Anche questa
volta ce l'hanno fatto, nonostante i tagli, le limitazioni, i ritardi, quelli
di Progetto Evoluzione sono riusciti a portare in porto la ventitreesima
edizione di Narcao Blues. Quattro serate, da mercoledì 21 a sabato 24 agosto,
hanno convogliato nella Piazza Europa di Narcao, centinaia di persone accorse
da tutta la Sardegna a festeggiare uno degli eventi storici del blues in
Italia. Proposta artistica varia con serate che hanno fatto storia a sé, un
programma che si è differenziato sera dopo sera proponendo nomi collaudati e
meno, radici afro-blues e rock-blues,
r&b di stampo retrò e roots-rock, soul, funky e contaminazioni col
rap, l'edizione di quest'anno ha brillato particolarmente, superando per interesse e ampiezza di vedute quella
dello scorso anno.
Hanno
cominciato i francesi Scarecrow
animando la prima serata del festival con un ardito e spigoloso rap-blues costruito sulle nervose linee
chitarristiche di Slim Paul, voce blues della band e sullo scratching di
Antribiotik Daw, felpa con cappuccio e voce hip-hop dell'ensemble, il quale
rispondeva al drumming di Le Papa's e al basso di Jamo creando un ritmo ossessivo e
martellante. Daw rappa, Slim Paul mantiene i legami col blues, per quaranta
minuti reggono bene e incuriosiscono, poi diventano ripetitivi anche se il
pubblico giovane li apprezza e li richiede sul palco per l'encore. Prima di
loro, sul versante opposto, Baba Sissoko
ha trasformato la piazza di Narcao in un villaggio africano riportando la
semplicità delle origini con un afro-blues sincopato ed ipnotico. Cinque i
musicisti coinvolti ( Mali, Senegal, Costa d'Avorio) in questo viaggio a
ritroso con strumenti tradizionali a percussione, a corda e a fiato, come il
tamani, suonato dallo stesso Sissoko, djembe, congas, kamalengoni, ngoni, oltre
naturalmente al corredo classico di chitarra, basso e batteria. La loro musica è fortemente influenzata dall'amadran,
una struttura ripetitiva ed ipnotica propria del Mali, che sbarcato in America
in seguito alla deportazione degli schiavi ha contribuito a generare il blues.
Baba Sissoko ed il suo afro-blues coinvolgono, divertono, illuminano, specie
quando si tengono a debita distanza dagli stereotipi della musica africana e,
grazie al funambolismo del percussionista Ady Thioune e alla simpatia di Baba,
comunicano una musica gioiosa e solare.
Di diversa
impronta la serata seguente, tutta all'insegna del blues-rock. Apre Ian Siegal, chitarrista e cantante
inglese con un buon curriculum alle spalle (l'ultimo suo album Candy
Store Kid è stato registrato con i North Mississippi Allstar)
coadiuvato dalla band triestina di Mike
Sponza, un classico basso (Mauro Tolot), chitarra (Sponza), batteria (Moreno
Buttinar). Cappellaccio e stivali da cowboy, tatuaggi sul braccio, gilet nero e
t-shirt scollata, Stratocaster scorticata dall'usura, Ian Siegal sembra uscito
dal rovente Texas piuttosto che dall'umida Inghilterra. Il suo è un sound
tipicamente americano che mischia blues, rock e roots e regala storie di
confine e fremiti da strade impolverate.
L'inizio è da antologia, una viscerale Bo Diddley apre le danze prima
di una memorabile e jammata versione di Stop Breaking Down dei Rolling Stones.
Siegal canta sporco e devastato, è un guitar hero delle bettole blues, il suo
set è sulfureo e ruvido, la band di Sponza lo asseconda bene, lasciano da parte
Chicago per immettersi nelle strade che portano a sud. Quando sale sul palco il
sassofonista Jimmy Carpenter dei Roadmasters di Walter Wolfman Washington il
set diventa ancora più torrido. In Nadine
di Chuck Berry gli Stones early-seventies sembrano lì a pochi passi dalla
band, quando Siegal riprende Back Door
Man Siegal latra come Howlin' Wolf, poi c'è un lungo ed intenso omaggio a R.L Burnside e a tutti i
santi dei juke joint del North Hills Mississippi Blues, chiude con una
sentita Forever Young uno show rockato ed eccitante. Di tutt'altro tenore
la Henrik Freischlader Band, nome da
birra per un quartetto tedesco, c'è anche l'organo Hammond , tutto muscoli e
assoli, che sta facendo parlare di sé in Europa dopo essere stata nominata ai
British Blues Awards. Se lo show di Siegal era viscerale, sporco, sudato,
magari imperfetto, questo è scintillante, spettacolare, perfetto. Alla maggior
parte del pubblico presente piacciono gli assoli torcibudella del leader, le
pose macho-rock del bassista Alex Grube, i continui rimandi ai riff
hendrixiani, l'alternanza tra un blues ferocemente chitarristico di vecchia
scuola e le ballate mainstream che sanno di Gary Moore. Piacciono per quello
stile ridondante che oggi miete consensi con Joe Bonamassa e John Mayer, lancinanti negli assoli, potenti ed elettrici
e dotati di appeal commerciale. Bello l'omaggio a Peter Green con Man of
The World, applauditissime Crosstown
Traffic di Hendrix ed il finale di Come
Together dei Beatles. In mezzo c'è tutto il loro repertorio, spiegato al
meglio. Divise a metà le opinioni a fine serata, chi ha preferito Ian Siegel e
chi i giovani e bellocci teutonici. La differenza si può sintetizzare così: Ian
Siegal ha suonato una caustica e sporca Stop
Breaking Down degli Stones di Exile, mica bruscolini, Henrik
Freischlader Band ha mandato in giuggiole ragazze e ragazzi di ogni età con Come Together dei Beatles. Un abisso,
due mondi diversi, ad ognuno la sua scelta.
Il blues
classico è il protagonista di venerdì 23. Lakeetra
Knowles è una stupenda ragazza di colore dalla siluette sottile, il sorriso
dolce e la pettinatura afro, che assomiglia ad una giovane Roberta Flack con un
tocco di Lola Falana. Canta con raffinatezza, non alza mai il tiro, tradendo un
po' le sue origini black, è piuttosto timida, la supportano i Chemako ovvero il chitarrista
Gianfranco Scala, il bassista Mario Spampinato, il tastierista Matteo Carella
ed il batterista Stefano Bertolotti. Il set è dignitoso, prevalgono i toni
morbidi e melodici del soul ma ci sono brani che si spingono oltre come Old Man di Neil Young, It Ain't Easy di Betty Lavette, I Don't
Need No Doctor di Ray Charles. Cita
Susan Tedeschi e Muddy Waters, i Chemako sono diligenti, l'esibizione ha una
accelerazione quando entra in scena Maurizio Glielmo detto Gnola, il quale
regala un assolo alla carta vetrata in Rollin'
and Tumblin'.
Si può
essere o meno in sintonia col suo blues aperto al funky ma è indubbio che Walter Wolfman Washington di New
Orleans con la chitarra è un maestro. Con lo strumento fa ciò che vuole,
virtuoso e caldo al tempo stesso, canta con malizia e mestiere, spazia da
Johnny Guitar Watson (You Can Stay) a
Otis Redding. da Bobby Blue Bland (Share
Your Love With Me) a Tyrone Davis (Can
I Change My Mind), dal blues al funky, dal soul al R&B di New Orleans.
Il suo stile occhieggia più a James Brown che al Delta e i Roadmasters sanno
come attraversare con naturalezza e padronanza i vari linguaggi del leader.
Scioltezza, tecnica, affiatamento, Jack Cruz al basso e Wayne Maureau alla
batteria sono una oliata macchina ritmica, la sezione fiati è un'orchestra,
Jimmy Carpenter bianco al sax e Antonio Gambrell nero alla tromba, non hanno
segreti, suonano come se stessero festeggiando un compleanno, magari sono un
po' risaputi ma eccellenti, disinvolti, divertenti. Alla fine la piazza è tutta
per loro e il lupo mannaro Washington la ripaga con altra musica, altro blues,
altro funky.
Attendevo
con curiosità il primo concerto italiano di James Hunter arrivato a Narcao con la sua band (J.H Six), dopo le
ottime recensioni ricevute a livello internazionale dal suo ultimo disco, Minute
By Minute. L'attesa non è andata delusa, James Hunter è un cantante che
fa del soul retrò, una miscela di suoni Stax, southern soul di casa Fame, il
Marvin Gaye degli esordi, rock n'roll anni cinquanta, rocksteady, qualche colpo
del primo Van Morrison coi Them, frammenti di Sam Cooke e fugaci stacchi alla
James Brown. E' inglese e ciò è una
anomalia perché a parte le iniezioni di rocksteady tutto suona americano
nel suo set, composto da una lunga sequenza di canzoni di due minuti circa,
tutte piuttosto identiche. Non c'è blues, solo un rigoroso soul/R&B di
taglio vintage, cantato con la foga dello shouter, senza nessuna sbavatura di
sorta, un copione fedele ai cliché del genere, roba da archivio degli anni
cinquanta e sessanta. Anche in scena James Hunter appare come una apparizione
del passato, è tarchiato, porta giacca e pantaloni neri comprati al mercato delle
pulci, camicia chiara con collettone che
straborda sul reverse della giacca, capelli ricci e corti, faccia sudata e
sorridente di chi è appena uscito dal pub dopo aver passato il pomeriggio a
giocare a freccette e bere birra. Sembra la versione bianca di Jackie Wilson, e
questo è l'accostamento più pertinente, strimpella la Gibson, è vivace,
nervoso, scattante, padroneggia un genere che nessuno fa più e lui lo ripete
con rigore, onestà, feeling. La band è a
sua immagine e somiglianza ovvero strumenti e suoni presi da vinili del
1958-1962. Andrew Kingslow all'Hammond è
un piccolo Booker T, magnifico, Jason Wilson è il contrabbassista che ci vuole,
Jonathan Lee alla batteria è ineccepibile e Damian Hand col tenore e James
Knight col baritono sono due sassofonisti usciti dallo studio in cui venne
registrato Reet Petite, 1962. In scena vanno i brani di Minute By Minute, ovvero Chicken Switch, One Way Love, Let The Monkey
Ride, The Gypsy, Drop On Me, Minute By Minute, Look Out, la cover di Baby Don't Do It e rimasugli dei precedenti album come Carina, Believe Me Baby, She's Got A Way,
Jacqueline, Talking 'Bout My Love con cui si conclude lo show. All'inizio
il pubblico è un po' perplesso nel trovarsi di fronte un set così ancorato al
passato, sebbene il sound sia perfettamente in sintonia con la mode vintage ma
poi, contagiato dal brio di Hunter e da canzoni che ritmicamente non lasciano
scampo, si lascia coinvolgere e alla fine tutti ballano come fosse un concerto
di James Brown. E' il set che con gusto
ed eleganza chiude il festival, una sala da ballo con musica di prima qualità.
Prima di James Hunter Six si erano esibiti i Mandolin' Brothers col loro roots-rock infarcito di strade blu.
Hanno ricevuto applausi a scena aperta e se li sono meritati, richiesta di bis
per una band che è progredita parecchio (era diverso tempo che non li vedevo)
con Jimmy Ragazzon in piena forma nel regalare con voce e armonica suggestioni
dylaniane attraverso i titoli del suo songwriting (Scarlet, Saigon, Still Got Dreams, Insane) e la band (le due
chitarre di Marco Rovino e Paolo Canevari, la fisarmonica e le tastiere di
Riccardo Maccabruni, la sezione ritmica di Daniele Negro e Joe Barreca) a
mostrare versatilità nel passare dalle rasoiate di Copperhead Road alle medley
blues, dai fraseggi roots di mandolino e fisarmonica alla cavalcata psichedelica di Almost Cut My Hair, versione da paura, fino alla sensuale e festosa caciara sudista di Iko Iko e Dixie Chicken con
cui hanno chiuso un concerto molto apprezzato.
MAURO ZAMBELLINI
Le foto sono di GIANFILIPPO MASSERANO
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