Anche se non sono
realmente i magnifici sette di Tom Waits perché Rain Dogs e Mule Variations sono
lavori indimenticabili, i primi sette dischi di Tom Waits realizzati per la
Asylum, da Closing Time a Heartattack And Vine, ci ripropongono un artista che si è fatto conoscere come un
Bukowski lirico perso tra blues, jazz, alcol, sigarette, prostitute, balordi e
ubriachi sotto la luna. Il cuore del sabato sera su un asfalto umido di pioggia
e di piscio a Los Angeles, lercio e romantico, crudo e surreale, come lo
strampalato The Piano Has Been
Drinking, dolce e vizioso come il
triangolo d’oro consumato con Chuck E. Weiss e Rickie Lee Jones al Tropicana
Motor Hotel in quelle notti lunghe un sogno.
1973: Closing Time
Bisogna aspettare il 1973 per avere il primo album di Tom Waits, Closing Time, dopo che l’artista di
Pomona si era fatto conoscere in un club
di San Diego, The Heritage, esibendosi per pochi dollari a sera. Trasferitosi a
Los Angeles frequenta il tempio sacro dei songwriters della città, il Troubadour, presentandosi come folk-singer amante di Dylan e vecchi bluesmen. Alcune sue
composizioni del periodo finiscono nei suoi primi album, in particolare Ice Cream Man, Virginia Avenue, I Hope That I Don’t
Fall In Love With You e la fortunata Ol’55, registrata dagli Eagles. In una delle performance al Troubadour
viene notato da Herb Cohen, manager e discografico che gli fa registrare alcuni demo col
produttore Robert Duffey, anni più tardi
pubblicati nell’album The Early Years. Il colpo di fortuna avviene quando David Geffen lo sente cantare Grapefuit Moon nello stesso club, un mese
dopo sul tavolo c'è il contratto con la Asylum.
Waits viene affiancato dal produttore Jerry Yester, ex membro dei Lovin’
Spoonful e da un team di musicisti tra cui il batterista John Seiter, i
chitarristi Peter Klimes e Shep Cooke e il trombettista Tony Terran. Jerry
Yester lo indirizza verso un disco di
orientamento folk ma Tom Waits è alla ricerca di qualcosa più vicino al jazz e
così obbliga Yester ad ingaggiare il contrabbassista jazz Bill Plummer che però
nella registrazione finale di Closing Time sarà sostituito da Ami
Engilsson. Waits e Yester vogliono registrare di notte per tradurre meglio la
particolare atmosfera delle canzoni, non così lontane dallo stile crooner e da
certo blues pianistico ma le esigenze dello studio (Sunset Sound di Hollywood)
costringono i musicisti a lavorare secondo un canonico dalle 9 del mattino alle
5 di sera. In una decina di giorni il disco è pronto, anche se sono necessarie
ulteriori sedute al United Western Recordings per riarrangiare alcuni
brani. Jerry Yester ne è entusiasta, per
suo volere vengono aggiunte delle orchestrazioni in Martha e Grapefuit Moon, a marzo del 1973 Closing Time è nei negozi. Comparato
agli altri dischi di Waits, Closing Time è un disco fin troppo morbido ed educato, da songwriter classico,
melodie sofisticate create col pianoforte sono talvolta accompagnate da una
tromba così da rendere palpabile il feeling jazzy dell'artista. Le tinte
bluastre delle canzoni spargono una malinconia alla Randy Newman, il tono è
crepuscolare, la riconosciuta irriverenza dell'artista è ancora in embrione ed
affidata alla singhiozzante Ice Cream Man mentre Ol’55 e Old Shoes mettono strade e fughe in macchina nella poetica di Waits come
fossero scampoli lasciati dietro di sé da Springsteen.
1974: The Heart Of Saturday Night
Assieme ad Every Night About This Time di Dave Alvin questo è il miglior fotogramma della notte losangelena, un’ode ad
un’America di soldati e marinai, di infimi bar e locali dove si fa lo
striptease, di camionisti e puttane dal culo grosso che fanno gestacci alla
luna. Con la voce piena di tabacco e whiskey ma col cuore invaso da perdenti nemmeno troppo magnifici, Waits
canta “il cuore del sabato notte” biascicando e recitando i versi ritmicamente
contro basso e batteria in Diamonds On My Windshield e The Ghosts of Saturday Night. Tutto il disco trasuda di sudicio jazz da ora
tardi, sporco di macchie di vino rosso e di serenate che dondolano sotto i
lampioni come un ubriaco. E’ prosa sciolta e ritmata, per quel suo essere jazzy
senza possederne i cliché, più per l’umore che per le regole sonore, per la
florida immaginazione che sgorga dai solchi della notte, un turbinio emozionale
perso in una Oldsmobile che sfreccia lungo il viale cercando il cuore di una
città di vizio, peccato e miseria, un blues alcolico tenuto in piedi dal
contrabbasso nervoso di Jim Hugarth, dagli sporadici colpi di sassofono di Tom Scott e dalla tromba
di Oscar Brashear, sublime in Semi Suite, o dalla attenta e precisa batteria del povero Jim Gordon. E anche quando vengono
usati gli archi, voluti dal produttore Bones Howe, le melodie non sono mai sdolcinate ma mantengono quelle
sfumature di blu notte che imparentano questo album a In The Wee Small
Hours di Frank
Sinatra, due dischi analoghi anche nelle copertine. E poi c’è San Diego Serenade una ballata d’amore che
andrebbe fatta leggere nelle scuole al posto di Leopardi. Difficile non
rimanere incantati da The Heart Of Saturday Night, pur nel suo raccontare un’America di bassifondi e balordi. Fu il
primo di Tom Waits che comprai, al tempo mi sembrò una rivelazione, non avevo
mai sentito nessuno cantare e brontolare con così tanto sentimento e swing,
altri ne furono in seguito contagiati e seguirono questo sghembo Bukowski del
blues, mi vengono in mente A. J. Croce di That’s Me In The Bar, il Bocephus King di A Small Good Thing , un certo Tom Gruning in Midnight Lullabye e naturalmente l’amico Chuck E. Weiss.
1975: Nighthawks At The Diner
Per il terzo album Tom
Waits, aiutato dal produttore Bones Howe e dal manager Herb Cohen, allestisce
un set dal vivo in studio invitando un po’ di amici e mettendo come apertura
delle due serate (30 e 31 luglio 1975) lo striptease di Dewana, moglie di un taxista
che aveva conosciuto nel sottobosco metropolitano. Una trovata adatta per
introdurre settanta minuti di nuove canzoni dove le parti parlate sono più di
quelle cantate, due facciate di talkin’ blues scorbutico e a ruota libera ma
pure lirico e spiritoso, cartolina di
quel mondo notturno di bar, birra calda
e donne fredde da cui era uscito Tom Waits. Pare che Nighthawks At The Diner rimandi agli albori della sua carriera, quando
prima di diventare musicista sbarcava il lunario come lavapiatti in una tavola
calda e alla fine del turno di lavoro si piazzava al pianoforte del locale
raccontando storie divertenti, tristi e strampalate intrattenendo i nottambuli
che sempre in numero maggiore passavano ad ascoltarlo. Nighthawks at the Diner è un reading più che un concerto vero e proprio, ritmato da un
combo squisitamente jazz dove spiccano il contrabbassista Jim Hughart e il
batterista Bill Goodwin, già membro della band di Phil Woods, il
valente sassofonista Pete Christlieb e il pianoforte di Mike Melvoin, rinomato arrangiatore jazz. Waits è il
direttore d'orchestra, cantante, pianista ed in due brani anche chitarrista. Le
liriche d’amore del primo album qui sfumano nell’ironia di Better Off Without A Wife, un’ode ai vantaggi dell'essere single,
“ululare nelle notti di luna piena, dormire fino a mezzogiorno, andare a pesca
senza chiedere il permesso” e nel quadretto umoristico di Emotional Weather Report. Il locale è denso di fumo, tintinnano i
bicchieri, le risate sono grasse e Waits, sigaretta in bocca e voce roca è il
crooner scapigliato inghiottito dal racconto di Spare Parts, dai
sette e passa minuti di Putnam
County, dagli undici minuti di Nighthawk Postcards (From Easy Street) durante il quale offre la birra a quelli delle
prime fila, “tanto è gratis, salvo pagarla all’uscita”. Il suo reading
straccione, jazzato fino al midollo ha
gli scatti della prosa beat di Jack Kerouac e Tom
Waits è lo stralunato cantastorie di un diner aperto tutta la notte uscito da
un dipinto di Edward Hopper (stesso titolo). Scarno e ridotto all’osso ma
meravigliosamente folle. Per il suo carattere colloquiale al tempo della sua
pubblicazione l’album fu accolto piuttosto freddamente dal pubblico nostrano.
Da rivalutare.
La voce di Tom Waits si fa
ancora più roca in Small Change, un rantolo a cui le sigarette hanno regalato
il catrame per asfaltare (in seguito sarà un latrato), un blues che sposa Howlin’ Wolf e Louis Armstrong, Raymond Chandler e Charles Bukowski. Basta appoggiare la puntina su Tom Traubert’s Blues per essere catapultati in un mondo dove “i fuggiaschi sostengono
che le strade non sono più fatte per i sognatori ma per i sospetti di omicidio
e i fantasmi che vendono ricordi”. E’ una canzone colossale, il frutto di un
autore-poeta con un talento sovrumano, un pezzo il cui refrain è basato parola
per parola su un brano australiano del 1890, Waltzing Matilda di A.B “Banjo” Paterson, anche se Waits dirà che la canzone è
ispirata al suo incontro a Copenaghen con la cantante danese Mathilde Bondo. Il
brano stabilisce il tono del disco, dalle continue citazioni di Jitterburg Boy (Marilyn Monroe, Rocky Marciano, Minnesota
Fats, Louis Armstrong) alle taverne di I Wish I Was in New Orleans, dalla surreale The Piano Has Been Drinking ad Invitation To The Blues, dal fegato a pezzi e il cuore infranto di Bad Liver and Broken Heart alla delirante parodia dei locali per
striptease di Pasties & A
G-String dove “pasties" sono i lembi di stoffa per
coprire i capezzoli e “g-strings” i
perizoma usati dalle spogliarelliste nei loro spettacoli. Candido, marcio e
romantico allo stesso tempo, Small Change porta
alla visione di tutti le doti di scrittura di un autore originale ed unico nel
mondo del rock, capace di scovare i brillanti nella spazzatura e legittimare una fauna dei marciapiedi senza nessuna
necessità di salvezza. Pieno di alcol e a proprio agio con balordi, prostitute,
bari, spacciatori, pervertiti e altre frattaglie umane, a Waits non manca certo
l’umorismo, visionario in The
Piano Has Been Drinking,
sarcastico e autodistruttivo in Bad Liver and Broken Heart, e nemmeno l'ironia, come dimostra Step Right Up, uno scat sostenuto dal sassofono di Lew
Tabacking e dal contrabbasso del fedele Jim Hughart, su cui scrive : “Se volete
il testo della canzone spedite una foto e due mummolarie (?) morte, in busta
affrancata, col proprio indirizzo a Tropicana Motor Hotel, Hollywood,
California c/o Young Tom Waits”. Viene pubblicato nel 1976 ma siamo anni luce
da Hotel California. Indimenticabile la copertina con Waits
fotografato tra trucchi, spray e sigarette nel camerino della ballerina go-go
Cassandra Paterno meglio conosciuta come Elvira, la padrona della notte.
1977: Foreign Affairs
L'album si apre con una
struggente love song: “Muriel da quando hai lasciato la città i club hanno
chiuso i battenti e c'è un lampione in più sulla via principale laggiù dove
eravamo soliti passeggiare. Muriel frequento ancora gli stessi vecchi luoghi e
tu mi segui ovunque vada, Muriel ti immagino un sabato notte in una sala giochi, i capelli legati dietro la nuca e il diamante
che scintilla nei tuoi occhi, è l'unico anello nuziale che ti comprerò,
Muriel”. Immediatamente dopo, il romanticissimo duetto con Bette Midler in I Never Talk To The Strangers traccia le coordinate di un
album ancora più scarno e noir dei precedenti, un lavoro punteggiato dagli interventi del sax e della
tromba, unici punti di colore in un decor jazzistico in bianco e nero
contraddistinto dalla voce mai così malinconica di Waits, dal suo pianoforte e
dalla misurata sezione ritmica di Jim Hughart e Shelly Manne. Anche quando le dinamiche sembrano farsi più
marcate, ed è il caso della errabonda Jack & Neal, il cui titolo è un aperto riferimento a Jack
Kerouac e Neal Cassady di Sulla
strada, i suoni rimangono dentro le pareti di un nightclub ormai vuoto,
quando addirittura non scendono lacrime di commozione nella toccante A Sight for Sore Eyes, degna compagnia della Carmelita di Warren Zevon. Il mistery cinematografico si fa strada in Potters’ Field, forte di un assolo di clarinetto da parte di Gene Cipriano, un cimitero dei poveri reso ancora più tetro
dagli arrangiamenti orchestrali e dal parlottare cupo e allucinato di
Waits. Anticipa la grande drammaticità
del finale di Burma Shave e il pezzo più imprevedibile del disco, il
beat-jazz di Barber Shop. L’idea generale del disco è proprio quella di un
film noir in b/n degli anni cinquanta e la copertina, opera del
fotografo-ritrattista George Hurrell, ne sottolinea lo stile. Waits è abbracciato nella penombra con
Marsheila Cockrel, cassiera del Troubadour, la cui mano mostra anelli, una
sigaretta ed un passaporto. La notte è regina e il crimine dietro l’angolo ma
Tom Waits da istrione quale è sdrammatizza: “La mia identificazione con il
poeta della notte? se vuoi sapere qualcosa a proposito della notte, appunto,
chiedi a un poliziotto, a un paramedico, a un vigile del fuoco, ad un commesso
del turno di notte, ad un ragazzo che consegna i giornali, ad un barista, una
cameriera, il proprietario di un club. Loro sapranno dirti qualcosa. Chiedi a
quelli che tolgono di mezzo i tuoi rifiuti. Oppure chiedi a quelli che tolgono
di mezzo te”.
1978: Blue Valentine
Il percorso di Tom Waits da
Closing Time fino ad Heartattack And Vine è di una naturalezza sorprendente, ogni disco, compreso il finto
live, è un piccolo scatto in avanti nel
rappresentare un sottobosco che è l’America notturna e marginale, beona e
vagabonda, malavitosa e sentimentale delle sue arruffate ballate, un’America di
terz’ordine rievocata con vivido realismo e trasfigurazione a volte un po’
compiaciuta in canzoni di fangosa dolcezza e di swingante brutalità, che
attingono al jazz, al blues luciferino di Howlin’ Wolf e Screamin’ Jay Hawkins,
alla canzone americana più classica (Gershwin, Hoagy Carmichael, Frank Sinatra,
Cole Porter), ai romanzi dell’hard-boiled californiano e agli scrittori della
beat generation. Ma se è concesso indicare un punto climax di tale percorso
questo è Blue Valentine, per chi scrive uno dei tre capolavori di tutta
l'odissea waitsiana, assieme a Rain Dogs e Mule Variations. Bones Howe continua ad essere il produttore e
la musica rimane un condensato di jazz e blues con il pianoforte e talvolta
l'organo in evidenza anche se si affacciano le chitarre a svantaggio di sassofono
e orchestra, ma la west side story qui assume toni epici. Un piccolo Cesare è
sorpreso a scassinare una gioielleria (Red Shoes By The Drugstore), una ragazza scappata di casa incontra un tipo poco
raccomandabile ed il dramma incombe ($29), il leader di una gang
messicana dopo aver fatto fuori a coltellate uno sceriffo che gli ha ucciso il
fratello va a morire in un cinema dove proiettano un gangster movie con James
Cagney. Sgorga il sangue in una boheme al neon che Waits canta con spietato
realismo, quasi fosse un bisogno esistenziale. Squallidi alberghetti (A Sweet Little Bullet From a Pretty Blue
Gun), ghetti disastrati (Kentucky Avenue), paesaggi di una periferia senza speranza,
amori pieni di rimorsi (la magnifica Blue Valentine), fughe
senza fine e la bellissima Christmas
Card from a Hooker in Mineapolis dove una puttana scrive dalla galera ad una sua vecchia fiamma
inventandosi una vita normale senza alcol e droga, sposata con un suonatore di
trombone, ma finendo con l’ammettere che ciò che gli serve sono i soldi per un
avvocato che la faccia uscire il giorno di San Valentino, ostentano una
solitudine che raramente il rock ha cantato con così tanta poesia e sentimento.
Sublime, come il retro-copertina dove l’artista amoreggia in modo poco canonico
con la sua musa del momento, Rickie Lee Jones.
1980: Heartattack And Vine
I primi sostanziali
cambiamenti di quello che sarà il Tom Waits post-Asylum si manifestano in Heartattack And Vine, un disco più incline al rock rispetto ai
precedenti dove Waits suona prevalentemente la chitarra elettrica. Ancora
prodotto da Bones Howe, orchestrato da Jerry Yester e registrato ad Hollywood,
l’artista di Pomona fa appello ad un team di musicisti più ampio rispetto al
passato, c'è il batterista della band
che lo segue on the road, Big
John Thomassie di New Orleans, già con
Freddie King, Dr. John e Bonnie Bramlett, c’è Ronnie Baron al piano
e all'organo, anche lui di New Orleans, c'è Larry Taylor, ex Canned
Heat, al basso e il chitarrista Roland Bautista. Dice Waits: “Lui è
cresciuto in Slauson Avenue, e per me ciò basta e avanza”. Il risultato è un
disco che perde in eleganza jazzistica e acquista in ruggine rock/blues, la
voce è meno incatramata ma le canzoni sono superbe, specie ballate come Jersey Girl entrata a piena ragione nei live show di Bruce Springsteen, come la drammatica On The Nickel in cui Waits duetta con se stesso assumendo un
tono rauco e cavernoso in contrasto a pause dolci e melodiche, come la triste Ruby’s Arms usata da Jean Luc Goddard nel suo film First Name: Carmen. La svolta è nell’aria, come disse all’epoca Tom
Waits: “Ho smesso di fumare durante la registrazione del disco, forse il
miglioramento della mia voce ha qualcosa a che vedere con quello. Ho provato a
raggiungere un qualche livello di igiene personale e credo che il disco ne
abbia risentito. Ho solo provato a darmi una ripulita, un po’, penso che aiuti,
bevo solo vino, adesso, il mio preferito è lo chablis Carlo Rossi”. Non solo
ballate, ci sono diverse tracce dal marcato sostegno ritmico che fanno
presagire lo sferragliare metallurgico di un prossimo futuro, la canzone che dà
il titolo all'album è un crudo rock/blues ripreso da uno dei suoi idoli, Screamin’ Jay Hawkins, Til The Money Runs Out apre la seconda facciata allo stesso modo e Downtown è un cadente jazz-blues giocato sul contrasto
tra la chitarra elettrica di Waits ed il pregnante Hammond alla Jimmy Smith di
Ronnie Barron. Ha detto Waits di Heartattack And Vine: “Come songwriter, passi attraverso stagioni
diverse. Arrivato a questo punto, stavo imparando a scrivere più velocemente.
Di solito, ero abituato a rimuginare sulle canzoni per mesi e mesi, la
scrittura di Heartattack And Vine è stata molto più spontanea. E, per la prima
volta ho lasciato che il batterista usasse le bacchette, invece delle spazzole.
Intendo dire che continuavo a sentire tutto con il contrabbasso, una tromba con
la sordina o il sassofono tenore, avevo una panorama musicale limitata, così ho
voluto allargare un po’. Penso di aver compiuto un salto di livello ed è un
processo ancora in corso". Pubblicato nel 1980 Heartattack And Vine è il disco che vende di più negli Stati Uniti
prima di Mule Variations e chiude stilisticamente il primo ciclo di Tom
Waits. Il seguente Swordfishtrombones farà da spartiacque tra il suo periodo
romantico, le suggestioni mitteleuropee e le conseguenti sonorità sperimentali
dei dischi che arriveranno dopo.
MAURO ZAMBELLINI
6 commenti:
Tutti in vinile ed una magnifica scoperta per me negli anni di formazione leggendo le recensioni sul Mucchio. Grazie anche a chi ci ha lavorato su quelle pagine. Una bella retrospettiva per non dimenticare...thanks !
Si è vero, i vinili oggi costano un occhio della testa. Personalmente non li compro più anche perchè mi manca lo spazio dove collocarli. Tutti i vecchi dischi sono in due grosse scatole di cartone e quando ho voglia di rimetterli sul piatto è li che vado. Sul finire dei settanta ed anche in seguito per fortuna molti sono finiti in NICE PRICE e soprattutto sul versante blues e jazz si è riusciti a prenderne un bel pò...ma come te anche io per quelli di Waits e non solo quelli ho dovuto tirare fuori un bel pò di lire.
Armando se facessi il conto di vinile cd e ...concerti mi compravo la casa al mare.......
l'unica cosa positiva oggi e' che i cd costano poco. Peccato che i giovani non li comprano (io ho 54 anni) ed entro breve anche i cd non li stamperanno piu'. I dischi in vinile li ho venduti per ..mancanza di spazio (sob) e anche di cd ne ho venduti parecchi perché ero un consumatore seriale.
Vivo di ristampe ma onestamente non so ancora per quanto. Mi rendo conto che sto comprando certi dischi all'infinito. Ma in giro non vedo nulla di interessante. E questo mi sembra un problema comune.
Abbiamo la stessa età o quasi (sono del '64) e quello che scrivi è un sentire comune. E' vero ed è triste constatare che tutto quello che ci ha affascinato e coinvolto, oggi quasi non abbia più presa sulle nuove generazioni tranne pochi casi. E' vero... i cd sono più alla portata delle nostre tasche ma diventa sempre più difficile trovargli un posto tra gli scaffali e pochi sono quelli degni di nota che resistono al tempo. A volte ho la sensazione che incosciamente si voglia rivivere i "glory days" delle stagioni passate perchè magari si ha paura che prima o poi tutto questo possa finire. Ma ad ogni modo si va avanti e la speranza che dietro l'angolo ci sia ancora qualcosa di valido non mi abbandona nonostante tutto . Poi rimane questo spazio,un angolo sulla rete che sa parlare ancora con il cuore e l'anima. Abbracci...
Armando
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