venerdì 20 giugno 2025

BRUCE SPRINGSTEEN LOST AND FOUND 1983-2018



 



 

Esattamente quaranta anni fa, nel giorno del solstizio d’estate, il 21 giugno 1985 sbarcava per la prima volta in Italia Bruce Springsteen con la sua E-Street Band, fu un concerto leggendario che diede il via ad un culto che si è protratto nelle decadi successive assumendo in qualche caso contorni se non di fanatismo almeno di fede. Di anni, di storia, di musica e concerti ne sono passati da quel giorno, oggi Springsteen è una star che non ha paura di dire ciò che pensa ma che, comprensibilmente, per via dell’età ha perso quell’aura eroica che aveva a quel tempo. Poco male, saperlo ancora sui palchi di mezzo mondo a cantare le sue canzoni e suonare rock con la sua band è un inno alla vita e alla resistenza, considerate poi le morti che hanno funestato il suo entourage, musicisti, amici, collaboratori e tutto il resto. Quaranta anni dopo, quasi in contemporanea, esce un box che raccoglie alcune canzoni che in molti conoscono per essere entrate nelle scalette di molti concerti e nei bootleg che sono circolati negli anni, ma anche degli interi album inediti che Springsteen ha tenuto nel cassetto ed in qualche caso avrebbero ampliato la sua discografia ufficiale di aspetti diversi rispetto all’usuale, consolidato e riconoscibile formato del suo rock n’roll. Quella che segue è una disamina dei sette CD che compongono Lost&Found 1983-2018.



Sette CD diversi l’uno dall’altro, si parte con antiche session del 1983 per arrivare a registrazioni di qualche anno fa, impossibile quindi dare un giudizio d’insieme del materiale qui in questione se non addentrandosi nei singoli dischi perché il raggio d’azione si estende dalle cantine al deserto, dal ribelle rockabilly al crooner in astinenza d’amore, da Philadelphia alla California, dal suono E-Street Band a ridondanti sinfonie di tastiere. Qui c’è lo Springsteen parallelo e nascosto che ha accompagnato la sua discografia ufficiale con composizioni ancora incomplete e altre che avrebbero meritato la pubblicazione, non tutto ciò che Tracks II propone è memorabile ma se vi interessa il caro vecchio  rock n’roll andate da qualche parte a Nord di Nashville, lì c’è qualcosa che  ancora fa vibrare i sensi.

Non entro nel merito dell’operazione commerciale, per il sottoscritto il costo di questo box è poco giustificabile, mi limito ad analizzare il contenuto, una selezione di sette album perduti e ritrovati, per la maggior parte registrati in studi casalinghi, spesso in solitario o con l’unico aiuto del produttore Ron Aniello. Si va dalle session del lontano 1983 risalenti al periodo intercorso tra la pubblicazione di Nebrsaka e Born In The Usa fino al recente 2018 con le dieci canzoni di Perfect World  passando per le registrazioni che accompagnarono l’uscita di Streets of Philadelphia servita per l’omonimo film di Jonathan Demme , una fantomatica colonna sonora, Faithless, per un film mai uscito ed una sorta di racconto in canzoni sul border intitolato Inyo. Ma ci sono anche i brani raccolti per Somewhere North of Nashville ispirati al country e al rockabilly e Twilight Hours presumibilmente registrato a ridosso di Western Stars. Non valgono i confronti col precedente volume di Tracks pubblicato nel 1998 che rispettava un ordine cronologico preciso, da Mary Queen of Arkansas del 1972 fino a Brothers Under The Bridge nel 1995, le epoche dei due box sono diverse, così come diverso è l’artista Bruce Springsteen, per età, motivazioni e ispirazione, e pure il mondo della musica ( e non solo quello) è cambiato. Tracks II raccatta cose molto diverse tra loro rivelando un processo creativo non lineare e altalenante, ci sono idee, ricerche, scarti, prove, abbozzi, cose non finite, il tutto all’insegna di un’ inquietudine artistica (probabilmente anche esistenziale) che ha portato l’autore in territori del tutto diversi tra loro e di cui solo ora, con questi 7CD, se ne ha piena conoscenza, almeno per la grande maggioranza degli ascoltatori. Non mancano titoli già noti, soprattutto nel caso del primo CD del box ovvero LA Garage Session ’83, canzoni apparse sia nei tour, sia nei bootleg che nelle B side dei singoli pubblicati all’epoca. Ne sono esempio Follow That Dream, titolo fino troppo noto per gli amanti di Elvis e del Boss, la bellissima Shut Out The Light, qui offerta in una versione da brivido, scarna e sofferente, col controcanto femminile, leggermente diversa da quella inserita nel precedente Tracks, Johnny Bye Bye scritta in onore di Presley, presentata più volte nei tour di The River e BITUSA, e poi Sugarland espressione della sensibilità dell’autore nei confronti dell’America rurale e contadina, e una meravigliosa County Fair  che tratteggia un ipotetico ponte tra la livida atmosfera di Nebraska ed il suono più ampio dell’album seguente. C’è pure il prototipo di My Hometown, ancora più delicata e con una voce tentennante che non ne scalfisce l’intimità. Il primo CD del box, diviso tra il sound scarno e minimale del suo album acustico e alcune aperture immediatamente seguenti, non ospita comunque l’agognato Nebraska elettrico ma brani come Fugitive’s Dream (ripresa in due versioni) che sarebbero diventati canzoni con altri titoli, oppure Black Mountain Ballad la cui linea melodica ricorda vagamente Mansion on the Hill con l’armonica finale che aggiunge un dolce sapore western. La stessa armonica introduce Jim Deer, incrocio di Woody Guthrie e il Dylan degli esordi pur con il forte impatto che Springsteen sa creare quando canta il folk. L’amore per il country emerge nella scoppiettante Don’t Back Down On Our Love mentre più spiazzanti sono The Klansman e One Love il cui drive ritmico appartiene agli anni ottanta di Cure e Feelies, un segnale dell’attenzione di Springsteen verso suoni diversi dal suo. Al polo opposto Richfield Whistle ci riporta grazie al mandolino e all’arpeggio di chitarre acustiche negli umori in bianco e nero di Nebraska. Alla luce di quanto qui riportato mi permetto di affermare che il menù scelto per gli originali Nebraska e BITUSA sia stato il più azzeccato, fermo restando che escludere Shut Out The Light  per chi scrive rimane inspiegabile.

La scelta di Blind Spot come primo brano da far girare in rete per anticipare l’uscita di Tracks II riassume il mood dominante delle Streets of Philadelphia Sessions. E’ una canzone, che come afferma l’autore, esplora i dubbi e i tradimenti in una relazione d’amore, tema caro in quel periodo a Springsteen anche se con Patti Scialfa stava vivendo un periodo particolarmente felice in California. “ Ma se a volte chiudi quei pensieri in una canzone, poi questa ti segue e si infila dentro. Avevo Blind Spot e ho seguito quel filo del discorso per il resto del disco”. Registrate a ridosso dell’uscita del film di Jonathan Demme tra il 1993 e il 1994, le canzoni di quelle sedute rispecchiano il sound di musica contemporanea anni novanta con loop, sintetizzatori e una ritmica hip hop di matrice West Coast. Bruce aveva cominciato a scrivere la canzone per il film di Demme pensando a qualcosa di rock ma si trovò in difficolta nel far combaciare le liriche con la musica pensata, per cui si mise a cincischiare  con il sintetizzatore suonando sopra un beat di derivazione hip-hop. Programmò i loop con una drum machine nella sua casa di Los Angeles intuendo come fossero necessari accordi in tonalità minore per quelle canzoni; poi l’ingegnere Toby Scott rimise a posto la base ritmica su cui innestare tastiere di vario genere. Nelle stesse session fu registrata Secret Garden, un brano dalle sfumature erotiche incentrato sui misteri che permangono tra i partner all’intero di una relazione anche quando questa è consolidata nel tempo, e come Blind Spot rappresenta il cuore di quel disco del 1994 mai pubblicato. Con Springsteen lavorarono la moglie Patti Scialfa, Soozie Tyrell e Lisa Lowell, le session completate e mixate furono pronte per la primavera del 1995 prima che Bruce rimettesse insieme, dopo sette anni, la band. “Quelle sedute mi sono rimaste nel cuore e mi sono sempre promesso di farle uscire prima o poi”. Se ne capisce la ragione perché pur accettando il generale mood sinfonico orchestrato con le tastiere, di ottime canzoni ce n’è più di una a cominciare dalla bella e intensa Something In The Well, da One Beautiful Morning, rockata e carica di pathos, dall’intimistica Between Heaven and Heart  sussurrata come una ninna nanna, dalla stessa Secret Garden pubblicata a suo tempo come singolo e da Farewell Party, una di quelle ballate dal senso  epico che nobilitano il lirismo del suo songbook. Dieci tracce con una malinconia di fondo dettata  dallo stato d’animo di Bruce in quel periodo, discograficamente parlando un coraggioso cambio di stile  in anni contrassegnati da repentini cambi di direzione, prima lo scioglimento della band, poi l’approccio verso il discutibile pop-soul losengelino di Human Touch e successivamente l’affondo sociopolitico minimalista di Tom Joad. Quel mood sinfonico presentò uno Springsteen diverso che a molti non piacque ma fu una necessaria tappa di passaggio verso il ripristino dell’ E Street Band sound, cosa che fece di lì a poco col Tour della riunione.

Faithless è il titolo di una soundtrack composta da undici tracce per un film mai uscito, un western spirituale come lo ha definito lo stesso autore sulle intenzioni, il credo e l’accettazione. Registrato tra la fine del Devils & Dust Tour nel novembre del 2005 e la pubblicazione di We Shall Overcome, è la visione di Springsteen della spiritualità nella mitologia del West americano, una collezione di canzoni e frammenti sonori composti nel giro di due settimane finalizzati a tradurre l’atmosfera del film. Per quel lavoro fu aiutato dal produttore Ron Aniello, Soozie Tyrell e Lisa Lowell, Curtis Knight Jr., Michelle Moore e Ada Dyer ma ci furono anche contributi da parte della moglie e di Evan e Sam Springsteen. Alcune tracce sono puramente strumentali, spadroneggiano armoniche e violini e un’aria tipicamente western in un contesto di folk desertico. Si respira la desolazione di Tom Joad pur con qualche gagliardo colpo in avanti nello spirito delle Seeger Sessions, lo testimoniano tracce come All Gods Children, uno spiritual cantato con voce rabbiosa alimentato da un coro da Chiesa Battista e il gospel Let Me Ride, mentre nell’accorata e pianistica God Sent You e nel tema di My Master’s Hand divisa tra preghiera ed echi messicani, emerge un afflato religioso. Going To California preserva il fascino dei viaggi on the road e Where You Going Where You From si perde nel grande mistero della vita con una preghiera benedetta dal delicato coro femminile. Visionario e spirituale Faithless rimane la soundtrack di un film mai visto come si conviene a una ghost story del deserto.

L’amore mai nascosto per la musica country a cominciare da Hank Williams e Johnny Cash ha costituito una parte dell’educazione musicale di Springsteen manifestandosi dapprima in episodi isolati e poi emersa significativa in età adulta. Avvisaglie erano alcune B side del periodo The River, l’ambientazione nella profonda provincia di Nebraska, l’eredità tradizionale su cui fu impiantato diverso materiale di Seeger Session, i paesaggi persi nel nulla di Devils & Dust  fino alla consacrazione estetica di un West  cinematografico in Western Stars, più una cartolina che un sentito approccio ai codici stilistici del genere. Con le canzoni di Somewhere North of Nashville si entra in un universo profondamente americano ma non dalla porta principale, piuttosto, come suggerisce il titolo della strepitosa Poor Side of Town, dalla porta di servizio. Tutto il fascino del country quando si impolvera di perdenti e outsiders, l’eccitante ritmo del rockablly, le calde pulsazioni dell’ honky-tonk e l’eco dello western swing texano ma senza la coreografia hollywoodiana delle stelle dell’Ovest, solo belle canzoni, a volte commoventi, il suono asciutto delle radici, qualche colpo d’armonica, una produzione mirata all’essenziale, le storie e i motel delle Blue Highway e delle Silver Mountain, una malinconia che è più una carezza che un abbandono. Fosse uscito al tempo un tale disco avrebbe accontentato pubblico e critica per il tiro rock n’roll, i personaggi e la credibilità delle storie, la grinta di Bruce e la sua sensualità come si evince nella dolce You’re Gomma Miss You When I’m Gone, la sincera condivisione con quel mondo. Fu realizzato non a caso simultaneamente a The Ghost of Tom Joad nell’estate del 1995 con Danny Federici, Garry Tallent e Gary Mallaber, Soozy Tyrell e il tocco sopraffino della lap steel di Marty Rifkin e dimostra quanto fosse creativo Bruce in quei metà anni novanta con progetti diversi l’uno dall’altro: sinfonici, folkie e rock n’roll. Questo materiale fu registrato dal vivo in studio da una full band, dodici canzoni compresi due prelibati scarti di Born in The Usa ovvero la scatenata Stand On It e la magnifica e melodica Janey Don’t You Lose Heart  impreziosita dal sublime lavoro di Rifkin con la lap steel e Soozy Tyrell col violino. In tutti i brani prevale il suono di un combo che mira al sodo bilanciando energia ed elegia da grandi spazi, da una parte gli stivali che battono i tacchi in Detail Man, Repo Man e Delivery Man, dall’altra gli orizzonti di Silver Mountain e Under a Big Sky e in mezzo le melodie che  fanno innamorare. Anche il lussureggiante country di Tiger Rose interpretato da Sonny Burgess nel 1996 e baciato dal tocco di Marty Rifkin, più tardi anche lui nella Seeger Sesssion Band, e Somewhere North of Nashville, che con un taglio alla Charley Crockett ed il titolo colloca questo country al di fuori del riconosciuto mainstream del genere. Affermò Springsteen: “ scritte nello stesso periodo di Tom Joad cantai Repo Man nel pomeriggio mentre di notte mi concentrai su The Line. Fu però Streets of Philadelphia a ricollegarmi alla coscienza sociale ritornando ad approfondire il songwriting grazie alla minuziosa cura dei personaggi e all’uso diverso della voce, è così che venne fuori Tom Joad; ma nello stesso tempo dentro mi ruminava quel feeling country che trovò sbocco in queste session, e così finii per fare un disco country”. La carriera del Boss, troppo consenziente a obblighi contrattuali, ha lasciato ai margini lavori che meritavano di vedere la luce, se volete trovare lo Springsteen dei giorni migliori andate da qualche parte a Nord di Nashville.

Se Faithless è la colonna sonora di un film mai uscito, le dieci canzoni che compongono Inyo sono il frutto di scritture che Springsteen fece negli anni novanta durante viaggi in moto nel Sud-Ovest degli Stati Uniti immergendosi nella cultura e nel paesaggio locale. Inyo'è un disco che ho scritto durante i lunghi viaggi lungo l'acquedotto della California, attraverso la contea di Inyo, diretto a Yosemite o alla Death Valley", ha ricordato Springsteen. "Mi piaceva moltissimo quel tipo di scrittura. Durante il tour di The Ghost Of Tom Joad] tornavo in albergo la sera e continuavo a scrivere in quello stile perché pensavo di dare  un seguito a quel disco  con un lavoro simile, ma non l'ho fatto. È da lì che è nato Inyo, è uno dei miei preferiti."

Sono canzoni del border con suoni “localistici” immaginati per un ipotetico concept sul tema della diaspora messicana e le perdite culturali che ne sono derivate, ragione per cui l’atmosfera è dolente e dolorosa. Ma ci sono momenti in cui il quadro si tinge di colori romantici come in Adelita, un’ode alle donne soldaderas messicane che hanno avuto un ruolo fondamentale nella lotta per l’indipendenza, oppure quando viene narrato di The Last Charro nella festosità di una piazza messicana con le trombe mariachi che si fondono coi violini e la gente canta, o ancora nella delicata coralità di When I Build My Beautiful House. Al contrario, in Ciudad Juarez le stesse trombe sanno di morte e fuggiaschi, una tristezza che pervade Indian Town, The Aztec Dance, One False Move, catapultando l’ascoltatore in quell’universo di confine argomento di tanta cronaca giornalistica e politica. Canzoni come Our Lady of Monroe e El Jardinero (Upon The Death of Ramon) sono storie bruciate dai ricordi e nostalgia tenute insieme da suoni in punta di piedi, violini,  un’armonica, il costante lavoro delle tastiere sullo sfondo. Sebbene registrato principalmente come disco solista , Springsteen si ritrova a lavorare con diversi musicisti mariachi responsabili dell’inconfondibile mexican flavour che si respira nell’intero lavoro.

 

Non so se il titolo Twilight Hours, le ore dell’imbrunire, faccia riferimento al disco del 1955 di Frank Sinatra, In the Wee Small Hours, nelle prime ore del mattino, tanto Springsteen pare coinvolto nel vestire i panni del crooner languido e confidenziale, ma il risultato suona piuttosto come il delirio di un vecchio playboy immalinconito dal trascorrere del tempo. La sequenza inziale di Sunday Love /Late in the Evening/Two of Us è piuttosto imbarazzante per il modo in cui la voce sgocciola melassa dolciastra e gli archi sono lì a creare una messainscena di solitudine e amori sfuggiti che in Lonely Town e September Kisses assume toni  più patetici che drammatici. Lo stile Bacharach di alcune tracce non basta a salvare atmosfere che l’autore ha definito noir-industriali ma che infarcite di tutti quegli archi e arrangiamenti diventano un tedioso feuilleton musicale sui dolori dell’amore. Probabilmente registrato nelle vicinanze di Western Stars, possiede la stessa ridondante coreografia sonora non collocata negli spazi aperti dell’Ovest ma in una scenografia d’interni che, dopo l’ascolto di High Sierra, richiede una salutare ossigenazione per non soffocare in tale tortuoso (e torturante) tunnel of love. Qualche spunto vitale lo si trova nella canzone-titolo, nel falsetto di Sunliner la cui lap steel la spedisce dalle parti di Lyle Lovett, nella ridente Follow The Sun che al sottoscritto ricorda qualcosa di Raindrops Keep Fallin’ On My Head, tanto per stare in clima Bacharach. Ma in generale più che l’imbrunire, qui è notte fonda.

 

Il rock torna di scena nelle dieci canzoni di Perfect World a cominciare dai titoli con cui viene introdotto: le chitarre urlanti e l’E Street sound di  I’m not sleeping, il roots-rock rauco di armonica dylaniata e distorsioni alla Dream Syndicate di Idiot’s Delight, scritta negli anni novanta con Joe Grushecky e poi incisa con la E-Street Band nei duemila, e l’altrettanto elettrica  Another Thin Line con quella bella linea di tastiere sopra il feedback chitarristico. Il suono del disco è in parte parente a quello del recente Letter To You, specie in pezzi saturi di suoni come Rain in the River  ma c’è spazio per ariose ballate (The Great Depression) e qualche dichiarazione d’amore (If I Could Only Be Your Lover) oltre e quella Perfect World ceduta a John Mellencamp per lo struggente Orpheus Descending. In questo CD ci sono ottimi spunti e idee da approfondire ma non l’omogeneità di un album finito, in Cutting Knife la voce pare sospesa in un magma sonoro che rinuncia veramente a tagliare di netto e You Lifted Me Up sfoggia un ritornello sopra un mare di arrangiamenti e tastiere dove si smarrisce il filo conduttore della canzone. Curato in qualche particolare e smagrito nella sovra-produzione, Perfect World avrebbe potuto essere un album oscillante tra il suono espresso in Magic e quello di Letter To You. C’è Ron Aniello dietro tutto ciò, un ruolo importante nella recente produzione del Boss, che sia stata la miglior scelta possibile, questo è un altro discorso.

MAURO  ZAMBELLINI     31 MAGGIO 2025 (data da dimenticare)

p.s articolo completo con il contributo di Marco Denti e foto su BUSCADERO in uscita a luglio

 


20 commenti:

corrado ha detto...

Ci ho messo un po' per capire che il riferimento al 31 maggio era riferito a questioni calcistiche!

Luigi ha detto...

Stamperò questo articolo è lo metterò all'interno del box come preziosa guida critica.

Armando Chiechi ha detto...

Analisi lucida e dettagliata che rispecchia quanto accennato precedentemente dallo stesso Mauro. Sicuramente ci sono cose valide ed altre meno se non trascurabili e questo lo si evince chiaramente per cui spendere una cifra di quel genere è fuori discussione ed improponibile. Peccato non avere avuto accesso ai singoli album pubblicati al tempo, riferendomi chiaramente ai soli o al solo valido,ma a parte questo mi sembra che anche in questo caso e prendendo Tracks II come esempio di un percorso parallelo a quello ufficiale, questo secondo atto rispecchia pienamente quanto visto da un certo punto in poi. Uno Springsteen non più lineare e bensì frammentato da tentazioni varie e progetti diversi, non più cantore di una narrazione unica ma che ha tra le mani diverse carte da giocare. Nell' arte di sicuro è un bene ma non sempre riesce a tutti e a questo punto mi chiedo se sia stato meglio lasciarli nei cassetti o quanto invece sarebbe stato meglio pubblicare al posto di ciò che abbiamo avuto ?

Unknown2 ha detto...

Livio. Complimenti al Prof x l'onestà intellettuale: qnd ci stanno, fa anche dei bei complimenti a Springsteen. Recensione utile x scremare. Se spotify pubblicherà tutto, e nn solo la sintesi in 2cd, so già cosa ascoltare con attenzione.
Nel frattempo Bruce, forse x nn sfigurare di fronte al Bisonte Pazzo, annuncia un nuovo box, con altri 5 nuovi album interi, sempre dall'archivio di Eta Beta...
E come il suo "amico" biondo, si smentisce a ripetizione su un fantomatico Nebraska Electric, che non c'è, no: c'è, ma forse qc c'è..., mentre Bittan e Weinberg se ne ricordano benissimo.
Prodromi di un terzo superbox?? Ormai siamo nel regno dell'impossibile.
Ci vediamo a Sansiro(anche x dimenticare il 31maggio...)

Unknown2 ha detto...

Livio. Il ticket del 21.6.85 ce l'ho anch'io, e conservo pure quello di mio fratello.... Rock on brother, rock on

Luca ha detto...

Articolo completo sul Buscdero di luglio? Non lo vedo nell'indice...

Unknown2 ha detto...

Livio. "Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica" ("Dylan goes electric" molto meglio del titolo italiano, banalotto) di Elijah Ward. Vero trattato sul movimento folk americano, dal 2o dopoguerra al "fattaccio" del '65.
Spicca la figura di Pete Seeger, sincero e ingenuo comunista, vittima del maccartismo, che avrebbe sognato, sulle orme di John e Alan Lomax, una musica ispirata ai canti di lavoro, acustica, alla portata di tutti, sia come ascolto che x esecuzione.
Di contro Dylan appare come un cinico opportunista, spugna che assorbe ogni influenza musicale (rockabilly, r'n'r, country, gospel, soul...) e che si unisce al movimento folk solo xchè in quel momento era in auge. Infatti, appena parte il movimento Rock, promosso dalla British Invasion di Beatles, Stones, Animals etc, lui celebra il clamoroso strappo nel tempio del folk, il Newport F. Festival: con Mike Bloomfield, Al Kooper e alcuni membri della P. Butterfield Blues Band, suona 3 pezzi elettrici a volume altissimo (Maggie's Farm il primo) e segna in pratica la fine del Folk e l'eruzione del Rock.
Già milionario a 24anni, arrogante, arrivista, individualista, ne va anche però sottolineato il talento compositivo smisurato e l'ineguagliabile carisma. Innumerevoli le cover a lui tributate da tutti, ma proprio tutti, i protagonisti della ns musica. E spessissimo il rifacimento è migliore dell'originale!
Da sempre rifiuta ferocemente di essere etichettato e inquadrato in qualsivoglia ideologia o movimento: è semplicemente il più grande, e tutti gli siamo grati.
Libro esauriente, minuzioso (centinaia le fonti, scrupolosamente annotate ad ogni virgolettato), obiettivo.
Essenziale x comprendere, nei limiti del possibile, quell'enigmatico diamante dalle mille facce(molte oscure) che tuttora è, x noi umani, Bob Dylan.

bobrock ha detto...

Come cantavano gli Eagles some dance to remember some dance to forget ….

Armando Chiechi ha detto...

Ho dato un " veloce" preascolto su Spotify al cofanetto in questione. Che dire...? Mi trovo in sintonia sul giudizio di Mauro. Il primo mi ha lasciato con una sensazione di incompletezza. Ho trovato quasi fastidiosa la voce di Bruce e trovo di gran lunga migliore Born in The U.S.A. con tutte le sue pecche e difetti. Il secondo che ho ascoltato con tanta diffidenza, invece mi è sembrato davvero coraggioso e le parti di chitarra davvero gradevoli su quei loop di drum machine. Da parte mia i preferiti Inyo e Somewhere North Nashville e a " Faithless" concedo un altro ascolto. Poca cosa i restanti e fastidioso l'ultimo eccetto i brani scritti con Gruesky.

Unknown2 ha detto...

Livio. Azzardo anch'io un parere, dopo un solo ascolto. D'accordo col Prof sui 1i 4, il quinto lo pago un po' meno: 2,5, al max 3 stelle.
Il 1° è davvero troppo grezzo, pur contenendo diversi pezzi notevoli (e già ampiamente bootlegati): County Fair., Shut out the light, Follow that dream. 3stars
Piacevole sorpresa l' "estensione" di Streets of Philadelphia, ispirato e originale. 4stars
La colonna sonora, nulla di che scalmanarsi. 2,5stars
Bello e potente il disco country, con una Janey indimenticabile, e anche Stand on it era già noto. 4stars
Il disco "desertico" (5°), mah, un po' arido x me, restando in tema. 3stars
il 6° è inascoltabile come e + di WS. 1star x onor di firma
Al 7° invece do 4stelle: è questo lo Springsteen che conosco, che voglio, che mi aspetto.
E con tutti i suoi soldi va a insistere su Tom Morello alla produzione: ennesimo sintomo di profonda confusione.
Comunque mi sa che tra le mie dieci uscite dell'anno questa, x ora, ci può tranquillamente stare.

Unknown2 ha detto...

Livio. PS: dopo il River (plate) anche il 31maggio brucia già meno

bobrock ha detto...

Non ho ancora ascoltato il box su Spotify; prima di dare un giudizio e digerire tutta quella musica ci vogliono ascolti e ascolti .
Ho letto due volte la recensione di Zambellini e mi sembra salvo smentite che c’è parecchio buon materiale in questo T2.
Il che non può che farci piacere.
Sul prezzo mi sono già espresso più volte , per cui sapete come la penso.
Nel frattempo sono stato a Copenhagen per young e nonostante un freddo porco e un vento che ha influito sulla amplificazione a volte smorzando la potenza del suono ancora una volta sono stato grato al canadese di esistere e di regalarmi good vibration come cantava Brian Wilson .

Armando Chiechi ha detto...

Approfitto di questo pomeriggio passato in casa per riascoltare attentamente e meglio il box in questione, premettendo che non lo acquisterò, così come non so ancora se andrò a farlo con la sua versione ridotta. Al di sopra di tutto un costo davvero esagerato nel primo caso e seppure più accessibile il secondo ,temo possa restituire un effetto da "contentino" e souvenir. Più o meno le sensazioni sono le stesse di ieri e lo posso ribadire a mente serena e soprattutto ora.. che già da qualche anno a sta parte Springsteen non rientra più tra le mie priorità musicali o comunque non è più percepito come lo era un tempo....però come ha scritto un amico altrove, l'impressione di ritrovare qualcuno rimane e così il volergli dedicare del tempo non è poi così " vergognoso" aggiungo io. Sinceramente sull' ultimo dei 7 CD ho rivisto un po' il giudizio e forse alla fine dei conti non mi sembra così male e credo di spostare l' ago della bilancia su tre stelle e mezzo,però mi chiedo ancora cosa sarebbe cambiato se questi fossero stati pubblicati al posto di quello che abbiamo avuto ? Per il resto mi è piaciuto l' ultimo di Suzanne Vega e anche quello dei North Mississippi All Stars ed un grazie a Mauro per avermi fatto scoprire John Cleary, l'inglese a New Orleans che ha saputo rinnovare quelle vibrazioni care a MacRebbenack, I Neville Brothers,Allen Toussaint ecc.

corrado ha detto...

E dire che Bob ha beccato il concerto meno riuscito di Neil Young... Problemi di acustica e alcune esecuzioni incerte, specialmente quando il nostro doveva esibirsi con la chitarra acustica. Ad esempio, suonare "The needle and the damage done" in strumming (cioè con la pennata) invece che arpeggiandola, è francamente improponibile e tanto varrebbe non eseguirla, ma i limiti tecnicidello Young senile sono conosciuti. Molto meglio invece in versione elettrica con una grande band che lo supporta e, in certi momenti, non fa rimpiangere i Crazy Horse.
Ma i primi due concerti sono stati praticamente perfetti. Versioni dei suoi classici assolutamente di livello, soprattutto nella data di apertura, che mi ha dato sinceri brividi di piacere quando ascoltavo versioni monumentali di Fuckin up, When you dance e Cinnamon girl. Ma anche le parti più morbide come Looking forward o Harvest Moon sono state ottime, con un bravissimo Spooner Oldham alle tastiere, che creava un misurato ma gradevole tappeto sonoro.
Tutt'altro discorso per il set al festival di Glastonbury, che ha diviso il pubblico in maniera netta.
Detto che anche in questo caso il concerto è stato di altissimo livello, bisogna onestamente dire che Neil Young non ci azzeccava niente con questo mondo suadente e moderno fatto per un buon 50% di poseurs, di ragazzini che probabilmente manco sapevano chi è Neil Young. Anche il nostro è sembrato non sintonizzato su un'audience odierna che cerca altro dalla musica. Attenzione, non dico che ci troviamo di fronte a ragazzini ignoranti e presuntuosi che vedono solamente i loro beniamini rigorosamente under 25. Si tratta proprio di un altro pianeta i cui appartenenti vivono in un'altra epoca e che di tutto quello che rappresentano i dinosauri del rock interessa poco o niente: il loro mondo è quello che stanno vivendo in quel momento; stanno condividendo un'esperienza, un rito che parla nella loro lingua di oggi e davvero non capiscono cosa rappresenta quell'altro mondo che si sono trovati lì di fronte, di fronte a un quasi ottantenne che tirra avanti per la sua strada e che a metà concerto li fa migrare verso qualche altro palco lì nei dintorni. E in effetti è stato proprio il ruolo di headliner assegnato a Young che ha infastidito molti, proprio perchè un headliner oggi a Glastonbury dovrebbe essere qualcosa di diverso da quel vecchio con la faccia brontolona che non si sintonizza con l'audience media del festival.
Ma a parte tutte queste cose che sto scrivendo, resta la constatazione di trovarci di fronte a un musicista che è ancora vitale, concentrato sulle sue idee, che dovrebbe però curare meglio la sua arte. Il suo ultimo disco è la riprova di quanto dico: alcune canzoni belle, luminose, ben eseguite e prodotte, altre veramente brutte, mal eseguite, poco interessanti da ascolare.
Però non è male per una persona di 79 anni.

Armando Chiechi ha detto...

Nel mio piccolo, anche quest' anno e precisamente verso fine Luglio rinnovo quella tradizione che mi vuole a Pignola ( PZ ) per l' annuale Festival Blues ( 18/19/20), un appuntamento al quale non riesco a rinunciare, anche se al momento credo che sarò il 19/07 ( Max Lazzarini e Southern Comfort primo set e Nick Moss Band secondo appuntamento) dato che devo conciliare impegni familiari e lavorativi di mia moglie . Un appuntamento che questa volta funge da anticlimax ad un annata lavorativa disastrosa e che mi auguro possa con la musica fungere da Gris Gris e darmi delle opportunità nuove per una ripartenza migliore in vista di un nuovo anno. Scusate il pippone finale ma era un modo per condividere gioie e dolori in quella che reputo l' altra mia famiglia

bobrock ha detto...

Corrado invece di pontificare guardando i video su you tube fai come me ; alza il culo e prendi un aereo . Dopodiché ne riparliamo. Dopo essere stati entrambi in presenza .
Saper suonare e sapere ascoltare e cogliere la nota giusta sono due cose differenti.

corrado ha detto...

Non ti capisco. Ho parlato di concerti di altissimo livello, per quello che si può percepire dalla TV.
Poi purtroppo io non sono particolarmente facoltoso e alzerei volentieri il culo per andare in capo al mondo a seguire i miei musicisti preferiti: semplicemente, non me lo posso permettere

Unknown2 ha detto...

Livio. Springsteen si è ripreso Sansiro, casa sua. 2h e 50' senza un attimo di pausa, un'intensità e una forza come raramente gli ho visto sprigionare. Scaletta standard(solo in qs senso Monza fu migliore) ma proposta in modo speciale.
Van Zandt, tirato e pallido, ha voluto esserci ma era visibilmente provato, e ciò ha permesso a N. Lofgren di sprigionare una serie di assoli meravigliosi: da urlo in Youngstown e Because.
E-St. Band professionale, compatta, possente. Sul palco era tutto un sorriso, anche x merito di un pubblico meraviglioso, ordinato, partecipe: cantavamo a memoria quasi tutte le canzoni.
Bruce... ha fatto il Bruce, ma su The River si è commosso davvero e si è particolarmente goduto l'empatia col suo popolo.
Senza dimenticare le invettive anti-biondo, puntualmente e puntigliosamente riproposte anche iersera.
Un gran concerto. Felice di poter esserci stato.
PS: Armando, ricorda: No Surrender, non ti arrendere, mai.

bobrock ha detto...

Armando come dicevano i Primal Scream “ give out but don’t give up “

Armando Chiechi ha detto...

Thanks My Friends