Esattamente
quaranta anni fa, nel giorno del solstizio d’estate, il 21 giugno 1985 sbarcava
per la prima volta in Italia Bruce Springsteen con la sua E-Street Band, fu un
concerto leggendario che diede il via ad un culto che si è protratto nelle
decadi successive assumendo in qualche caso contorni se non di fanatismo almeno
di fede. Di anni, di storia, di musica e concerti ne sono passati da quel
giorno, oggi Springsteen è una star che non ha paura di dire ciò che pensa ma
che, comprensibilmente, per via dell’età ha perso quell’aura eroica che aveva a
quel tempo. Poco male, saperlo ancora sui palchi di mezzo mondo a cantare le
sue canzoni e suonare rock con la sua band è un inno alla vita e alla
resistenza, considerate poi le morti che hanno funestato il suo entourage,
musicisti, amici, collaboratori e tutto il resto. Quaranta anni dopo, quasi in
contemporanea, esce un box che raccoglie alcune canzoni che in molti conoscono
per essere entrate nelle scalette di molti concerti e nei bootleg che sono
circolati negli anni, ma anche degli interi album inediti che Springsteen ha
tenuto nel cassetto ed in qualche caso avrebbero ampliato la sua discografia
ufficiale di aspetti diversi rispetto all’usuale, consolidato e riconoscibile
formato del suo rock n’roll. Quella che segue è una disamina dei sette CD che
compongono Lost&Found 1983-2018.
Sette CD diversi l’uno dall’altro, si parte con antiche session del 1983 per arrivare a registrazioni di qualche anno fa, impossibile quindi dare un giudizio d’insieme del materiale qui in questione se non addentrandosi nei singoli dischi perché il raggio d’azione si estende dalle cantine al deserto, dal ribelle rockabilly al crooner in astinenza d’amore, da Philadelphia alla California, dal suono E-Street Band a ridondanti sinfonie di tastiere. Qui c’è lo Springsteen parallelo e nascosto che ha accompagnato la sua discografia ufficiale con composizioni ancora incomplete e altre che avrebbero meritato la pubblicazione, non tutto ciò che Tracks II propone è memorabile ma se vi interessa il caro vecchio rock n’roll andate da qualche parte a Nord di Nashville, lì c’è qualcosa che ancora fa vibrare i sensi.
Non entro nel merito dell’operazione commerciale, per il
sottoscritto il costo di questo box è poco giustificabile, mi limito ad analizzare
il contenuto, una selezione di sette album perduti e ritrovati, per la maggior
parte registrati in studi casalinghi, spesso in solitario o con l’unico aiuto
del produttore Ron Aniello. Si va dalle session del lontano 1983 risalenti al
periodo intercorso tra la pubblicazione di Nebrsaka e Born In The Usa fino al
recente 2018 con le dieci canzoni di Perfect World passando per le registrazioni che
accompagnarono l’uscita di Streets of
Philadelphia servita per l’omonimo film di Jonathan Demme , una fantomatica
colonna sonora, Faithless, per un film mai uscito ed una sorta di racconto in
canzoni sul border intitolato Inyo. Ma ci sono anche i brani
raccolti per Somewhere North of Nashville ispirati al country e al
rockabilly e Twilight Hours presumibilmente registrato a ridosso di Western
Stars. Non valgono i confronti col precedente volume di Tracks
pubblicato nel 1998 che rispettava un ordine cronologico preciso, da Mary Queen of Arkansas del 1972 fino a Brothers Under The Bridge nel 1995, le
epoche dei due box sono diverse, così come diverso è l’artista Bruce
Springsteen, per età, motivazioni e ispirazione, e pure il mondo della musica (
e non solo quello) è cambiato. Tracks II raccatta cose molto
diverse tra loro rivelando un processo creativo non lineare e altalenante, ci
sono idee, ricerche, scarti, prove, abbozzi, cose non finite, il tutto
all’insegna di un’ inquietudine artistica (probabilmente anche esistenziale)
che ha portato l’autore in territori del tutto diversi tra loro e di cui solo
ora, con questi 7CD, se ne ha piena conoscenza, almeno per la grande
maggioranza degli ascoltatori. Non mancano titoli già noti, soprattutto nel
caso del primo CD del box ovvero LA Garage Session ’83, canzoni apparse
sia nei tour, sia nei bootleg che nelle B side dei singoli pubblicati
all’epoca. Ne sono esempio Follow That
Dream, titolo fino troppo noto per gli amanti di Elvis e del Boss, la bellissima
Shut Out The Light, qui
offerta in una versione da brivido, scarna e sofferente, col controcanto
femminile, leggermente diversa da quella inserita nel precedente Tracks,
Johnny Bye Bye scritta in
onore di Presley, presentata più volte nei tour di The River e BITUSA,
e poi Sugarland espressione della
sensibilità dell’autore nei confronti dell’America rurale e contadina, e una
meravigliosa County Fair che tratteggia un ipotetico ponte tra la livida
atmosfera di Nebraska ed il suono più ampio dell’album seguente. C’è pure il
prototipo di My Hometown, ancora più
delicata e con una voce tentennante che non ne scalfisce l’intimità. Il primo
CD del box, diviso tra il sound scarno e minimale del suo album acustico e alcune
aperture immediatamente seguenti, non ospita comunque l’agognato Nebraska elettrico ma brani come Fugitive’s Dream (ripresa in due
versioni) che sarebbero diventati canzoni con altri titoli, oppure Black Mountain Ballad la cui linea
melodica ricorda vagamente Mansion on the
Hill con l’armonica finale che aggiunge un dolce sapore western. La stessa
armonica introduce Jim Deer, incrocio
di Woody Guthrie e il Dylan degli esordi pur con il forte impatto che
Springsteen sa creare quando canta il folk. L’amore per il country emerge nella
scoppiettante Don’t Back Down On Our Love
mentre più spiazzanti sono The
Klansman e One Love il cui drive
ritmico appartiene agli anni ottanta di Cure e Feelies, un segnale dell’attenzione di Springsteen verso suoni
diversi dal suo. Al polo opposto Richfield
Whistle ci riporta grazie al mandolino e all’arpeggio di chitarre acustiche
negli umori in bianco e nero di Nebraska. Alla luce di quanto qui
riportato mi permetto di affermare che il menù scelto per gli originali Nebraska
e BITUSA sia stato il più azzeccato, fermo restando che escludere
Shut Out The Light per chi scrive rimane inspiegabile.
La scelta di Blind
Spot come primo brano da far girare in rete per anticipare l’uscita di Tracks
II riassume il mood dominante delle Streets of Philadelphia Sessions.
E’ una canzone, che come afferma l’autore, esplora i dubbi e i
tradimenti in una relazione d’amore, tema caro in quel periodo a Springsteen
anche se con Patti Scialfa stava vivendo un periodo particolarmente felice in
California. “ Ma se a volte chiudi quei pensieri in una canzone, poi questa ti
segue e si infila dentro. Avevo Blind
Spot e ho seguito quel filo del discorso per il resto del disco”. Registrate
a ridosso dell’uscita del film di Jonathan Demme tra il 1993 e il 1994, le
canzoni di quelle sedute rispecchiano il sound di musica contemporanea anni novanta
con loop, sintetizzatori e una ritmica hip hop di matrice West Coast. Bruce
aveva cominciato a scrivere la canzone per il film di Demme pensando a qualcosa
di rock ma si trovò in difficolta nel far combaciare le liriche con la musica
pensata, per cui si mise a cincischiare
con il sintetizzatore suonando sopra un beat di derivazione hip-hop.
Programmò i loop con una drum machine nella sua casa di Los Angeles intuendo
come fossero necessari accordi in tonalità minore per quelle canzoni; poi
l’ingegnere Toby Scott rimise a
posto la base ritmica su cui innestare tastiere di vario genere. Nelle stesse
session fu registrata Secret Garden, un
brano dalle sfumature erotiche incentrato sui misteri che permangono tra i partner
all’intero di una relazione anche quando questa è consolidata nel tempo, e come
Blind Spot rappresenta il cuore di quel disco del 1994 mai
pubblicato. Con Springsteen lavorarono la moglie Patti Scialfa, Soozie Tyrell
e Lisa Lowell, le session completate
e mixate furono pronte per la primavera del 1995 prima che Bruce rimettesse
insieme, dopo sette anni, la band. “Quelle sedute mi sono rimaste nel cuore e
mi sono sempre promesso di farle uscire prima o poi”. Se ne capisce la ragione
perché pur accettando il generale mood sinfonico orchestrato con le tastiere,
di ottime canzoni ce n’è più di una a cominciare dalla bella e intensa Something In The Well, da One Beautiful Morning, rockata e carica
di pathos, dall’intimistica Between
Heaven and Heart sussurrata come una
ninna nanna, dalla stessa Secret Garden pubblicata
a suo tempo come singolo e da Farewell
Party, una di quelle ballate dal
senso epico che nobilitano il lirismo
del suo songbook. Dieci tracce con
una malinconia di fondo dettata dallo
stato d’animo di Bruce in quel periodo, discograficamente parlando un
coraggioso cambio di stile in anni
contrassegnati da repentini cambi di direzione, prima lo scioglimento della band,
poi l’approccio verso il discutibile pop-soul losengelino di Human
Touch e successivamente l’affondo sociopolitico minimalista di Tom
Joad. Quel mood sinfonico presentò uno Springsteen diverso che a molti
non piacque ma fu una necessaria tappa di passaggio verso il ripristino dell’ E
Street Band sound, cosa che fece di lì a poco col Tour della riunione.
Faithless
è
il titolo di una soundtrack composta da undici tracce per un film mai uscito,
un western spirituale come lo ha definito lo stesso autore sulle intenzioni, il
credo e l’accettazione. Registrato tra la fine del Devils & Dust Tour nel
novembre del 2005 e la pubblicazione di We
Shall Overcome, è la visione di Springsteen della spiritualità nella
mitologia del West americano, una collezione di canzoni e frammenti sonori
composti nel giro di due settimane finalizzati a tradurre l’atmosfera del film.
Per quel lavoro fu aiutato dal produttore Ron
Aniello, Soozie Tyrell e Lisa Lowell, Curtis Knight Jr., Michelle Moore e
Ada Dyer ma ci furono anche contributi da parte della moglie e di Evan e Sam
Springsteen. Alcune tracce sono puramente strumentali, spadroneggiano armoniche
e violini e un’aria tipicamente western in un contesto di folk desertico. Si
respira la desolazione di Tom Joad pur
con qualche gagliardo colpo in avanti nello spirito delle Seeger Sessions, lo testimoniano tracce come All Gods Children, uno spiritual cantato con voce rabbiosa alimentato
da un coro da Chiesa Battista e il gospel Let
Me Ride, mentre nell’accorata e pianistica God Sent You e nel tema di My
Master’s Hand divisa tra preghiera ed echi messicani, emerge un afflato religioso.
Going To California preserva il
fascino dei viaggi on the road e Where
You Going Where You From si perde nel grande mistero della vita con una
preghiera benedetta dal delicato coro femminile. Visionario e spirituale Faithless
rimane la soundtrack di un film mai visto come si conviene a una ghost story del deserto.
L’amore mai nascosto per la musica country a cominciare
da Hank Williams e Johnny Cash ha costituito una parte dell’educazione musicale
di Springsteen manifestandosi dapprima in episodi isolati e poi emersa
significativa in età adulta. Avvisaglie erano alcune B side del periodo The
River, l’ambientazione nella profonda provincia di Nebraska, l’eredità
tradizionale su cui fu impiantato diverso materiale di Seeger Session, i
paesaggi persi nel nulla di Devils & Dust fino alla consacrazione estetica di un West cinematografico in Western Stars, più una
cartolina che un sentito approccio ai codici stilistici del genere. Con
le canzoni di Somewhere North of Nashville si entra in un universo
profondamente americano ma non dalla porta principale, piuttosto, come
suggerisce il titolo della strepitosa Poor
Side of Town, dalla porta di servizio.
Tutto il fascino del country quando si impolvera di perdenti e outsiders,
l’eccitante ritmo del rockablly, le calde pulsazioni dell’ honky-tonk e l’eco
dello western swing texano ma senza la coreografia hollywoodiana delle stelle
dell’Ovest, solo belle canzoni, a volte commoventi, il suono asciutto delle radici,
qualche colpo d’armonica, una produzione mirata all’essenziale, le storie e i
motel delle Blue Highway e delle Silver Mountain, una malinconia che è
più una carezza che un abbandono. Fosse uscito al tempo un tale disco avrebbe
accontentato pubblico e critica per il tiro rock n’roll, i personaggi e la
credibilità delle storie, la grinta di Bruce e la sua sensualità come si evince
nella dolce You’re Gomma Miss You When I’m Gone, la sincera condivisione
con quel mondo. Fu realizzato non a caso simultaneamente a The Ghost of Tom Joad
nell’estate del 1995 con Danny Federici,
Garry Tallent e Gary Mallaber, Soozy Tyrell
e il tocco sopraffino della lap steel di Marty
Rifkin e dimostra quanto fosse creativo Bruce in quei metà anni novanta con
progetti diversi l’uno dall’altro: sinfonici, folkie e rock n’roll. Questo
materiale fu registrato dal vivo in studio da una full band, dodici canzoni
compresi due prelibati scarti di Born in The Usa ovvero la scatenata Stand On It e la magnifica e melodica Janey Don’t You Lose Heart impreziosita dal sublime lavoro di Rifkin con
la lap steel e Soozy Tyrell col violino. In tutti i brani prevale il suono di
un combo che mira al sodo bilanciando energia ed elegia da grandi spazi, da una
parte gli stivali che battono i tacchi in Detail
Man, Repo Man e Delivery Man, dall’altra
gli orizzonti di Silver Mountain e Under a Big Sky e in mezzo le melodie
che fanno innamorare. Anche il lussureggiante
country di Tiger Rose interpretato da
Sonny Burgess nel 1996 e baciato dal
tocco di Marty Rifkin, più tardi anche lui nella Seeger Sesssion Band, e Somewhere North of Nashville, che con un
taglio alla Charley Crockett ed il titolo colloca questo country al di fuori
del riconosciuto mainstream del genere. Affermò Springsteen: “ scritte nello
stesso periodo di Tom Joad cantai Repo Man nel
pomeriggio mentre di notte mi concentrai su The
Line. Fu però Streets of Philadelphia
a ricollegarmi alla coscienza sociale ritornando ad approfondire il
songwriting grazie alla minuziosa cura dei personaggi e all’uso diverso della
voce, è così che venne fuori Tom Joad; ma nello stesso tempo
dentro mi ruminava quel feeling country che trovò sbocco in queste session, e
così finii per fare un disco country”. La carriera del Boss, troppo
consenziente a obblighi contrattuali, ha lasciato ai margini lavori che meritavano
di vedere la luce, se volete trovare lo Springsteen dei giorni migliori andate
da qualche parte a Nord di Nashville.
Se Faithless
è la colonna sonora di un film mai uscito, le dieci canzoni che
compongono Inyo sono il frutto di scritture che Springsteen fece negli
anni novanta durante viaggi in moto nel Sud-Ovest degli Stati Uniti
immergendosi nella cultura e nel paesaggio locale. “ Inyo'è un disco che ho scritto
durante i lunghi viaggi lungo l'acquedotto della California, attraverso la
contea di Inyo, diretto a Yosemite o alla Death Valley", ha ricordato
Springsteen. "Mi piaceva moltissimo quel tipo di scrittura. Durante il tour
di The
Ghost Of Tom Joad] tornavo in albergo la sera e continuavo a scrivere
in quello stile perché pensavo di dare un seguito a quel disco con un lavoro simile, ma non l'ho fatto. È da
lì che è nato Inyo, è uno dei miei preferiti."
Sono
canzoni del border con suoni “localistici” immaginati per un ipotetico concept sul
tema della diaspora messicana e le perdite culturali che ne sono derivate, ragione
per cui l’atmosfera è dolente e dolorosa. Ma ci sono momenti in cui il quadro
si tinge di colori romantici come in Adelita,
un’ode alle donne soldaderas
messicane che hanno avuto un ruolo fondamentale nella lotta per l’indipendenza,
oppure quando viene narrato di The Last
Charro nella festosità di una piazza messicana con le trombe mariachi che
si fondono coi violini e la gente canta, o ancora nella delicata coralità di When I Build My Beautiful House. Al
contrario, in Ciudad Juarez le stesse
trombe sanno di morte e fuggiaschi, una tristezza che pervade Indian Town, The Aztec Dance, One False Move,
catapultando l’ascoltatore in quell’universo di confine argomento di tanta
cronaca giornalistica e politica. Canzoni come Our Lady of Monroe e El
Jardinero (Upon The Death of Ramon) sono storie bruciate dai ricordi e nostalgia
tenute insieme da suoni in punta di piedi, violini, un’armonica, il costante lavoro delle tastiere
sullo sfondo. Sebbene registrato principalmente come disco solista , Springsteen
si ritrova a lavorare con diversi musicisti mariachi responsabili dell’inconfondibile
mexican flavour che si respira
nell’intero lavoro.
Non
so se il titolo Twilight Hours, le ore
dell’imbrunire, faccia riferimento al disco del 1955 di Frank Sinatra, In
the Wee Small Hours, nelle prime
ore del mattino, tanto Springsteen pare coinvolto nel vestire i panni del
crooner languido e confidenziale, ma il risultato suona piuttosto come il
delirio di un vecchio playboy immalinconito dal trascorrere del tempo. La
sequenza inziale di Sunday Love /Late in
the Evening/Two of Us è piuttosto imbarazzante per il modo in cui la voce sgocciola
melassa dolciastra e gli archi sono lì a creare una messainscena di solitudine
e amori sfuggiti che in Lonely Town e
September Kisses assume toni più patetici che drammatici. Lo stile Bacharach di alcune tracce non basta a
salvare atmosfere che l’autore ha definito noir-industriali ma che infarcite di
tutti quegli archi e arrangiamenti diventano un tedioso feuilleton musicale sui
dolori dell’amore. Probabilmente registrato nelle vicinanze di Western
Stars, possiede la stessa ridondante coreografia sonora non collocata
negli spazi aperti dell’Ovest ma in una scenografia d’interni che, dopo
l’ascolto di High Sierra, richiede una salutare ossigenazione per non soffocare
in tale tortuoso (e torturante) tunnel of
love. Qualche spunto vitale lo si trova nella canzone-titolo, nel falsetto
di Sunliner la cui lap steel la spedisce
dalle parti di Lyle Lovett, nella
ridente Follow The Sun che al
sottoscritto ricorda qualcosa di Raindrops
Keep Fallin’ On My Head, tanto per stare in clima Bacharach. Ma in generale
più che l’imbrunire, qui è notte fonda.
Il rock torna di scena nelle dieci canzoni di Perfect
World a cominciare dai titoli con cui viene introdotto: le chitarre
urlanti e l’E Street sound di I’m not sleeping, il roots-rock rauco di
armonica dylaniata e distorsioni alla Dream Syndicate di Idiot’s Delight, scritta negli anni novanta con Joe Grushecky e poi incisa con la
E-Street Band nei duemila, e
l’altrettanto elettrica Another Thin Line con quella bella linea
di tastiere sopra il feedback chitarristico.
Il suono del disco è in parte parente a quello del recente Letter
To You, specie in pezzi saturi di suoni come Rain in the River ma c’è
spazio per ariose ballate (The Great
Depression) e qualche dichiarazione d’amore (If I Could Only Be Your Lover) oltre e quella Perfect World ceduta a John Mellencamp per lo struggente Orpheus
Descending. In questo CD ci sono ottimi spunti e idee da approfondire ma
non l’omogeneità di un album finito, in Cutting
Knife la voce pare sospesa in un magma sonoro che rinuncia veramente a
tagliare di netto e You Lifted Me Up sfoggia
un ritornello sopra un mare di arrangiamenti e tastiere dove si smarrisce il
filo conduttore della canzone. Curato in qualche particolare e smagrito nella
sovra-produzione, Perfect World avrebbe potuto essere un album oscillante tra il
suono espresso in Magic e quello di Letter To You. C’è Ron Aniello
dietro tutto ciò, un ruolo importante nella recente produzione del Boss, che
sia stata la miglior scelta possibile, questo è un altro discorso.
MAURO ZAMBELLINI
31 MAGGIO 2025 (data da dimenticare)
p.s articolo completo con il contributo di Marco Denti e foto su BUSCADERO in uscita a luglio
1 commento:
Ci ho messo un po' per capire che il riferimento al 31 maggio era riferito a questioni calcistiche!
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