negli anni settanta non solo a Berlino ma dovunque. Una storia violenta e angosciante che Lou Reed con l’aiuto di Bob Ezrin tradusse in musica e come un freddo narratore raccontò momenti agghiaccianti come The Kids, scosso dallo straziante pianto dei bambini che vengono tolti alla madre e come l’epilogo di The Bed e Sad Song dove Caroline si uccide tagliandosi le vene e Jim vaga stranito nella casa come un relitto, prigioniero del ricordo di lei ed incapace di comprendere quanto sia successo.
Più volte nel corso degli anni è stato proposto a Lou Reed di eseguire dal vivo l’intero Berlin, cosa che non aveva mai fatto e finalmente e dopo innumerevoli tentativi, grazie alle pressioni del direttore del piccolo St.Ann’s Warehouse di New York, il progetto è andato in porto e nel dicembre del 2006 per quattro serate Berlin è stato suonato davanti al pubblico. Da lì è nato anche un mini tour che ha riscosso riconoscimenti e consensi in giro per il mondo.
I concerti del St.Ann’s Warehouse sono stati filmati dal regista Julian Schnabel (Basquiat), amico di Reed e grande estimatore di Berlin, e la storica performance sarà disponibile in un Dvd in uscita contemporanea con il disco live.
Prodotto da Bob Ezrin con Hal Willner e musicato da alcuni degli stretti collaboratori di Lou Reed (Fernando Saunders, Antony, Steve Hunter, Rob Wassermann, Rupert Christie e Sharon Jones) Berlin Live subisce una importante rilettura in termini di intensità sonora ed arrangiamenti orchestrali che ne mantiene inalterata l’originalità e non stravolge lo spirito del tempo. Pur arricchitoo da una orchestra di sette elementi e dal Brooklyn Youth Chorus, il nuovo Berlin non è opera tronfia e ridondante nonostante la teatralità del tema e l’atmosfera scabrosamente melodrammatica dell’opera prima ma al contrario il cantato di Lou Reed e l’essenziale efficacia dei musicisti mantengono l’enfasi dentro delle solide coordinate di rock metropolitano. Berlin Live è una sinfonia elettrica nei torbidi anfratti dell’animo umano che tocca il suo apice nell’esecuzione lancinante di Sad Song, nelle fustigate chitarristiche di Lady Day (sia lodato Steve Hunter) nel rumore al calor bianco di Men of Good Fortune, nell’assordante impasto chitarre/fiati di How Do You Think It Feels, nelle chitarre nervose e schizoidi di Oh Jim dove Lou Reed canta come fosse ancora in Take No Prisoners.
Uniche eccezioni all’intento concept dell’opera l’aggiunta di tre encore: la velvettiana Candy Says, una gelida e perfetta Rock Minute ed una Sweet Jane abbastanza trascurabile.
MAURO ZAMBELLINI SETTEMBRE 2008
1 commento:
Ho visto lo show di Milano della tourné di "Berlin", lo scorso anno. E' stata un'emozione molto intensa, sicuramente uno dei concerti più belli a cui abbia avuto la fortuna di assistere (e solo di Lou Reed ne ho visto 5, nel corso degli anni). "Berlin" è molto di più che "uno dei dischi più tristi della storia del rock", come venne definito all'epoca della sua uscita. E' piuttosto la prova perfetta che la musica rock poteva - e può - occuparsi di tutto, se solo si pone degli obiettivi ambiziosi, che può essere all'altezza di un'opera letteraria (poniamo, di Hubert Selby jr. di Delmore Schwarz o di William Burroughs, per citare tre autori amati da Lou) e illuminare persino gli aspetti più oscuri e "malati" dell'esistenza. Non credo che la storia narrata nel disco e riproposta ora in dvd per la regia di J. Schnabel sia confinata ad un particolare momento storico, nella fattispecie gli anni '70, né in un particolare luogo, come la Berlino del Muro. Ma, certamente, Lou reed utilizzò Berlino come una possente metafora: una città divisa per proiettare una vicenda di personalità scisse e schizoidi, di bambini separati dalle madri, di cuori divisi, di decadenza e di morte. Senza alcuna redenzione.
Credo che il rock possa dire ancora qualcosa d'importante, se vuole: ma per farlo deve seguire esempi come questo, deve essere più che una forma di intrattenimento come tante altre. Deve sforzarsi di essere, semplicemente, una forma d'arte.
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