Un anno che annovera le scomparse di Gregg Allman
e Tom Petty non può che essere un anno di merda.
Le morti non sono tutte
uguali, sarebbe ipocrita affermarlo, se quella dolorosissima di Gegg Allman, a
proposito il suo epitaffio intitolato Southern Blood è una delle perle del
2017 tanto intenso, romantico e caldo, pregno di tutti quegli umori e aromi "sudisti"
che rendono quella musica una delle espressioni più coinvolgenti in ambito
blues, soul e rock n'roll, era in qualche modo annunciata visto le sue precarie
condizioni di salute, quella di Tom Petty è stata un vero shock, tanto che
ancora oggi a tre mesi di distanza si fa fatica a credere che sia successa.
Nonostante avesse annunciato l'abbandono di tour estenuanti, ma non di concerti
singoli, Tom Petty era ancora nel pieno della sua creatività, ancora disposto a
rischiare con progetti diversi, come dimostrano i dischi e i concerti sotto la
veste Mudcrutch, e nello stesso tempo impegnato a continuare l'esperienza con
gli Heartbreakers, una band che a mio modo di vedere è la più sfavillante e
completa rappresentazione del rock n'roll, Stones permettendo. Il fatto di
averlo poi visto in un memorabile concerto ad Hyde Park lo scorso luglio,
ampiamente documentato su questo blog, ha reso ancora più sconvolgente e
dolorosa la sua scomparsa, aver partecipato a quel concerto non fa altro che
aumentare il dispiacere e l'incredulità. Certo Bruce Springsteen nel 1981 a
Zurigo rimane per me la folgorazione in assoluto, il concerto della vita, e Little Feat a Londra nel 1977 il colpo di
fortuna che ti insegna che di quella musica non ne potrai più fare a meno anche
se hai solo 27 anni. Ma quei concerti e ci aggiungo anche gli Stones del 1970, visto l'età di chi scrive, erano ancora eventi
per così dire formativi di un sentire, di una sensibilità e di una emotività in
crescita, mirabolanti avventure di un divenire uomo che capisce che, oltre agli
affetti e agli amori, l'arte e in questo caso il rock può essere fonte di
emozioni forti, appaganti, profonde e formative. Vedere Tom Petty a 67 anni è
un'altra cosa, l'uomo è fatto e rifatto, le eccitazioni giovanili passate da un
pezzo e il disincanto sempre lì pronto a ridimensionare l'emozione, la
conoscenza del rock talmente allargata da richiedere ogni tanto una resettazione per
poter carpire una nuova brezza, eppure in quell' Hyde Park di una calda sera
d'estate, per di più attanagliato nella folla e pronto a difendere ad ogni
costo una postazione faticosamente guadagnata (non ho mai avuto il privilegio
di un pit), provare di nuovo quella magia, quello shining elettrico,
quell'emozione forte ed incontrollata, quel piacere estatico nel vedere e
sentire una band che ti scartabella l' enciclopedia del rock n'roll con un
artista così sorridente e a proprio agio da sembrare un tuo fratello, ecco allora capisci che il rock
n'roll non è solo una musica ma una ragione di vita, ancora adesso che vai
verso i 70 e certe cose possono essere sembrare fuori luogo ad una certa età. Quello
di Tom Petty and The Heartbreakers il 7 luglio 2017 a Londra è stato il
concerto perfetto, non ce ne saranno più uguali. Purtroppo l'ultimo dell'amato
seminole, andato via troppo presto da questo mondo confuso, ma ancora da vivere
finché ci saranno artisti come Tom Petty capaci di regalarti un raggio di sole
anche quando il buio e le brutture sembrano diventate la norma. Ci rimane il
suo ricordo, la sua musica, i suoi dischi (come quelli di Gregg Allman), non è
poco, ma se ci fosse ancora lui, diventato finalmente bello a 60 anni con
quella barba da ribelle e quella camicia rossa, mi sentirei più in sintonia col
mondo.
Ma come si
è soliti dire in questi casi, con quel tocco di cinismo e superficialità che è
dovuto, the show must goes on e
quindi andiamo avanti, citando i numerosi ottimi concerti regalati dall'anno
appena trascorso, dalla potente e funambolica Tedeschi-Trucks Band all'Alcatraz
di Milano agli irriducibili Rolling Stones di Parigi, dalla R&B revue in
pasta newyorchese di Little Steven and The Disciples of Soul, sempre
all'Alcatraz di Milano, ai semiesordienti The Shelters nello stesso Hyde Park
di Petty, dalla esuberante Marcus King Band al set strepitosamente
rocknrollistico di Alejandro Escovedo con Don Antonio, dall'arruffato e anarcoide
Dan Stuart all' 1 e 35, locale che stoicamente resiste nel deserto nazionale
della musica live, alla riesumazione dei Green On Red per via di Eddie Abbiati-Chris
Cacavas & Dirty Devils al Teatro 89. Per non dire di Ian Hunter e la sua
Rant Band al Bloom, i Gov't Mule a Trezzo e i Tinariwen a Lugano, tutti
concerti che mi hanno mandato a casa contento. Ho bigiato lo show dei Dream
Syndicate e mi spiace, ma avevo valide giustificazioni, non ultima il fatto che
ho maturato una certa avversione per i
locali in cui ti mettono come sardine in scatola, ti fanno sudare come ai
tropici e ti riempiono i timpani con un audio che necessita almeno una
settimana per togliere gli acufeni dalle orecchie.
Detto questo passo ai dischi e faccio mio ciò che l'amico
Marco Denti ha scritto sul Buscadero di gennaio a proposito del resoconto
discografico del 2017, allorché ha riportato una riflessione di Henry Rollins,
rocker di cui non mi sono mai appassionato più di quel tanto, pur stimandolo. "Qualche tempo fa Henry Rollins ha tenuto
un discorso, tra il serio e il faceto, durante una delle sue performance. Lo
scherno principale riguardava i cosiddetti dj che credono di “andare a suonare”
e da lì Henry Rollins metteva alla gogna, senza tanti complimenti, tutta la
musica costruita con un computer qui e un sampler là, senza tante idee e con
uno stile non dissimile alla catena di montaggio. Tralasciamo i commenti
esilaranti e il torpiloquio di Henry Rollins (comunque lo trovate in rete, con
i sottotitoli in italiano) che però, sul finire della sua intemerata diceva che
sarebbe ora di “sentire del vero rhythm and blues, del vero soul, del vero jazz
e del vero rock’n’roll, basta che ci sia meno roba precotta”. Il discorso di
Henry Rollins non fa una piega e sarà anche musica stagionata quella del My Best of 2017 ma è roba vera, senza troppi
conservanti e coloranti, senza narcisismi e quella velleità di indicare ad ogni
costo una strada o un futuro, visto che tanti di questi oracoli il più delle
volte si esauriscono nel giro di qualche anno, lasciando solo fumo ed una
sensazione di vacuità che ti fa diffidare della prossima new thing. Preferisco l'arrosto e i dischi che resistono al tempo,
che li ascolti tra 5 o dieci anni e ti trasmettono ancora quel senso sano della
musica costruita con le mani, il cuore ed il cervello. Ognuno ha i propri
gusti, su questo non si discute e sinceramente l'età mi ha reso conservatore al
riguardo, un prezzo da pagare al diventare vecchio, una sopraggiunta pigrizia nel
girovagare i nuovi territori preferendo invece concentrarsi sulle cose e i
generi con cui si è più in confidenza, magari perché sedimentate da una frequentazione che nel
tempo ha significato anche profondità conoscitiva, piacere delle sfumature e
dei dettagli. Vai a quello che sai che ti possa piacere, senza perdere comunque
la curiosità della scoperta, e se devi fare troppa fatica per farti piacere una
cosa che sembra troppo strana, lasci perdere. Non c'è più il tempo di una
volta, le cose corrono veloci e si esauriscono in fretta, non mi interessa
essere sempre sul pezzo, sulla novità, preferisco riconoscere una segnaletica
emotiva che 50 anni e più di ascolti privati e concerti pubblici mi hanno
forgiato in termini di passione, piacere, sensibilità. Se di Gregg
Allman ed il suo commovente Southern Blood, a proposito
compratevi la versione in vinile perché la copertina ed il collage fotografico
all'interno sono da urlo, ho già detto, l'altro mio preferito dell'anno è 50 di Michael Chapman, vecchio, resuscitato folk-rocker inglese che con
l'aiuto di Steve Gunn, un americano che in un video gira per l'umida e verde
campagna inglese con una Triumph vintage, ha realizzato un disco sublime, sospeso
tra folk e rock, con venature perfino psichedeliche ma di quella psichedelia
dolce ed autunnale con cui le ballate si alimentano di suoni circolari che si
ripetono in una sorta di mantra elettro-acustico avvolgente ed ipnotizzante. Ne ho già scritto a proposito
di The
Old and The Young su questo blog lo scorso febbraio. Mi è capitato di riascoltare
50
dopo diversi mesi dall'uscita, in macchina lo scorso settembre mentre
attraversavo l'ampia pianura della
Camargue tra paludi ed un cielo delirante di nuvole frastagliate, ed è stato un
vero trip. E' un disco che libera la mente in uno sguardo estatico di ciò che
ci circonda, una purezza rarefatta d' altri tempi, 50 di Michael Chapman è
un disco che fa ancora sognare e viaggiare, il fatto che sia un veterano con
una lunga discografia alle spalle, cresciuto ascoltando Big Bill Bronzy, Django
Reinhardt e John Martyn, ad averlo pubblicato contraddice l'affermazione per
cui le cose migliori vengono create solo in giovane età. Le pinacoteche
sarebbero spoglie.
Giovanissimi invece sono Greta Van Fleet, tre fratelli Kiszka più un paio di amici
provenienti da Frankenmuth nel Michigan, che cantano come i Led Zeppelin e
pestano duro un hard-rock venato di blues che si concede ugualmente a versioni
che stanno agli antipodi del loro sound chitarristico. Difatti con From
The Fires , il loro primo vero album
assemblato con due Ep, sciorinano la loro giovanile verve hard-rockin'
strizzando l'occhio al British blues come al rock di Detroit, per poi far
capolino in una improbabile A Change Is
Gonna Come di Sam Cooke pur priva delle modulazioni morbide e sensuali
dell'autore ma comunque degna dell'illuminato e democratico messaggio della
canzone, qui rivista in una versione più strillata e white middle-class ma
solenne nel suo significato. E la stessa cosa si può dire di Meet On The Ledge di Richard Thompson
resa nota dai Fairport Convention, qui rispettata nelle sue cadenze da ballata,
impreziosita da un backing vocale e da un melodico assolo di chitarra. La voce
metallica di Joshua Kriszka, i riff al serramanico e l'odore di benzina esalato
da Black Smoke Rising sono il
biglietto da visita di questo giovanissimo combo che la rivista Rolling Stone
ha definito "una delle dieci band
del 2017 che dovete assolutamente conoscere". Non è un disco
imprescindibile From The Fires ma i
Greta Van Fleet sono una promessa, come lo sono stati gli Strypes qualche anno
fa.
Non sono una novità i Dream Syndicate ritornati ad un disco in studio dopo ventotto anni
con inalterata brillantezza ed indiscussa ruvidezza rock. Tre originali, il cantante e chitarrista
Steve Wynn, il bassista Mark Walton ed il batterista Dennis Duck, più il
collaudato chitarrista Jason Victor e la presenza di vecchi amici quali Chris
Cacavas e Kendra Smith, per un album, How Did I Find Myself Here?,
apprezzato da pubblico e critica, che non sposta di una virgola il loro sound
fatto di cascate elettriche e fiondate ritmiche dietro una voce, quella di
Wynn, che sembra sempre uscire da un romanzo hard-boiled. Cinque tracce feroci
all'insegna del grande sole nero losangeleno, una ballata imbambolata (Kendra's Dream) ed un brano, la title
track, che da sola vale il prezzo del CD, una lunga e liquida immersione sonora
tra jazz e psichedelia che non può che rimandare a John Coltrane Stereo Blues. Tanto di cappello a Wynn e soci, almeno
questo sindacato non si è venduto al sistema e nonostante gli anni continua a
far sognare. Di più stretto accento roots sono due dischi che seppure non
memorabili danno ossigeno alla mia attenzione verso il rock americano più provinciale
e rurale, fino a poco tempo fa la miglior espressione di una rinascita delle
radici a colpi di chitarre e ballate younghiane. Non è un caso che Lukas Nelson, figlio del famoso Willie,
e la sua band i Promise Of Real
siano l'attuale band di Neil Young. Il
loro disco, non il primo, a loro nome è una piacevole mistura di ballate
agresti, southern rock, country-soul, dolcezze acustiche e cavalcate texane,
dosate con cura ed iniettate con alcune
spregiudicatezze. Lukas Nelson ha una voce importante che sconfina anche
nel falsetto, la band è di prim'ordine. Un disco a suo modo originale il loro, per
come sa camminare nei fangosi e inflazionati terreni di quello che veniva
definito alternative country con qualche idea fresca, un disco non troppo
distante da Chris Stepleton ma più melodico e nello stesso tempo con chitarre sguainate. Mi è capitato di vederli dal vivo
lo scorso ottobre nel piccolo spazio del Cafè de la Danse di Parigi ed è stato
un concerto robusto e piacevole, con tante sfaccettature. Lukas Nelson ha il
phisique du role del troubadour, alto, barba e capelli neri, una presenza
significativa sul palco, la band ha carattere e non lesina in efficacia
rocknrollistica, nemmeno quando la canzone dispensa malinconie da loser, Carolina ondeggia sul border e Just Outside of Austin fa capire che nel
loro set e nel loro disco c'è tutta la scuola dei songwriter texani. Lukas
Nelson non tradisce i natali, è rispettoso del passato, quando interpreta Breakdown di Tom Petty, La Vie en Rose di Edith Piaf, Cinnamon Girl di Neil Young e After Midnight di J.J Cale, ed intraprendente quando distorce una melodia
che sarebbe troppo facile attribuire al background di famiglia.
Era diverso tempo che non mi avvicinavo ai Son Volt, avevo trovato alcuni loro
dischi ripetitivi e stanchi, cosa che non succede, a mio modo di sentire, con Notes
of Blue un lavoro dove si ritrovano tutti gli elementi costitutivi
dell'ispirazione di Jay Farrar, ovvero i paesaggi desolati e lividi della
provincia americana, le periferie urbane anonime, la solitudine e la strada, ma
in questo caso rinnovati con una lucidità ed essenzialità che sembravano
smarrite. Il disco è piuttosto corto, circa 30 minuti, ma è perfetto per la
voce neniosa e monocorde di Farrar, che qui trascina la band come da tempo non
capitava mettendo le sue chitarre in primo piano, davanti ad un combo (la
batteria di Jacob Edwards, il piano di Mark Spencer, il violino di Gary Hunt,
la pedal steel di Jason Kardong) che sa livellare asprezze elettriche non prive
di feedback e rumori grungy con sfumature roots evocative di un mondo rurale
che resiste alla modernità. Aspri (esemplare è Static), perduti in ballate che sembrano sfumare nel vuoto della
provincia americana ( Cherokee St., Lost
Souls), dolci e acustici (The Storm),
disperati come lo possono essere ad altre latitudini i Richmond Fontaine, con
cui condividono il deserto esistenziale di tante condizioni umane, i Son Volt
di Notes
Of Blue sono la quintessenza di un rock scritto sulle pagine ormai
ingiallite e intristite di On The Road.
Chi continua da un po' di anni imperterrito sulla
sua strada fatta di dischi apparentemente dimessi e folkie è John Mellencamp, il quale riduce al minimo anche le copertine dei suoi dischi,
il packaging dell'ultimo disco è così misero da far incazzare. A partire da
Life
Death Love and Freedom e poi con No Better Than This e Plain
Spoken John Mellencamp insegue una visione della musica americana fatta
di ballate elettro-acustiche dove le amare considerazioni sullo stato della sua
nazione, in termini socio-politici, si traducono in una tristezza di fondo che
trova veste in un folk-blues di protesta con sopra il fantasma di Woody
Guthrie. L'amarezza è spesso la linea conduttrice del disco, ed una certa
monotonia, specie nei primi due titoli riportati sopra sono il limite di una
poetica altamente nobile nei contenuti ma piuttosto deprimente musicalmente. Se
Plain
Spoken aveva agitato le acque in senso positivo, ancora di più lo fa Sad
Clowns & Hillbillies che proprio l'aggiunta della cantante country
Martina McBride rende vario e movimentato, quindi più accessibile ad ascolti
prolungati, senza che il tedio prenda alla gola. Suonato magnificamente pur nel
dosaggio spartano di strumenti che ci mettono solo l'indispensabile, cantato
con l'usuale bagaglio arrochito di Mellencamp, Sad Clowns & Hillbillies è
una collezione di canzoni che viaggiano sui ritmi di una tradizione di
folk-rock-blues ereditata da Dylan di cui l'artista dell'Indiana sembra oggi il
più resistente e sincero degli interpreti. Mi sono trovato ad ascoltare per
parecchio tempo il disco senza stancarmene, e questo è un buon segno.
La recente riscoperta del folk anche in ambienti
vicino all'indie e all'underground ha permesso una delle più felici e anomale
uscite del 2017, il secondo album dell'americano Jake Xerxes Fussell, degno figlio di una famiglia di ricercatori e
archivisti di folk, il padre Fred Fussell e sua moglie Cathy. Dopo gli studi
approfonditi all'Università del Mississippi e l'incontro con degli importanti
musicisti (Robert Wilkins, Steve Mann, Etta Baker) JXF ha realizzato con la
produzione di William Tyler l'esordio nel 2015 e bissato lo scorso anno con il
magnifico What In The Natural World. Assemblato un vero e proprio
collettivo di musicisti (Nathan Bowles, Casey Toll, Nathan Golub, Nathan
Salsburg, Joan Shelley) JXF si addentra in un mondo di folk-blues con la
compostezza e la creatività di un Ry Cooder catturando gli elementi essenziali
del patrimonio originario ma rinnovando il linguaggio lirico con un tocco
poetico e visionario di rara originalità. Esemplare è la rilettura in chiave
jazz-blues di Bells of Rhymney di
Dylan ma tutto il disco scorre con una fluidità incredibile al punto da
reinventare in chiave folk un brano di Duke Ellington, Jump For Joy. Malinconico a tratti, swingato in altri momenti,
rigoroso ma ugualmente suggestivo nelle riletture e nell' uso della chitarra,
tra tagli sincopati e armonie circolari simili a quelle di Steve Gunn,
arricchito da una voce significativa e a volte struggente, What In The Natural World è
un disco magico, di quelli che Ry Cooder da un pezzo si dimentica di fare.
Noi orfani dei Black Crowes, nel 2017 abbiamo
avuto una piccola ricompensa col disco omonimo di The Magpie Salute, la band formata da uno dei fratelli Robinson, il
chitarrista e qui cantante Rich, dall' altro chitarrista Marc Ford che, a
parere di chi scrive, è stata una delle pedine fondamentali degli album
migliori dei Corvi Neri per quel suo suonare pindarico e fantasioso, giusto
alter ego al rigore blues-rock di Rich. E poi il diligente Sven Pipien ed il
magistrale tastierista Eddie Harsch, purtroppo scomparso alla fine delle
registrazioni di questo The Magpie Salute. In più possiamo aggiungere una delle voci di supporto,
Charity White, anche lei un tempo alla corte del gruppo di Atlanta, qui in
compagnia di John Hogg (ex Hookah Brown), Adrian Reju, Danielia Cotton e
Katrine Ottosen. Completano la band il batterista Joe Magistro, il tastierista
Matt Slocum ed un altro chitarrista, Nico Breciartua, un ensemble di dieci
persone, una band ad ampio raggio di azione come nella migliore tradizione del
sud ma disposta ad andare verso la psichedelia e la musica west-coast come testimoniano
alcuni brani che sanno di Crosby, Stills, Nash & Young. Ho dato ampio
spazio a loro su questo blog la scorsa estate, per cui non mi ripeto. Basta la
loro versione di Wiser Time dei Black
Crowes e Fearless dei Pink Floyd per
far capire a chiunque che se passassero dalle nostre parti il loro non è un
concerto da perdere.
Chi forse non ha ancora capito che Little Steven alias Miami Steve Van
Zandt è l'uomo dietro ai migliori dischi di Springsteen, quelli che hanno fatto
storia come Born To Run e The River, sono le migliaia di
accesi springsteeniani che hanno disertato i suoi concerti italiani dello
scorso anno. Poche migliaia di persone a Pistoia in luglio, due concerti
cancellati a dicembre. Eppure il suo show (in particolare quello milanese) è
stato tra i più divertenti e appaganti del 2017, uno spiegamento di forze, i Disciples of Soul, con tanto di coriste
e fiati (alcuni Jukes) tali da permettere una sfavillante carrellata di tutto
il soul e R&B americano, in particolare quello urbano della East Coast e
della blaxpointation. Una meraviglia, già ampiamente illustrata con uno dei
dischi a più alto tasso rock n' roll/soul/R&B dell'anno appena trascorso,
quel Soulfire
che regala alcune delle migliori canzoni firmate dal nostro e quel guitar meets horns che ha reso Little
Steven il vero inventore del Jersey Sound. C'è tanto di Southside Johnny con i
suoi Asbury Jukes ed un pizzico di Bruce Springsteen. Proprio da quest'ultimo
un disco così lo si aspetta da anni, fortuna vuole che lo ha realizzato il suo
braccio destro. Anche in questo caso trovate ampio resoconto nel pezzo scritto
a maggio su questo blog.
Gli italianissimi Gang ci hanno invece fatto ricordare chi siamo e da dove veniamo,
un canzoniere importante nato negli anni settanta di canzoni operaie e ispirate
dalla resistenza, canzoni di rivolta e canzoni di disagio, canzoni col
linguaggio del proletariato giovanile, canzoni di nuove esperienze e canzoni di
strada, canzoni contro e canzoni di speranza, è stato ripreso in mano dai fratelli
Severini che con l'aiuto del produttore Jono
Manson e di un nugolo di bravi musicisti, hanno riattualizzato attraverso
un arrembante folk-rock di deciso taglio americano offrendogli un rifugio nel
tempo e nella storia e riportandolo ai
giorni nostri. Calibro 77
è una simbiosi tra le voci del nuovo umanesimo e la matrice rock
e trova compimento nella personale interpretazione che i Gang offrono degli
undici titoli presi in considerazione, canzoni di Gaber, Guccini, De Andrè, De
Gregori, Ricky Gianco, Finardi, Claudio Lolli, Manfredi, Bennato, Pietrangeli e
Della Mea. Un disco assolutamente stimolante dal punto di vista musicale ed
importante dal punto di vista del contenuto, un attestato di memoria storica e
culturale al ritmo della musica folk e rock che ha il potere di farci credere
che non tutto è ancora perduto. E'stato il disco con cui si è aperto il 2017.
Un anno di ottimi dischi live, almeno tre hanno
fatto breccia nei miei ascolti, il potente Live From The Fox Oakland della Tedeschi-Trucks Band, ma a dire il vero
la scaletta dello show milanese dello scorso 19 maggio è risultata ancora più
sontuosa rispetto al live ufficiale, con le riprese di brani di George
Harrison, B.B King, Staple Singers, Derek and The Dominos e Alex Chilton, quel Greatest
Hits Live con cui Steve Winwood per
la prima volta nella sua lunga carriera passa in rassegna dal vivo tutti i
capitoli fondamentali della sua avventura artistica, e Sticky Fingers 2015 con
cui i Rolling Stones hanno riportato
sul palco del Fonda Theatre di Hollywood il loro celebre album del 1971. A
proposito di tale disco mi va di aggiungere, in controtendenza a quanti
reputano oggi gli Stones dei cadaveri, che il suddetto live, con un Ron Wood
assolutamente grandioso ed un Mick Jagger non da meno, è la dimostrazione di
quanto la band suoni oggi con scioltezza e libertà, molto meno condizionata
dall'apparato spettacolare e dall'immagine da offrire al pubblico. Non hanno
nulla da perdere se non il piacere di ritrovarsi di nuovo insieme a fare rock n'roll
su un palco, e lo fanno oltre che con mestiere, con divertimento e quella
passione che la fama e i soldi non hanno scalfito, e sebbene, considerato gli
anni, le sere non siano tutte al top questo Sticky Fingers 2015 è in
grado di farvi credere che il rock n'roll in mano a loro sia ancora roba
sporca, pericolosa e dannatamente eccitante.
Mi rimane da aggiungere alcune cose a margine. Se
vi piace il soul, Goin' Platinum di Robert Finley ha tutte le prerogative
per farvi divertire. Nato negli anni cinquanta a Bernice in Louisiana, Robert
Finley ad undici anni aveva già la chitarra in mano ma solo alla fine del 2016
è stato capace di pubblicare un album professionale, Age Don't Mean A Thing. E'
arrivato tardi ma ci è riuscito, dopo che per anni aveva cantato gospel in
chiesa e fatto il bandleader per la banda dell'esercito americano in Germania.
Naturale il passaggio nelle strade come busker ed un lavoro come carpentiere
per poter sbarcare il lunario. Music Maker, una organizzazione no profit che
aiuta i vecchi musicisti blues, lo ha scovato in una esibizione di strada in
Arkansas, costringendolo ad abbandonare l'attività di carpentiere per una
sopraggiunta cecità. E' stata la sua fortuna, il ritorno alla musica ha
significato un tour con Alabama Slim e Robert Lee Coleman, un disco col
produttore Bruce Watson e l'interessamento di Dan Auerbach dei Black Keys che,
dopo averlo sentito cantare, l'ha coinvolto nella soundtrack della graphic novel
Murder Ballads . Lo stesso Dan Auerbach, impressionato dalla sua
performance, ha deciso di produrgli il nuovo disco, appunto Goin'
Platinum! un lavoro che rivela Finley, erroneamente scambiato per
bluesman, come soulman vicino alle
tematiche e agli umori del southern soul. Auerbach oltre a produrre, ha
scritto, solo e con altri, il materiale del nuovo disco di Finley, una
performance vocale intensa e graffiante, una voce forte che rammenta in parte
quella di Wilson Pickett, magari meno urlata e più ancorata agli intrecci
stilistici del sud. Con lui sono un stuolo di musicisti e sessionmen di
prim'ordine, oltre alla chitarra di Dan Auerbach, c'è il piano e l'organo di
Bobby Wood (J.J Cale, Bobby Womack), in qualche brano la batteria di Gene Chrisman (Aretha Franklyn, Elvis
Presley, Dusty Springfield), il mitico Duane Eddy ci mette le corde della sua
chitarra in You Don't Have To Do Right e
la sezione fiati della Preservation Hall di New Orleans presenzia in toto. Alto, magro, cappellaccio, pantaloni di pelle
e stivali, Robert Finley è un voodoo man
che maneggia blues e soul con l'abilità
di uno stregone, un sopravvissuto ad un'era in cui la tecnologia non era
ancora padrona del mondo.
La dimostrazione che il blues attecchisce ad ogni
latitudine, anche le più fredde, viene dai Kaleo
un quartetto islandese che sa il fatto suo in quanto a grinta, attitudine rock e secche battute di blues. Ho
scoperto per caso il loro A/B, pubblicato nel 2016, ma vi
assicuro che se non fosse per un titolo cantato in lingua islandese, il resto
potrebbe appartenere alla nuova leva delle band californiane, The Shelters e
The Record Company in testa. JJ Julius Son è un ottimo cantante dalla voce
cattiva e gli altri picchiano che è un piacere, senza demordere un attimo ma aprendosi
quando il sole lo permette a ballate che evocano le bellezze del paesaggio
islandese, in senso lato. Una prova viene da All The Pretty Girls, da Vor
I Vaglaskogi e da Save Yourself. Trovare per credere.
Di taglio epico è Hudson un disco di confine
tra jazz, rock e musica sperimentale dove titoli che fanno parte dell'infinito
songbook del rock (ci sono canzoni di Dylan, Joni Mitchell, Hendrix, Robbie
Robertson) sono trattati in maniera del tutto eclettica da musicisti
eccezionali quali il batterista Jack
DeJohnette, il bassista Larry
Grenadier, il tastierista John
Medeski ed il chitarrista John
Scofield . Un supergruppo che avrebbe potuto esprimere chissà quali
virtuosismi e meraviglie e che invece si è concentrato sull'idea di una nazione
invisibile rimasta immutata nello spazio e nel tempo. Groove, sfumature blues,
atmosfere pastorali, una libertà espressiva molto jazzistica e naturale per
questo tributo alla Hudson Valley e a Woodstock, l'area, il festival, lo
spirito in generale. Grande sensibilità, grande musica.
E' tutto, buon
2018 a tutti.
MAURO
ZAMBELLINI GENNAIO 2018
3 commenti:
E come sempre ricorrerò a questo articolo. Mi servirà magari per tornare su quei dischi che distrattamente magari ho perso (Gregg Allman) o semplicemente ho rimandato ad anno nuovo perchè concentrato su altro. Grazie e buon anno Zambo!
Armando
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