MILANO (MAGAZZINI GENERALI ) SABATO 15 NOVEMBRE
Non so perché mi piacciono visto che la mia formazione rock è più rootsy e più esposta verso quel mondo di strade blue che incrociano gli Stones con Springsteen e Dylan ma i Fleet Foxes visti nel precario spazio dei Magazzini Generali hanno risvegliato in me l’amore verso quel folk underground che negli anni ’60 accompagnava certe esperienze eclettiche e fuori pista.
Già per come si abbigliano e per come portano i capelli, Robin Pecknold e soci sembrano usciti da una cantina o da un club di San Francisco del 1967 ed anche il loro approccio verso lo show e verso il pubblico trasmette quella informale spontaneità che caratterizzava la prima stagione del rock quando le esibizioni non erano così impacchettate ed ingessate come quelle di oggi.
I cinque ragazzi di Seattle soffiano l’aria fresca della north-west coast americana proponendo una musica che è rock negli strumenti e folk nelle liriche e nelle voci. Il concerto dimostra quanto siano fuori corrente anche se lontanamente imparentati con il freak folk: una selezione di brani, in pratica il loro album omonimo al completo, basati su una armonia vocale sorprendente, spesso ardua nei toni alti alquanto vertiginosi e su una intelaiatura strumentale tra l’acustico e l’elettrico dove la fanno da padrone il suono delle chitarre, l’accompagnamento di una tastiera o di un mandolino.
Il loro è uno strano folk/rock di natura underground che non nasce nella tradizione di Dylan e simili, piuttosto rimanda al folk inglese dei Fotheringay e dei Renaissance e ad un coraggioso quanto mai improbabile connubio di Beach Boys e canto gregoriano. C’è un che di liturgico nell’unisono delle voce dei Fleet Foxes, un’atmosfera che ammalia e affascina e coinvolge emotivamente al di là delle incertezze strumentali che ancora rigano il loro set e a qualche comprensibile caduta vocale del loro cantante leader, scivolato su un paio di vette davvero ardite. Dal vivo appaiono meno immacolati che su disco, tengono la scena con la leggerezza e l’incoscienza degli esordienti, spargono spontaneità e benessere con canzoni dall’aria candida e con armonie vocali che sembrano uscite da una chiesa gaelica. Fanno funzionare bene i titoli più conosciuti come Sun It Rises, Ragged Wood, Quiet Houses, la sontuosa ed epica Your Protector strimpellano le chitarre con caustica convinzione come fossero una trasposizione di qualche gruppo underground dei sixties senza però lasciarsi trasportare dai watt e dagli assoli, scherzano col pubblico, numeroso e soddisfatto, come si trattasse di una esibizione tra amici e si perdono nei paradisi artificiali delle loro armonie con fare trasognato.
Sono completamente originali, freschi e luminosi e che siano bravi anche nel songwriting lo si vede quando il frontman Pecknold si cimenta da solo con la chitarra acustica evocando gesti di una lontano poetico ed innocente Greenwich Village. Che sia una nuova primavera del folk ?
Mauro Zambellini
1 commento:
posso dirti che mi fanno letteralmente cagare !!!
ho comprato il loro secondo disco stra consigliato dal Busca....
l'ho ascoltato tre volte tre
poi e' finito nella spazzatura
sara' che mi piacciono le chitarre,
sara' che questi nuovi gruppi pseudo folk mi sembrano una vera merda.
non ce la posso fare........
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