Non è stato a mio modo di vedere un anno particolarmente
fertile e creativo almeno per quanto riguarda i territori musicali che
abitualmente bazzico ed è il secondo anno che va così, una ragione ci sarà
oltre al mio invecchiamento e alle mie emozioni sempre più difficili. Non mi si
venga a dire che il rock è morto, l'ho già sentito tante volte ed è una
cantilena cretina. In ambiti di musica indie riferiscono che la scena è sana,
io ci credo a stento perché le ultime band in grado di assurgere a giusta celebrità
uscite dal girone giovanile sono stati i Radiohead e Wilco ( quest'ultimi grandissimi
anche quando non fanno un disco nuovo ma
concerti memorabili come quelli di Milano e Torino) e di anni ne sono
passati parecchi. Il fatto è che i dinosauri resistono e non vogliono andare in
pensione così il ricambio è arduo. Neil Young con Psychedelic Pills ha fatto un disco, anzi un mezzo disco, il
secondo, commovente , Bob Dylan con Tempest
ha trovato visioni grandiose, Van Morrison, chi l'ha sentito ne dice bene,
Springsteen ha spezzato la mediocrità dei suoi ultimi dischi in studio con un
intenso, amaro ma lucido Wrecking Ball,
Tom Petty ha suonato il miglior show dal
vivo di rock n'roll dell'anno, Ian Hunter ha dato seguito al bellissimo Man Overboard con l' eccellente When I'm President, John Hiatt va
avanti per la sua strada e con Mystic
Pinball ha fatto tris, l'ultimo di Graham Parker dicono che sia
il suo migliore da ventanni a questa parte anche con quella deprimente
copertina (vi sarete accorti che la crisi ha colpito anche i recensori e c'è
stata una stretta non indifferente negli acquisti, poi diciamocela tutta, i
concerti costano troppo così che essere rockisti oggi è divenuta una pratica di
lusso quasi come giocare a golf), Mark Knopfler ha realizzato, Privateering, un disco splendido per
atmosfera, tecnica strumentale, calore
rilassatezza. Per gente un po' più giovane come i Black Crowes è solo
stata questione di lifting, il leader Chris Robinson ha pensato bene di tornare
al vintage e assieme al chitarrista Neal Casal, al tastierista Adam McDougall, al
bassista Mark Dutton ed al batterista George Sluppick ha messo in piedi Chris Robinson Brotherhood con cui ha potuto
finalmente soddisfare i propri sogni ovvero stabilirsi a San Francisco,
comprarsi incenso, patchouli e camicie a fiori e suonare fino alla nausea ballate di new
cosmic Californian sound con in testa i Grateful Dead di Wake of The Flood. Due dischi in un solo anno sono forse troppi ma
se il visionario e lisergico Big Ritual
Moon con echi perfino di Pink Floyd ed il
più aspro e rocknrollistico The
Magic Door fossero stati assemblati assieme, qualcuno, anche tra i più
anziani, sarebbe corso a comprarsi un acido per volare nel passato.
lunedì 31 dicembre 2012
mercoledì 19 dicembre 2012
IAN HUNTER life after glam
life
after glam
Adesso
che Ian Hunter è tornato in auge grazie agli ottimi Man Overboard e When I'm The President il suo
catalogo viene preso di mira e la sua carriera viene setacciata con grande
gioia dei vecchi fans che magari posseggono vinili ormai gracchianti e, si
spera, dei neofiti che così potranno apprezzare uno dei rocker inglesi più
originali e versatili. In particolare sotto i riflettori sono i dischi che
segnano il passaggio dagli anni settanta agli ottanta, un momento
particolarmente felice per l'artista dopo l'avventura coi Mott The Hoople e
l'inizio della carriera solista. Già nel 2009 c'era stata la ristampa in
edizione Deluxe del suo immenso You're Never Alone With a Schizophrenic,
espanso con un po' di out-takes e con un intero CD live, adesso invece arriva un cofanetto di 4CD From
The Knees of My Heart che raccoglie lo stesso disco più il potente live
Welcome
To The Club del 1980, il controverso Short Back n' Sides dell'anno
seguente e sotto il titolo di Ian Hunter Rocks la cronaca di uno
show al Dr.Pepper Festival di New York nel settembre 1981 pubblicata negli anni
ottanta solo in video e subito scomparsa dal mercato. Considerato che tutto
questo malloppo costa come un singolo CD è lecito giustificare l'ulteriore riproposizione di Schizophrenic
qui incluso per raccontare in modo completo quel periodo della carriera di Ian Hunter.
Quando
Hunter registrò Schizophrenic aveva alle spalle il successo con uno degli inni
del glam, All The Young Dudes ed una
carriera solista che tra alti e bassi aveva offerto l'interessante All American Alien Boy, il disco che lo aveva avvicinato al
rock americano. Nel 1979 Hunter sfruttò la montante scena urbana dei songwriter
elettrici, in particolare Springsteen e proprio negli studi dove questi
registrò The River ovvero il Power Station di New York, con alcuni
membri della E-Street Band cioè Roy
Bittan, Gary Tallent e Max Weinberg più alcuni collaudati collaboratori tra cui
il chitarrista Mick Ronson, mise a punto il suo capolavoro riuscendo a
concentrare in uno stesso disco e al meglio tutte le sfaccettature della sua
musica: le ballate al sapore di Dylan e il rock sguaiato e glam, il lunatico
cantastorie del folk-rock e l' hard-rock duro e metallico derivato dai Kinks.
Il risultato è schizofrenico ma superbo ed esaltante, sciabolate elettriche del
calibro di Just Another Night e Cleveland Rocks si amalgamo a strepitose
ballate urbane come Standin' In My Light e
The Outsider, momenti di assoluta
delicatessen come Ships si mischiano
al sudicio glam da bassifondi di Wild
East e Life After Death dove il
pianoforte suona un honky tonk ambiguo e vizioso prima che la chitarra dia il
via alla tosta ed incattivita Bastard, un
titolo ed un crescendo che sono specchio di un rock n'roll selvaggio e ancora
pericoloso. Non si è mai soli con uno
schizofrenico, questo disco è una delle leggende del rock metropolitano, qui
rimpolpata delle bonus tracks contenute nella precedente versione Deluxe e
qualche altro rimasuglio come The Other
Side Of Life, prototipo di Just
Another Night scritta dopo che Hunter fu arrestato per ingiurie e
Indianapolis ed una primitiva
versione di The Outsider.
mercoledì 5 dicembre 2012
the rolling stones
IS TIME ON MY SIDE ?
Festeggiare
le nozze d'oro con l'ennesima antologia di successi sembra proprio una presa
per i fondelli. Si sa gli Stones amano
prenderti per i fondelli col sorriso sulle labbra anzi con la lingua fuori e
allora gli basta un Grrr!. qualsiasi. 48 brani storici più due inediti, One More Shot e Gloom and Doom registrati la scorsa estate a Parigi, esce in
versione normale,standard, deluxe, superdeluxe, vinile e chi più ne ha ne
metta. Da sette anni non incidono un disco di canzoni nuove e questo Grrr!
più che il titolo del disco sembra il verso dei fan incarogniti per l 'ennesima
antologia. Per fortuna non è tutto qui, c'è anche il film Crossfire Hurricane di
Brett Morgen, un rockumentario che documenta l'ascesa dei Rollling Stones
attraverso i periodi chiave della loro incredibile avventura e il suggestivo
dvd Charlie
Is My Darling, esiste anche un formato deluxe molto caro con cd e libro
annessi, che testimonia la loro arrembante tourneè irlandese del 1965 quando
erano ancora dei pischelli foruncolosi e Satisfaction
era appena uscito. Consigliato. Ma non è tutto qui, come si sa ci sono le "stellari"
esibizioni dal vivo all'O2 di Londra e a Newark, l'ultima data sabato 15 dicembre
è possibile vederla a pagamento su Sky in the middle of the night, ma a quanto mi
è capitato di vedere e sentire via you
tube non è certo uno show da ricordarsi
in eterno, anzi i quattro, no cinque anzi sei perché c'erano anche Wyman e
Taylor in un paio di pezzi, mi sembrano un po' sgangherati pur con qualche gancio rock n'roll.
La
domanda a questo punto che mi viene
sponanea è, ha diritto una rock n'roll star over sessanta o anche di più salire sul palco e suonare ancora rock n'roll senza
risultare ridicolo e patetico ? La risposta è si, se riesce a fare quello che
fa Springsteen (un mostro) o, con qualche titubanza, Dylan o Ian Hunter (dignitosissimo),
altrimenti è bene chiudersii in uno studio di registrazione, lavorare, incidere
un disco di nuove canzoni e portarlo in giro in tutta umiltà come un bluesman in
un teatro, in una piccola venue dove non c'è tutta l'enfasi e la grandiosità
dello stadio o di un palazzetto. Fare come i bluesmen insomma, come Muddy
Waters (morto a settanta anni però), ridurre il clamore, azzerare la pomposità, andare
di basso profilo. Mica un gioco da
ragazzi se ti chiami Jagger o Richards e appena ti muovi sono in centomila a
seguirti e se fai un concerto in un teatro il biglietto costa come una Golf. E
allora, che dire, chiedo a voi che seguite il rock e gli Stones, cosa fare per
il rock over sixty ? Fare come dice
Renzi e rottamarli tutti, consigliarli il golf mentre fischiettano Satisfaction o Whola Lotta Love o farsi venire il magone vederli cantare Honky Tonk Women sperando nell'ultimo
colpetto ed ignorare che il tempo non aspetta nessuno, né loro né noi, come
diceva il titolo di una strepitosa ballata delle Pietre Rotolanti ?
Per
il momento la soluzione ce l'ho ed è quella di invitarvi a procurare il succulento
materiale che la band ha finalmente reso disponibile in rete in questi
ultimi mesi. Sono quattro strepitosi concerti relativi a diversi periodi della
loro carriera. Il primo, uscito un anno fa, è The Brussels Affair ottanta minuti di rock al
serramanico del tour europeo dell'autunno del 1973, la data è quella del 17
ottobre alla Foret Nationale di Bruxelles in Belgio. Concerto registrato da
Andy Johns e rimixato da Bob Clermountain, da sempre mitizzato dai bootleg pubblicati,
ora reso disponibile con una resa sonora quasi perfetta. Fotografa gli show di
quel tour seguito alla pubblicazione (un mese prima) di Goats Head Soup. Non
siamo ai livelli degli show di Ladies and Gentlemen ma poco ci
manca. Si parte con Brown Sugar seguita
da una traballante Gimme Shelter,
dalla accoppiata Exile di Happy, cantata da Richards e Tumbling
Dice, ottima versione e dalle nuove Star
Star, Dancing With Mr.D e Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker) che nel tour dell'anno prima erano assenti. Lo show
entra nel vivo con una delirante e lunga
versione di You Can't Always Get What You
Want, per poi involarsi in un finale con una bluesatissima Midnight
Rambler (magnifica l'armonica, micidiali le chitarre),con Honky Tonk Women, Jumpin' Jack Flash e Street Fighting Man, tangibile
dimostrazione di una band in forma, con una propulsione funk dovuta alla
presenza di Billy Preston, in qualche episodio fin troppo invadente con la sua
tastiera (fastidioso il suo stridere in Street
Fighting Man) e con la carica selvaggia espressa dai brani più lunghi. Sono
gli Stones dei primi settanta, cattivi e pericolosi ma diversi da quelli destroy del 1978, con Mick Taylor al
top delle sue potenzialità e con uno stuolo di musicisti al seguito impegnati a
infradiciare il sound di grassa black music. Alle tastiere c'è Billy Preston,
Bobby Keys e Trevor Lawrence si occupano
dei sassofoni, Steve Madaio della tromba e trombone. L'unico momento di riposo
dello show è Angie, chicche per
amatori la veloce e "strombazzata" All Down The Line e il frenetico blues-rockabilly Rip This Joint estratto da Exile.
John
Pasch aveva realizzato l'irriverente e spiritoso poster del tour che è anche la
cover di questo bootleg ufficiale Brussels
Affair (Live 1973).
lunedì 26 novembre 2012
LED ZEPPELIN
CELEBRATION
DAY
La reunion dei Led Zeppelin all'O2 Arena di Londra il 10 dicembre 2007 è stato un evento che ha generato un interesse ed un'attenzione fuori dalla norma tanto che ne è stato fatto un film proiettato in anteprima nelle sale di tutto il mondo il 17 ottobre scorso. Chi ha visto il film o ha avuto la fortuna di partecipare direttamente allo show ha avuto parole entusiaste, io mi limito a recensire, all'oscuro della parte visuale, il doppio CD audio che ne è stato ricavato. 16 brani tra i più famosi del repertorio dei Led Zep, il grande inizio con Good Times Bad Times e Ramble On rispettivamente dal primo e dal secondo album del gruppo e poi via con il riff torcibudella di Black Dog qui in versione granitica da far impallidire i Gov't Mule e la tempesta elettrica di In My Time Of Dying con Jimmy Page che si diverte a slidare e distorcere prima che la sezione ritmica diventi una acciaieria. For Your Life è muscolosa come mai, con la batteria implacabile di Jason Bonham, degno figlio del padre, il martello degli Dei, Trampled Under Foot, ripescaggio di Physical Graffiti, è contrassegnato dal lavoro di tastiere di John Paul Jones, forse il più fresco dei tre originali Zeppelin. Robert Plant ha difatti perso il suo falsetto giovanile ma riesce a stare al gioco con l' abilità del grande cantante, la sua voce è più aspra e disperata ma riesce a far volare alto il dirigibile anche se ormai sembra più a suo agio in lavori meno "esuberanti" tipo il disco con Allison Krauss e quello con Band Of Joy, Jimmy Page è quello più invecchiato di tutti, non tanto per i suoi capelli bianchi ma perché il suono della sua Gibson ha perso lo smalto e la limpidezza di un tempo. Gioca di forza e di durezza, il suono è sporco, cruente e monocorde, non c'è l'eleganza di una volta quando pur in mezzo alla tempesta di watt sapeva essere lirico, fantasioso, geniale. Oggi è solo la copia di se stesso, ad alcuni può anche bastare visto che l'originale è un musicista che tra il 1972 ed il 1975 è stato il miglior chitarrista sulla faccia della terra, almeno per quanto riguarda il rock, ma dopo un'ora non ne puoi più della sua violenza e delle sue raffiche.
sabato 17 novembre 2012
CHEAP WINE BASED ON LIES
MAURO
ZAMBELLINI
giovedì 8 novembre 2012
THE BIG EASY
Finalmente a New Orleans, non che la regione cajun ci abbia
stancati ma dopo una settimana born on
the bayou era naturale saltare in città anzi nella città più musicale del
mondo dove la musica è dappertutto e come scrive John Swenson nel suo
bellissimo New Atlantis-Musicians Battle
for the Survival of New Orleans-viene fuori dalla terra perché è qualcosa
che ha a che vedere con le vibrazioni della terra. La terra qui è una
combinazione di elementi, il fatto che tanta di essa sia sotto il livello del
mare, la sua storia come città di porto e portale nell'emisfero occidentale per
europei e africani e poi milioni di persone che hanno vissuto qui nel passato.
E' come fosse la Costantinopoli del Nuovo Mondo, ogni cosa qui è esagerata. La bellezza
è esagerata, la povertà è esagerata, così la brutalità, la musica, il cibo. Se
sei una persona con i sensi acuti tutto questo non lo devi cercare, lo senti
addosso. Ero già stato a New Orleans una prima volta nell'inverno 1994 proprio
nei giorni in cui scompariva Ylenia Carrisi la figlia di Romina Power e Al
Bano, era gennaio, l'aria era fredda e la città non era per niente sicura, al
di fuori del Quartiere Francese, oltre North Rampart Street, che è una specie
di spartiacque tra il Quartiere Francese e i quartieri sobborgo, di sera
bisognava stare attenti, addirittura un taxista si rifiutò di portarmi nella
zona dove una volta sorgeva Storyville perché, a suo dire, a lot of guns. Sono tornato nel 1999 inviato da una casa discografica per un
servizio sul redivivo George Thorogood. Il bluesman del Delaware tornava dopo
alcuni anni di silenzio con l'album Half
A Boy/ Half A Man e lo presentava alla stampa internazionale all' House of
Blues di New Orleans in quello che sarebbe stato uno show tutto muscoli e slide.
A quel tempo andava di moda Marylin Manson tra i giovani americani e la stessa
Anne Rice coi suoi romanzi sui vampiri aveva un certo seguito, il che spiega la
fauna strana ed un po' inquietante che bazzicava la città. Mi ricordo un
locale, una enorme cafeteria dove andai un paio di volte incuriosito dal suo
pubblico e dal buon caffè che facevano, il Kaldi's in Decatur Street che ora
non esiste più, pieno di gente con gli
occhi gialli e i canini appuntiti perché quello era il look di tendenza e chi
lo portava non erano certo fighetti da discoteca ma figuri di un mondo
parallelo che quando li si incrociava di sera lasciavano addosso un certo non
so che. New Orleans è così, città di santi e peccatori, di feste e cimiteri, di sesso e voodoo, di bellezza e
squallore, di vita e di morte, anche adesso che all'occhio del turista sembra
una città del tutto normalizzata qualcosa di difficile da afferrare nasconde
tra le sue case. Basta passeggiare di sera nella silenziosa ed elegante Royal
Street, una sequenza di atelier, gallerie, antiquari, negozi di vestiti (non
firmati ma sartoriali), maschere, oreficerie, negozi antichi e vintage,
lampioni a gas e si è in mezzo ad un concentrato di bello che nemmeno Parigi ha
in così poco spazio ma anche qui ad un solo blocco dalla caciara pulp al
profumo di vomito che è Bourbon Street è possibile cogliere la magia non sempre
rassicurante di una città che nasconde i suoi segreti. Non c'è nessuno quando
ci passeggio di sera tardi, solo qualche frettoloso passante, i negozi sono
chiusi e si può osservarli nella loro quiete, la luce fioca dei lampioni rende
l'ambiente ottocentesco, New Orleans è una città soffusamente illuminata anche
nelle arterie principali, l'oscurità penetra nei vicoli, c'è fascino e mistero
in Royal Street, chissà cosa doveva essere alla fine del XIX secolo nei giorni
dell'assenzio.
mercoledì 31 ottobre 2012
quel treno per Houma
Naturalmente non è la Yuma del celebre film western con
Glenn Ford e nemmeno ci andiamo in treno
ma con la nostra berlina Yaris noleggiata all'aeroporto di New Orleans. Houma
sta proprio in fondo alla Louisiana a poche miglia dal Golfo del Messico e per
arrivarci bisogna percorrere un bel tratto della Highway 90 tra foreste, bayou,
ponti, paludi, procioni morti sul ciglio della strada e cittadine con
incantevoli viali alberati (la più graziosa è Jeanerette) a cui fianchi
brillano belle e signorili abitazioni bianche in stile creolo con veranda,
balconi e giardino. Sulla strada si incontra New Iberia che per gli
appassionati di gialli e noir è la patria del detective Dave Robicheaux, la
creatura inventata dallo scrittore James Lee Burke (nato a Houston ma cresciuto
in Louisiana), il quale ambienta le sue storie di malaffare, corruzione e
redenzione da queste parti, tra il bayou Teche e New Orleans. Per chi non lo
conoscesse consiglio almeno sei titoli, Piccola
Notte Cajun, Sunset Limited, L'Angelo in Fiamme,Ti Ricordi di Ida Roubin?,
Prima che l'Uragano Arrivi e L'Urlo del Vento, questi due con Katrina sullo
sfondo. C'è anche un bel film di Bernard Tavernier con Tommy Lee Jones da
vedere, estratto da un suo romanzo ed è In
the Electric Mist.
giovedì 25 ottobre 2012
LOUISIANA MON AMOUR
Due anni fa con l'amico Roberto, organizzatore dell'Ameno Blues Festival, come premio per aver raggiunto e guadagnato la pensione (un attimo prima della infausta riforma), sono andato nel Mississippi a vedere dove è nato il blues, il padre di tutta la musica che amo. Da Memphis siamo scesi a sud lungo la Highway 61 fino a Natchez, deliziosa cittadina al confine con la Louisiana dallo stile e dall' architettura francese sebbene ancora nello stato del Mississippi e locata sul fiume omonimo. Poi siamo risaliti verso Oxford, passando dalla tomba di Robert Johnson, ritornando a Memphis. Due anni dopo sempre con l'amico Roberto e con Nicola, fotografo e chitarrista blues, abbiamo proseguito il viaggio addentrandoci in Louisiana, per la precisione nella southern Louisiana a ridosso della mitica Highway 10, la stessa che ha dato il titolo ad uno degli album migliori dello slider Sonny Landreth. Non siamo ripartiti da Natchez perché non esiste aeroporto ma da New Orleans, arrivandoci di notte, dormendo in un motel vicino al Louis Armstrong International Airport e ripartendo by car il mattino seguente verso la zona delle plantation che lambiscono la Hwy 10 e arrivano fino a Baton Rouge, cittadina industriosa e poco interessante a parte un locale in perfetto stile cajun chiamato Boutini's dove abbiamo finalmente assaggiato i gamberetti in hot sauce, bevuto birra ambrata ghiacciata (la Amida) e goduto del set a due di tale Lee Benoit, uno dei tanti Benoit della regione che con moglie, chitarra e fisarmonica suona cajun music cantata in francese. Il francese è la seconda lingua della regione, anglofilizzata ed impastata di gergo locale tale da diventare un dialetto proprio. La parlano in molti e ci si intende a meraviglia anche perché i locali sono fieri delle loro origini e ci tengono a considerare questa parte d'America, la Acadia, diversa dal resto del paese. Si sentono i lontani discendenti di quella migrazione che dalla Nova Scotia in Canada è arrivata fin sulle coste del Golfo del Messico. Cajun è storpiatura di acadiens e loro sono ben felici di esibire una cultura, una storia, una musica ed una cucina tutta loro. Cucina che si traduce spesso in una fiera del fritto per quanto riguarda gamberi, crawfish, ostriche e granchi e che offre una selezione di salse di indubbio potenziale atomico per quanto riguarda le tonalità del piccante. Potete comunque salvarvi il fegato sapendo che si può evitare il fritto ricorrendo all'etouffèè e al boiled, sempre che il cuoco si impietosisca della vostra prudenza alimentare. Certo gli americani in materia non sono un esempio da seguire e lo ha capito madame Obama con la sua rivoluzione dietetica a scuola perché, specie in provincia e nelle classi più povere, l'obesità raggiunge ormai il 50% della popolazione e la statistica non riguarda solo la comunità nera. Detto questo, a Donaldsonville sulla strada per Baton Rouge c'è la Laura Plantation che è la più bella ed importante piantagione di tutta la Louisiana meridionale, creata nel 1805 da Guillaume Duparc e diretta per 84 anni dalla pronipote Laura Locoul, esponente di quella aristocrazia creola che ha lasciato un segno indelebile nella storia della Louisiana. Dodici edifici in legno restaurati, comprese le dimore degli schiavi neri, un giardino enorme, la raffinatezza francese, le piante con le banane e l'eco di Via col Vento. Nella sonnacchiosa Donaldsonville, un paesotto da Ultimo Spettacolo, ho rinvenuto un suggestivo DeVille bar, niente a che vedere con il nostro soulman preferito che anche da quelle parti è passato come un fantasma e quasi nessuno conosce mentre sempre sulle sponde del Mississippi, a St. Francisville, in una mattina radiosa come poche ho respirato quell'aria del sud di cui parlano tante canzoni. E' una delle più vecchie cittadine della Louisiana, vicino ci sono dei battleground della Guerra Civile e sebbene oggi sia trasformata in una specie, ma più modesta, Mendocino del sud con tanto di cafè in stile europeo, piccoli negozi, librerie ed una pace che a me che vivo a ridosso di un aeroporto ed in mezzo "al progresso" urbanistico lombardo sembra un incanto, possiede quel fascino appartato e discreto dei luoghi in cui si rintanano gli scrittori a vivere e scrivere libri. Quel po' di magia letteraria che spesso negli Stati Uniti si incontra nelle blue highways, villaggi e paesi che offrono una qualità del vivere invidiabile. Niente musica però, almeno al mattino quando ci passiamo, tempo per un caffè all'italiana nel bel bar-salotto che ha visto suonare qualche settimana prima Mary Gauthier e via verso est passando da New Roads, mi ricorderò sempre il cocktail di gamberi gustato sulle rive del lago con uno Chardonnay americano insolitamente discreto e a buon mercato . Sole, cielo azzurro, temperature tra i 25 e i 28 gradi con leggere brezze rinfrescanti, sarà così per tutto il viaggio e allora si capisce come nel sud della Louisiana il mese top per festival musicali, gastronomici, letterari e feste di paese sia ottobre, senza il caldo impossibile e l'umidità dell'estate e con la possibilità di rimanere all'aperto anche di sera.
venerdì 5 ottobre 2012
MUSIC IS LOVE a singer-songwriters' tribute to the music of
CSN&Y
Raramente la discografia italiana ha
prodotto un lavoro così ben fatto in termini di musica, di confezione, di note
esplicative, di scelte artistiche. La passione per la musica di Crosby,
Stills,Nash e Young ha indotto Ermanno Labianca, giornalista, discografico, autore
di libri e fanzine su Bruce Springsteen, Francesco Lucarelli, musicista e Peter
Holmstedt a concepire e produrre un lavoro che si staglia a livello
internazionale per la qualità e la serietà del progetto. Music Is Love è un
brillante anche se non altisonante tributo alla musica e alle canzoni di Crosby, Stills, Nash e Young. Attorno a
loro è stato costruito un doppio Cd ottimamente registrato, elegantemente
impacchettato e fornito di una ricchezza di note e di fotografia da far invidia
ai migliori prodotti della Rhino. La passione scorre sotto il raffinato
digipack in questione e la Route 61, la indie che lo ha pubblicato, ha messo in campo intraprendenza, coraggio, gusto ed entusiasmo nel realizzare
un lavoro che non è solo un elegante e curato oggetto estetico ma, come
suggerisce il titolo, un atto d' amore verso la musica.
La celebre canzone di David Crosby
del suo irraggiungibile If I Could Only Remember My
Name serve da titolo ad un doppio Cd dove sono coinvolti cantanti e
cantautori americani, irlandesi e inglesi, ognuno impegnato ad offrire la
propria visione della musica di C,S,N&Y, canzoni tratte dal vasto
repertorio dei quattro sia in gruppo, in trio, in duo, solista, coi Buffalo
Springfield e coi Manassas. Il panorama è ampio e i due Cd invitano ad un
viaggio che è un piacere dei sensi e della mente. I nomi dei singer-songwriters
non sono tutti noti ma la lettura di ognuno è originale, sentita, sincera, le registrazioni sono state fatte in
studio a New York, in California, in Irlanda, a Londra, Liverpool e in vari
centri degli Stati Uniti. Nel booklet interno ognuno dei protagonisti esplicita
come sia entrato in contatto con la musica dei quattro ed il motivo della
canzone scelta. La partenza è affidata a Ron
LaSalle che con la sua voce roca offre una aspra versione folk-rock di For What It's Worth dei Buffalo
Springfield, celebre e amato inno antimilitarista. Lo segue Steve Wynn con una spettrale e noise Triad , episodio che trova un giusto
contraltare nella rilettura classica e toccante di Helplessly Hoping di Judy
Collins aiutata dal piano di Russ Walden, dal basso di Tony Levin e dalle
chitarre di Duke Levin. Della serie la classe non è acqua. L'irlandese Liam O' Maonlaì ragala una rarefatta e nordica Lady Of the Island tratta, come la canzone
della Collins, dal disco debutto di C,S&N.
Sugarcane Jane che altri non
sono che la cantante Savana Lee Crawford ed il chitarrista/banjoista/cantante
Anthony Crawford interpretano con taglio folkie e fingerpicking ma il finale è
assolutamente psycho la stupenda Bluebird
dei Buffalo Springfield mentre toh chi si rivede Karla Bonoff assieme alla collega Wendy Waldman e ai cantanti John
Cowan e Mietek Szczesniak rifanno con inalterata delicatezza la sognante Guinnevere. Elliott
Murphy con la sua band di normanni sceglie Birds di Neil Young imitato da Bocephus
King con una stralunata e persa nel diluvio Down By The River mentre i Venice,
due cugini californiani coi rispettivi
fratelli che di cognome fanno Lennon, regalano una non memorabile After The Goldrush. La figlia di Stephen
Stills, Jennifer si cimenta con la
band e degli arrangiamenti di pianoforte, violino e violoncello in Love The One You're With rallentandola
nella prima parte e poi lasciandola scorrere come una avvincente melodia rock.
Fedele all'originale è You Don't Have To Cry di Sonny Mone, transitato per qualche
tempo nei Crazy Horse, rigorosa nelle sue linee roots è Fallen Eagle, gran lavoro di mandolino, violino, banjo, chitarre da
parte dei Coal Porters di Sid
Griffin attenti a ricreare l'atmosfera bluegrass di uno dei brani chiave del
favoloso Manassas.
Inizia con Rockin' In The Free World il secondo Cd e Willie Nile col suo trio ci mette la rabbia e l'elettricità della New York dei club, bella partenza per uno show che vede
entrare in pista la rediviva Cindy Lee
Berryhill, due album negli anni ottanta ancora in grado di raccontare
l'America della strada con lo stile e lo charme della beat generation. Anche
lei pesca da Manassas ed estrae una It Doesn't Matter forse troppo equilibrata per il suo
carattere vagabondo. Clarence Bucaro
col trio è melodico quanto basta in Out
On The Weekend uscito da Harvest,
Neal Casal omaggia Graham Nash e suona tutti gli strumenti in Hey You (Looking At The Moon), ballata
sotto la luna dolce come il suo
autore, Carrie Rodriguez in band a
quattro regala uno dei momenti magici di
Music
Is Love, una rilettura dolente e ispirata di Cortez The Killer dove strumenti acustici ed una chitarra desertica
si amalgamano per una performance di
grande intensità.
Meno noti sono il Marcus Eaton di Bittersweat, Andy Hill e
Renée Safier (Thrasher), Louis Ledford (Wasted On The Way), Mary Lee's Corvette (Tracks
In The Dust) ma qui c'è la produzione e la chitarra di quel volpone di Eric "Roscoe"Ambel e Jenai Huff ( I'll Be There For You). Ulteriori apprezzamenti vanno a Eileen Rose & The Legendary Rich
Gilbert, la loro Just a Song Before I
Go è piena di pathos, Nick Barker
affronta Long May You Run con lo
spirito di un solitario uomo dei boschi accompagnato da chitarre e mandolino, Michael McDermott abbraccia la cantante
e violinista Heather Horton nel
duetto di Southern Cross e il
liverpooliano Ian McNabb chiude lo
spettacolo con una Music Is Love che
inizia come Sympathy For The Devile e
poi ascende al cielo leggera e svolazzante come un falco del Tamalpais che
libera le sue ali nell'azzurro della Baia. Una litania gioiosa e colorata, una
coreografia vocale (tre le voci femminili) da peace and love and music nello
splendido scenario della California good vibrations. Ci voleva un inglese per
evocarla ed un tributo, Music Is Love a farci di nuovo
sognare.
.
MAURO ZAMBELLINI
venerdì 28 settembre 2012
THE KINKS AT BBC
Nulla è
mai stato così completo riguardo alle registrazioni della BBC come questo The Kinks at the BBC.
Questo box di sei dischi, cinque CD ed un DVD, esplicita il matrimonio tra due
grandi istituzioni inglesi: i Kinks e la BBC. Per la prima volta vengono rese
disponibili tutte le registrazioni avvenute negli studi e nei teatri della BBC
sia per quanto riguarda il materiale radiofonico che televisivo. Il sesto disco
del box set è difatti uno splendido DVD di eccellente qualità audio e video che
per oltre tre ore e mezzo testimonia a livello visivo l'iter del gruppo, dalle
prime innocenti apparizioni in bianco e nero degli anni 60 con You Really Got Me, una esaltante e
negroide Got Love If You Want It capace
di dare punti agli stessi Rolling Stones sul terreno del R&B, con
l'immancabile e amatissima Sunny
Afternoon e gli altri hit dell'era, e
poi degli anni 70, tra cui lo splendido quadretto country di Have A Cuppa Tea, all'unico episodio
degli "infamanti" anni ottanta con i Kinks glamour di Come
Dancing a Top of the Pops fino ai più anonimi anni 90 con Over The Edge, Informer e Scattered. Un DVD esauriente delle loro
trasformazioni anche a livello di look, dagli imbarazzanti capelli a caschetto
dei sixties a certe coraggiose cotonature anni settanta, dalle camicie color
pastello di Ray Davies con tanto di farfallino rosa incorporato al dandysmo
glam di Dave Davies (che canta Death of the Clown) alla trasandatezza
hippie dei primi settanta fino ai colori sgargianti e alle giacche di taglio
largo degli anni ottanta. Ma le vere chicche del DVD sono gli estratti degli
show dal vivo fatti per la BBC al Rainbow nel 1972 dove i Kinks con capelli
lunghi, barbe, pantaloni a zampa sono a proprio agio nel regno rock creato da
Stones, Who, Faces, Led Zep ma a contrario di questi propongono un concerto che
è una specie di teatrale cabaret rock
senza la aggressività elettrica dei loro colleghi. Un concerto del 1973 porta invece in scena i Kinks
dell'epoca Everybody's In Showbiz-Preservation Act dove il gruppo fa uso
di una sezione di fiati mentre due altri show, The Old Grey Whistle Test e
The Kinks Christmas Album entrambi del 1977 offrono un Ray
Davies quasi cantautorale, a proprio agio con le ballate (incommensurabili Sleepwalker e Celluloid Heroes)e con la chitarra acustica senza per questo
dimenticarsi dei graffi hard-rock di You
Really Got Me e All The Day and All
The Night. Siparietti all'interno dei due show trattano della virata
working-class country di Muswell Hillbillies e del teatrino
trash di Schoolboys In Disgrace con le coriste abbigliate da insegnanti
sexy con tacchi a spillo e giarrettiere e Ray Davies con maschera nei panni
dell'arrogante capitalista Mr.Flash. Un
DVD stellare che mostra reperti e concerti inediti.
La
parte audio è costituita da cinque CD, il primo ed il secondo di
rispettivamente 37 e 28 tracce recuperate dalle varie trasmissioni radio della
BBC, dal Saturday Club, da Top Gear,
Symonds on Sunday, Dave Lee Travis Show e John Peel Show raccontano l'evoluzione
del gruppo dal rauco proto punk degli inizi agli schizzi sociali e satirici del
loro pop colto e adulto, in primo piano la
maturazione del songwriting di Ray Davies. In questi due CD c'è tutto il
meglio dei Kinks fino al 1972 compreso quell'
Acute Schizophrenia Paranoia Blues
(Muswell
Hillbillies) che rimane uno dei loro migliori episodi blues.
Il
terzo e quarto CD testimoniano dei Kinks anni settanta quando gli hit si fecero più rari ma il loro
culto rimase inattaccato. Le registrazioni arrivano dai vari John Peel Show,
The Johnny Walker Show e Dave Lee Travis Show, da un concerto tenuto nel 1974 e
dal The Old Grey Whistle Tour del 1977 già documentato dal DVD. Il materiale ha
il pregio di evidenziare la vitalità di una band che seppe trasformarsi senza
perdere quella eccentricità e quella fantasia che la rendevano unica nel
panorama del pop inglese, anche con una montante indifferenza da parte del
pubblico che in quegli anni chiedeva gesti ben più spettacolari e altisonanti
come quelli offerti da Led Zeppelin e Who.
Se gli
anni ottanta sono rappresentati solo nel
DVD con la marginale esibizione di Come
Dancing a Top of the Pops, gli anni novanta occupano una parte del quarto
CD e del quinto CD con l'ultima apparizione per la BBC in ordine di tempo nel
1994. Dal Johnny Walker Show arrivano la sottovalutata Phobia ed una magistrale ballata hard-rock da far impallidire i
Metallica, Wall Of Fire oltre al
famigerato rock n'roll di Till The End Of
The Day, dall'Emma Freud Show una dolcissima Waterloo Sunset solo acustica ed una muscolosa I'm Not Like Everybody Else dimostrazione della doppia anima della
band.
Completano
il quinto disco una serie di fuori onda degli anni sessanta con una qualità
audio decisamente inferiore al resto del materiale, eccellente in ogni sua
parte.
Il
progetto di raccogliere e rimasterizzare l'intero patrimonio BBC dei Kinks lo
si deve a Andrew Sandoval, un'opera brillantemente "impacchettata"
con un formato libro vintage in stile radio days, commentata dalle note dal
giornalista Peter Doggett e arricchita da fotografie proveniente dagli archivi
più esclusivi. The Kinks at the BBC è un monumento al genio di Ray Davies e ad
una delle più grandi band della storia del rock inglese.
MAURO
ZAMBELLINI
sabato 22 settembre 2012
HARD
TRAVELIN'
WOODY
GUTHRIE'S NIGHT LEONCAVALLO 21 SETTEMBRE
2012
Lo vedi lì magro, ossuto, fragile con la
chitarra con su scritto "questa
macchina uccide i fascisti" e pensi sia solo uno di quegli altri disperati
magari anche comunisti che lui cantava, uno di loro, di quelli che fuggivano le
tempeste di polvere dell'Oklahoma e del midwest per andare a cercare la terra
promessa nell'ovest, in California, la terra del lavoro e del sogno americano.
Più tardi arriva a New York e la definisce
"una città di poliziotti, predicatori e schiavi" dove se Gesù predicasse ancora come faceva in
Galilea, lo inchioderebbero di nuovo sulla croce. Testimonia la rinascita
economico che il new deal porta nel depresso nord-ovest e scrive la sua canzone
più famosa This Land Is Your Land che ancora adesso tanti americani credono sia
una canzone patriottica. Vive le speranze antifasciste della seconda guerra
mondiale, compone canzoni sulla storia del movimento operaio americano, canzoni
per i bambini, canzoni sulla amata Ingrid Bergman perché Guthrie non era un santo e nemmeno un eroe,
gli piacevano le donne e il cinema, Stalin e il vino, era guascone e aveva un
caratteraccio. Vive gli ultimi anni alle
prese con una terribile malattia del sistema nervoso, la chorea di Huntington
che lo costringe infermo a letto in una clinica ma ancora lucido. Sentendo le
sue canzoni ci si accorge che l'America di allora è ancora così adesso ed è
forse la ragione perché ci sono stati così tanti Woody's children, figli di
Guthrie, a cominciare da quel tipetto arrivato dal Minnesota a trovarlo quando
già era ammalato in clinica. Scrisse per lui Woody's Song si chiamava Bob Dylan
anzi Robert Zimmermann e trovò nella musica di Guthrie un linguaggio semplice e
diretto per parlare della dignità dell'essere umano, la cosa più grande della
vita come diceva sempre Woody. Poi arrivarono tanti altri, Phil Ochs, Billy
Bragg, Bruce Springsteen, Steve Earle, John Mellencamp, Ani Di Franco, Utah
Phillips, qualcuno noto altri sconosciuti, tutti a cantare una musica che
potesse migliorare la vita e gli esseri umani.
Cantare le sue canzoni senza dimenticare le sue
ragioni questo è il messaggio che ha lasciato Woody Guthrie e Veronica Sbergia (ukulele, autoharp,voce),
Max DeBernardi (chitarre e voce), Massimo Gatti (mandolino) e Dario Polerani (contrabbasso) hanno
ricordato attraverso un concerto imperniato sulle sue canzoni, un set toccante e
coinvolgente dove il materiale di Guthrie è stato interpretato con spigliatezza
e freschezza nonché con l'usuale bravura
tecnica del quartetto. Il feeling, le voci e gli strumenti hanno contagiato il
centinaio e più di presenti, trasformando il Leonka in un club dell'East
Village. Suoni cristallini, impasti
vocali magnifici, l'atmosfera pura del folk senza le pesantezze del
rigore a tutti i costi, anzi il brio e l'ironia che anche Guthrie metteva nella
sua musica e che Max, Veronica, Massimo e Dario hanno riversato nelle loro
interpretazioni. La Woody Guthrie's Night di venerdì 21 settembre al
Leoncavallo, un appuntamento snobbato da
molti addetti ai lavori che si precipitano non appena è di scena l'ultimo degli
sfigati d'oltreoceano ma non si accorgono che alle nostre latitudini c'è chi
interpreta la roots music ad un livello eccellente, è stato il modo migliore
per ricordare e far conoscere uno dei più grandi poeti della musica popolare
americana. Sono cento anni che Woody Guthrie è nato ma la sua musica non ne
risente, i quattro hanno fatto vivere lo spirito e le ragioni della sua musica
offrendo una versione musicale ricca, suggestiva, colorata anche quando era la
polvere la protagonista delle storie, supportati dalle immagini che scorrevano
alle loro spalle, dalle eloquenti letture di Michele
Buzzi che con dei flash approfonditi ha commentato l'opera di Guthrie e
dalla recitazione dei testi delle canzoni da parte del Gruppo Teatrale
Leoncavallo.Una serata assolutamente fuori del comune, uno spettacolo che, si spera, possa avere delle repliche.
mercoledì 12 settembre 2012
Chris Robinson Brotherhood
Prima o poi sarebbero arrivati i dischi giusti per Chris Robinson dopo i due tentativi di New Earth Mud e This Magnificent Distance. Ha dovuto fare il rituale della grande luna per fare centro ma d'altra parte Chris con la psichedelia, il cosmo, le erbe e i viaggi lisergici ci è sempre andato a nozze. Big Moon Ritual pubblicato nel giugno scorso e The Magic Door reso disponibile a neanche due mesi dal precedente si presentano con copertine che fanno tanto album degli Yes ma le sinfonie e i virtuosismi di tastiere, che sono quelle di Adam McDougall un altro Black Crowes, qui centrano poco perché sono piuttosto i Grateful Dead di Jerry Garcia i santoni di questo rituale. Big Moon Ritual è un disco psichedelico nel più classico dei modi, dalla copertina ai brani lunghi, tutti di durata al di sopra dei sette minuti, dal suono svolazzante e chitarristico, del tutto rilassato comunque, alle atmosfere cosmiche, sognanti, visionarie. Chris Robinson dopo avere suonato un centinaio di concerti tra la West Coast e New York ha realizzato il disco che ha sempre sognato di fare, un disco che focalizza il lato psichedelico dei Black Crowes con ballate lunghe, sinuose, che si evolvono attorno ad una frase-tema ampliandola e dilatandola secondo una progressione strumentale da jam band. Non c'è molta attenzione al formato canzone in Big Moon Ritual, qui il bruciante rock/soul dei Corvi Neri è messo in armadio a vantaggio di un work in progress che vede le chitarre di Neal Casal involarsi in lande extraterrestri seguite dalle tastiere di McDougall e dalla brillante sezione ritmica di Mark Dutton al basso e George Sluppick alla batteria. E' una formula che si ripete dalla prima all'ultima traccia, Robinson canta aiutandosi con la sua chitarra acustica, ad un certo punto passa la palla a Casal e McDougall, questi sviluppano in piena libertà il tema base girovagando per il cosmo, jammando e improvvisando, attorcigliandosi e defluendo nel tema principale per lasciare la parola ancora a Robinson che rientra ignorando bridge e refrain, come stesse conducendo un monologo alla luna, poi di nuovo gli strumenti riprendono il viaggio astrale ed il brano si allunga fino a sciogliersi nell'etere. Nessuna irruenza, nessuna frizione, nessun selvaggio furore rock come coi Black Crowes, questa è musica per la mente più che per il corpo, suoni dilatati dell'universo Dead. Star Or Stone e, se non fosse per l'inciso di moog, anche Reflection On A Broken Mirror sembrano degli estratti di Wake Of The Flood e poi ballate pastorali, un pò di Rolling Stones (Rosalee), fantasie psichedeliche morbidamente trattate jazz, passaggi che fanno pensare agli episodi più onirici di Amorica, qualche scampolo di country psichico lasciato indietro da Before The Frost Until The Freeze, questo è il new cosmic California sound.
The Magic Door è sulla stessa falsariga del primo, copertina in stile orientaleggiante, stessa band, stesso produttore, Thom Monahan (Vetiver, Pepercuts, Devedndra Banhart) e probabilmente stesse session di registrazione al Sunset Sound di Los Angeles: il risultato è un altro fulgido disco di new cosmic California sound, un suono che evoca gli illustri passati del Fillmore West e del Topanga Canyon, oggi ancora in grado di mandare in visibilio migliaia di estimatori a cominciare dai lettori di Relix e dei fans dei Grateful Dead. Ma non solo, perché The Magic Door è la porta magica su una concezione del rock n'roll che prevede libertà espressiva a 360 gradi e capacità di espandere la fruizione sensoriale secondo uno stretto rapporto corpo-mente.
Tutte le tracce superano abbondantemente i cinque minuti, con una escursione record nei quasi quattordici minuti di Vibration & Light Suite, una cavalcata lisergica che tra momenti estatici e pindariche evoluzioni strumentali, in primis la chitarra di Neal Casal mai così vaporosa, riflette la nuova avventura cosmica e mistica di Chris Robinson. A dirla tutta The Magic Door è anche meglio di Big Moon Ritual perché qualche forzatura progressive là presente qui si è definitivamente sciolta in un attitudine jam che rivela disinvoltura, affiatamento, rilassatezza., La conferma viene proprio dal brano più lungo, Vibration & Light Suite che sgorga liquido e senza grumi con una melodia ariosa che irradia benessere e vi trasporta nei paesaggi più luminosi della West-Coast music evocando Big Sur, le onde del Pacifico, il surf, i Quicksilver, il viaggio, un'era felice e spensierata di comuni illusioni. Non è un esercizio passatista e di revival perché Robinson e i Brotherhood non suonano con la carta carbone, inventano del nuovo, sono creativi e moderni e sanno come cambiare scenario per non ripetersi e tediare, a metà della lunga suite difatti induriscono i suoni secondo una mai sopita attitudine rocknrollistica e arricchiscono il tutto con un atteggiamento jazzistico che regala libertà di improvvisazione. Vibration &Light Suite è la dimostrazione di quanto possano essere visionari Chris Robinson Brotherhood ma non è la sola perla di The Magic Door. Il loro essere eclettici riesplode negli otto minuti e mezzo di Sorrows of Blue Eyed Liar una ballata lenta che cresce attorno al cantato dolente di Robinson e poi si invola nel cosmo con le magnifiche tastiere di Mac Dougall a disegnare paesaggi astrali e la chitarra di Casal che fluttua nel vuoto.
Che Chris Robinson continui ad essere il miglior rocker della sua generazione lo conferma la ruvida ripresa del classico di Hank Ballard Let's Go Let's Go Let's Go e una Little Lizzie Mae sospesa tra echi di Stones virati country, refoli di jazz e scoppiettanti botti sudisti, perché qui Neal Casal si dimentica dell' Lsd e si procura una bottiglia di buon bourbon. Della stessa sponda è anche Someday Past The Sunset un rock sporco da marciapiedi di Los Angeles, un solitario peregrinare nel buco nero della città con la bestia dentro ed una gran voglia di dimenticare tutto. Sa di alcol, di blues, di Black Crowes, di peccato e di slide, quella che Casal mette in strada per trascinare i Brotherhood su per il sudicio Sunset. Splendida.
Sono invece delle ballate Appaloosa , nientemeno che il brano che compariva in Before The Frost Until The Freeze qui leggermente riarrangiata e Wheel Don't Roll che col suo sapore agreste e pastorale, segnata comunque da un tocco di chitarra alla Jerry Garcia, ricorda gli episodi più rootsy di quell'album dei Black Crowes.
Due dischi eccellenti che se fossero stati assemblati assieme sarebbero stati l'assoluto capolavoro rock di questo 2012.
MAURO ZAMBELLINI SETTEMBRE 2012
venerdì 17 agosto 2012
Small Faces: "negri" di Londra
Estate del 1966 : le radio pirata riempiono locali, negozi e case con Shapes of Things degli Yardbirds, Wild Things dei Troggs, River Deep Mountain High di Ike & Tina Turner, Eleonor Rigby dei Beatles, Summer in the City dei Lovin'Spoonful, I Feel Free dei Cream, Reach Out (I'll Be There) dei Four Tops, l'Inghilterra diventa campione del mondo di calcio battendo la Germania a Wembley, Carnaby Street e King's Road pullulano di colori, boutiques, follie, giovani vocianti ed euforici, nei club si suona e si sballa con la nuova musica, Michelangelo Antonioni ritrae l'edonismo della città nel film Blow-Up. Londra è il centro del mondo, la capitale culturale e mondana del pianeta, la swingin' London. Quattro ragazzi dell'East-End sono troppo impegnati a suonare, fare shopping e stonarsi per accorgersi di cosa succede intorno. Vivono in fretta, lavorano duro, sballano senza ritegno fumando erba e impasticcandosi con le anfetamine, poi arriverà anche l' LSD grazie al manager dei Beatles Brian Epstein, in poco tempo diventano i beniamini dei giovani londinesi.
Due di loro se ne sono andati per sempre, il cantante e chitarrista Steve Marriott bruciato nel suo cottage con le sue chitarre nel 1991, il bassista Ronnie Lane deceduto per sclerosi multipla nel 1997, gli altri due, il batterista Kenney Jones ed il tastierista Ian McLagan sono ancora attivi nella musica e hanno curato la ristampa in edizione deluxe dei loro primi quattro album rendendo giustizia agli Small Faces, perfetto esempio di gruppo mod capace di trasformarsi repentinamente e veicolare in un brillante pop venato di rock e soul, inventivo e febbricitante, le aspettative di una generazione che tentava di rompere col passato e nello stesso tempo si immedesimava nel loro abbigliamento e nei loro atteggiamenti anticonformisti. Tra il 1965 e il 1968 gli Small Faces piazzarono 11 singoli nella Top 30 ma si rifiutarono di sedersi sugli allori cambiando stile da un album all'altro secondo i propri umori, salendo velocemente la china del successo e poi precipitando in un improvviso finale che lasciò monco il gruppo del suo leader e del suo eccezionale front-man Steve Marriott. Sarebbero nati i Faces e gli Humble Pie ma questa è un'altra storia.
Atteggiamento ribelle, accento cockney, buoni bevitori, origini piccolo-borghesi ed uno smisurato amore verso il soul ed il R&B americano, gli Small Faces portarono Memphis nell' East-End e con All or Nothing firmarono l'unico inno della Swingin' London in grado di competere con My Generation. Queste ristampe documentano la loro dead end street history spesso contrapposta alla più spettacolare avventura mod degli Who. Gli Who provenivano dalla zona di Shepherd Bush nel West-End, erano belligeranti, mascolini, ruvidi, usciti da un quartiere middle-class che i fans degli Small Faces accusavano essere "fighetto", i Kinks abitavano nella parte nord di Londra, erano colti, eleganti, dandy, androgini nelle pose, gli Small Faces personificavano la riposta proletaria pur essendo di origini piccolo-borghesi, avevano radici nella zona dimessa dell'East-End, erano ruspanti, vivaci, effervescenti, umorali. Vestivano alla moda, camicie preppy, pantaloni a tubo, giacche strette, foulard damascati, pool colorati, si tagliavano i capelli come dettava il momento, spendevano un sacco di soldi in scarpe, frequentavano le boutique di Carnaby Street ma glielo si leggeva in faccia che erano quelli che venivano dalla periferia a fare baldoria in centro città. Forse per questo, per questa loro naturalezza ed innocenza fecero breccia nei cuori dei giovani inglesi che li elessero portavoce di una inquietudine da sublimare a suon di R&B e shake. Proprio con Shake di Sam Cooke si apre il loro primo album, Small Faces del 1966 ristampato in due CD con l'originale album ed una messe di alternate version, single B sides, alternate mix, il solito pingue bottino per rendere appetibile una nuova e forse definitiva ristampa, anche se c'è chi spera in un Box antologico sull'esempio di quello magnifico dei Faces.
Grande era l'amore che i quattro nutrivano verso il soul e il R&B, verso Sam Cooke a Ray Charles in primis ma pure verso Otis Redding, la Tamla-Motown, Marvin Gaye, Booker T & Mg's, Don Covay, James Brown e le black-singers americane. Due erano gli elementi chiave che distinguevano gli Small Faces dai loro rivali: la capacità di riuscire ad improvvisare dei groove attorno ad un tema base standard e Steve Marriott, un musicista ed un cantante la cui energia era difficile da imitare e replicare e la cui voce rimane una delle più belle del British blues-rock. Ronnie Lane e Kenney Jones suonavano negli Outcasts e conobbero Steve Marriott in un negozio di strumenti musicali all'inizio del 1965. Due giorni dopo reclutarono il tastierista Jimmy Winston, erano nati gli Small Faces, li univa l'amore per Chuck Berry, Buddy Holly, Elvis, il soul e il R&B ma fu il successo dei Moody Blues della cover di Bessie Banks Go Now a incoraggiarli a suonare roba del genere. La loro prima incisione fu E Too D, un brano piuttosto elementare ma quando ascoltarono Anyway Anyhow Anywhere degli Who capirono che l'aggressività era la condizione necessaria per farsi accettare dalla nuova gioventù ribelle e allora venne fuori l'esplosivo Come On Children che cavalcava potente l'energia espressa da Marriott. Presero coraggio e si lanciarono in cover di soul e R&B ritagliandosi uno stile nervoso, urgente e pungente, ben espresso nell'album d'esordio Small Faces da brani come You Need Loving ammodernamento di You Need Love di Muddy Waters che i Led Zeppelin avrebbero poi trasformato in Whola Lotta Love avendo in testa gli Small Faces. Non era il solo brano a fare scalpore, c'era You Better Believe It dove si pappano in un colpo solo lo Spencer Davis Group, c'era il loro primo singolo What'cha Gonna Do About It qui replicato in una alternate version con inizio feedback alla Jimi Hendrix, c'era What's A Matter Baby di Clyde Otis e la strepitosa Sha La La La Lee di Mont Shuman, una delle vette assolute del beat. Non mancano brani di loro scrittura visto che l'album rispetta l'abitudine del periodo ovvero un contenitore di singoli e B-sides più una manciata di cover. Nelle bonus tracks c'è la gemma dimenticata di I've Got Mine prologo di quello che avverrà con lo psichedelico Ogden's Nut Gone Flake, c'è l'arrendevole It's Too Late con l'arsa voce e la graffiante chitarra di Marriott in primo piano e un coro di auh auh nelle retrovie, c'è lo Stax sound brittizzato di Sorry She's Mine, il modo di suonare la chitarra di Syd Barrett in E Too D e la melodia pop di One Night Stand, c'è la sofferta e bluesy Don't Stop What You're Doing e la garagista Patterns. C'è quella Come On Children che spiega in che modo gli Small Faces filtrassero il R&B americano con la nervosa irruenza di monelli da strada, quell'attitudine cockney che ribaltava un sincero tributo in qualcosa di originale, un groove standard trasformato dall'attacco punk degli spasmi e del feedback della chitarra di Marriott. Valeva anche il notevole lavoro ritmico di Kenney Jones, grande batterista e del bassista Ronnie Lane che con la sua voce melodica e armoniosa faceva da contraltare alle asprezze negroidi di Marriott. Indispensabili erano le punteggiature di tastiere di Jimmy Winston ma ancora di più quelle di Ian McLagan, fanatico di Booker T & Mg's, che sostituì quasi subito Winston e fu responsabile dello sbarco del Memphis sound a Londra.. Small Faces raggiunse il terzo posto e stette per sei mesi nelle classifiche di vendite del 1966. Crudo, sanguigno, sporco ed effervescente è un album ancora fresco, pieno di ritmo e di beat, di focoso soul e intrigante pop elargito con l'urgenza di chi è giovane, sfrontato e mod. Due CD e un party che non si dimentica tanto facilmente.
Nel maggio del 66 gli Small Faces si erano spostati a vivere al 22 di Westmoreland Terrace a Pimlico, zona meridionale di Londra poco distante da Brixton. L'avevano trasformata in una casa-ufficio dove invitavano discografici, amici, fotografi, musicisti come Paul McCartney e Mick Jagger, un luogo in cui rintanarsi e lavorare insieme. Pedina fondamentale per il loro successo fu il manager Don Arden, colui che aveva curato gli interessi di Gene Vincent in Inghilterra e dei Nashville Teens. Li mise sotto contratto nel 1965 per la Contemporary Records, credeva in loro, era protettivo, non aveva peli sullo stomaco, era un manager d'assalto e distribuiva mazzette ai dj in modo che i primi 45 giri degli Small Faces girassero nelle radio pirata. Fu lui a portarli dall'East End al Westmoreland Terrace, fu lui a dare carta bianca ai quattro affinchè si costruissero una immagine con gli abiti di Carnaby Street. Spesero più di quanto guadagnassero, alla fine del 1966 si ritrovarono in bancarotta, senza un quattrino e con la netta sensazione che i proventi delle royalties se li fosse spesi Arden grazie al suo stile di vita hip. Arden faceva la bella vita mettendo sotto torchio i quattro musicisti che lavoravano senza sosta passando da una session di registrazione ad un set fotografico, da una intervista ad uno show vivendo talmente di corsa da non accorgersi del turbinio creativo della Swingin' London. In più Arden buttò sul mercato il singolo My Mind's Eye ancora prima che fosse rifinito. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. All'inizio del 1967 il gruppo licenziò Don Arden e si accasò con la neonata Immediate Records di Andrew "Loog" Oldham, etichetta intraprendente nata sull'esempio di analoghe indipendenti americane come la Chess e la Motown. Ma due settimane prima che la Immediate pubblicasse il nuovo disco, Arden con la Decca mise in circolazione From The Beginning un album che accanto a cose già edite come Sha La La La Lee e What'cha Gonna Do About It raccoglieva materiale del primo periodo e soprattutto i singoli di successo del momento, la strepitosa All Or Nothing prima nelle classifiche UK, Hey Girl decima e My Mind's Eye anticipatrice con Yesterday, Today and Tomorrow dei risvolti beatlesiani e pop psichedelici del gruppo. Naturalmente ancora pulsava l'abrasivo soul di Marriott con una graffiante versione del classico di Marvin Gaye, Baby Don't You Do It, con Take This Hurt Off me di Don Covay, con You've Really Got A Hold On Me di Salomon Burke e con una bizzarra interpretazione di Runaway di Del Shannon ma agli occhi degli Small Faces tutto ciò sembrò una ripicca di Arden che voleva bruciare sul tempo l'uscita del loro secondo album. Il long playing originale mono rimpolpato di bonus tracks, tra cui il singolo I Can't Make It/Just Passing ed un secondo CD con la versione stereo oltre a un pò di alternate mix e differente version, cinque delle quali completamente inedite, costituiscono il materiale dell'edizione Deluxe di From The Beginning.
L'apertura verso le droghe lisergiche, atteggiamento condiviso da Beatles e Stones e l'emergere di un sound psichedelico nonchè la spregiudicatezza di Andrew Loog Oldham portano gli Small Faces ad un cambio di stile. Lo si avverte ancora prima che il nuovo album esca, con il singolo del giugno 1967 Here Comes The Nice la più sfacciata ode ad uno spacciatore di droga che sia mai entrata in classifica. Quattordici sono le tracce che compongono la scaletta del terzo album, intitolato come il primo per la Decca Small Faces e adesso riproposto in due CD, mono e stereo con tanto di bonus tracks (tra cui una inedita If YouThink You're Groovy) mono e stereo anche queste. Brillano tra queste Itchycoo Park singolo rivoluzionario, un suggestivo pop psichedelico inciso con l'uso dello phase-shifting, un particolare accorgimento applicato alla batteria che permetteva una sorta di eco-riverbero (poi usato da molti gruppi) e contribuiva ad aumentare la misteriosa atmosfera del brano, e l'altro singolo Tin Soldier un acido mix di rock e soul segnato dall' incredibile lavoro di Ian McLagan con tre tastiere (Steinway, Wurlitzer e Hammond), dal drumming potente di Jones, dalla voce sporca di Marriott e dal backing di P.P Arnold. Le chitarre graffiano e il sound creato da Glyn Johns, il miglior produttore inglese dell'epoca che, come nei dischi precedenti fungeva da ingegnere del suono, è perfetto per focalizzare il personale rock and soul della band.
L'album è diverso da quelli che lo hanno preceduto, ci sono fiati e ottoni in abbondanza, clavicembali e arrangiamenti orchestrali che testimoniano di uno spettro sonoro più ampio, tentativo di trascendere dalle limitazioni del pop. Corre l'anno 1967 e il pop è attraversato dalla rivoluzione psichedelica, escono, solo per rimanere in Inghilterra, Sgt.Pepper's, The Piper at the Gates of Dawn dei Pink Floyd, Their Satanic Majesties Request dei Rolling Stones, Mr.Fantasy dei Traffic. Gli Small Faces non vogliono essere da meno e cercano di indirizzare le loro influenze R&B verso il nuovo rock incorporando elementi diversi nel loro sound. A contrario di molti loro colleghi gli Small Faces non si ergevano a paladini del cambiamento, non volevano rivoluzionare il mondo ma solo far casino e divertirsi, la loro psichedelia era tenue e lunare. Nonostante ciò a cominciare da Small Faces affiora una vena più riflessiva nei loro testi, l'urgenza di Steve Marriott trova bilanciamento nella scrittura sensitiva di Ronnie Lane. Il risultato è un disco dove c'è di tutto: le loro radici nere e il pop da classifica, i flash melodici e le chitarre arrabbiate, i non sense e la nostalgia, gli strumentali e le B-sides, le armonie alla Beatles e le marcette alla Kinks, il flower power di (Tell Me)Have You Ever Seen e il misticismo di Show Me The Way e Green Circles, esempio quest'ultima di vibrazioni californiane importate nell'East End londinese, il surrealismo di Up The Wooden Hills To Berdfordshire e il rozzo accento cockney di Marriott, gli ottoni di All Our Yesterday e il ritmo latin jazz di Eddie's Dreaming che sa molto di Austin Powers. Troppa roba per essere un disco veramente riuscito, potrebbe essere il Between The Buttons della loro discografia, molte idee, non tutte a fuoco. Il 1967 è comunque un anno d'oro per la band, tre hits singles, due classici sulla droga Here Comes The Nice e Itchycoo Park ed il rude Tin Soldier condensano in tre minuti tutto ciò che faceva grande gli Small Faces: l'emozione, il soul, l'equilibrio, la tensione e l'abbandono. Tre hits che danno lustro alla riedizione deluxe di Small Faces .
Già all'epoca di Tin Soldier, pubblicato nel dicembre del 1967, il gruppo si era messo a lavorare al nuovo disco rintanandosi con mogli e fidanzate su un barcone sul Tamigi, a Henley, in cerca dell'ispirazione giusta che venne quando una notte, accampati in un camping, furono "abbagliati" da una splendente mezza luna nel cielo. La partnership tra Steve Marriott e Ronnie Lane nello scrivere canzoni era giunta ad un punto ottimale tanto da far fatica a comprendere lo split out dell'anno seguente, le cose stavano comunque andando molto in fretta per chiunque se si pensa che in pochi mesi la guerra del Vietnam sarebbe arrivata al culmine, ci sarebbe stato il Maggio parigino e la Primavera di Praga e in aprile a Memphis Martin Luther King sarebbe stato assassinato. Il rock e il pop non furono esenti da tali scombussolamenti e dai venti di cambiamento, il termine concept album prese piede nella produzione discografica, i Moody Blues con Days of Future Passed inaugurarono le infauste collaborazioni tra pop e musica sinfonica, il progressive era dietro l'angolo.
La Immediate di Andrew "Loog" Oldham non perse tempo, era una etichetta agile, dinamica, rivolta alle novità e sfruttò la presenza in scuderia dei quattro Small Faces come house-band per la registrazione di due singoli, If You Think You're Groovy di P.P Arnold e Would You Believe di Billy Nicholls e diede in mano due loro brani (My Way Of Giving e (Tell Me)Have YouEver Seen Me) a Chris Farlowe e The Apostolic Intervention per altri due singoli. L'anticipazione del nuovo album è però l'uscita del singolo Lazy Sunday. Cantata da Marriott in un comico accento cockney, la canzone non è molto dissimile da Autumn Almanac dei Kinks, con gli identici riferimenti alla noiosa vita domestica, al conformismo della società britannica, al paesaggio della provincia inglese evocata col canto degli uccelli e le campane della chiesa. Un bella caricatura della old england, non priva di humour ed ironia. In maggio viene pubblicato Ogdens' Nut Gone Flake, l'album più ambizioso nella discografia degli Small Faces oscurato dalla trovata della sua copertina circolare apribile in otto parti, ad imitazione di una scatola di tabacco dell'era Vittoriana dove venne cambiata la parola brown con gone. Negli intenti del gruppo doveva coniugare l'ascolto del disco con il fumo di una sigaretta di erba. Un disco innovativo certamente influenzato da Sgt.Pepper's e Majesties Request per le sostanziali aperture sonore con una profusione di trovate strumentali, arrangiamenti ambient, armonie complesse e schegge psichedeliche. Già nell'iniziale canzone titolo ci si trova di fronte a qualcosa di completamente diverso, uno strumentale più appropriato alla soundtrack di uno spy movie che ad un disco degli Small Faces, uno scenario sonoro anticipatore di quel prog-rock esplorato in seguito dai Caravan. La cosa è maggiormente messa in evidenza dalle tracce Happiness Stan e The Fly contenute nel terzo CD della Deluxe Edition dove tra archi, clavicembali, violini e pianoforte sembra di stare in una suite di classica e nella jam strumentale Khamikhazi. La ricerca della novità non cancella però l'essenza degli Small Faces come dimostrano Afterglow ancora saldamente in mano a Marriott e le out-takes Every Little Bit Hurts e Bun In The Oven una specie di personale Foxy Lady. Long Agos and Worlds Apart è invece proiettata verso il surreale mood di I Am The Walrus dei Beatles, Rene inizia con una marcetta e finisce in jam e Song of A Baker scritta da Lane sancisce il matrimonio tra un duro psycho-rock ed un testo contemplativo. Ma è la seconda facciata a disegnare i nuovi orizzonti, gli Small Faces combinano l'aspetto narrativo con la musica pop. La storia del giovane Happiness Stan è divisa in sei momenti ognuno dei quali introdotto dalle parole del maestro di cerimonia Stanley Unwin, un comico della BBC famoso per le sue bizzarrie linguistiche. La storia si basa sull' "allucinazione" avuta dagli Small Faces nel loro rilassante soggiorno sul Tamigi: una notte Stan guardando il cielo ha visto che brilla solo metà della luna e allora parte per un viaggio alla ricerca della metà scomparsa. La storia si evolve come una favola tra poteri magici, giganti, voli pindarici ed un Mad John che spiega a Stan il significato della vita " la vita è proprio come una tazza di All Bran". Tutto questo ha come supporto sonoro una varietà di stili che abbracciano il folk psichedelico (Mad John), l'heavy-rock (Rollin' Over), il pop con una coda sing-along (Happy Days Toy Town), il rock underground (The Journey). Il disco fu registrato in parte all'Olympic Studio a Barnes, nel sud-ovest di Londra e parte agli studi Pye e Trident nel West End con la fondamentale presenza di Glyn Johns che per tutto il lavoro incitò i quattro musicisti a sperimentare e ad andare oltre i loro clichè cosi da consegnare ai posteri un opera che ancora oggi è reputata tra le più originali di quella stagione del pop inglese, un disco che fornì ispirazione a più di una generazione di musicisti. Ogdens' Nut Gone Flake oggi ristampato in tre CD, uno con la versione mono, uno con quella stereo e il terzo con le out-takes e le alternate version (c'è anche una Ogdens' Nut Gone Flake trattata phasing), salì in fretta le classifiche arrivando al primo posto il 29 giugno del 1968 e rimanendovi per sei settimane.
Un opera innovativa, nel tempo in cui è stata concepita ha il merito di spostare in avanti il livello della creatività introducendo una serie di elementi tali da influenzare quello che verrà dopo. Le ristampe, al di là del materiale inedito che propongono, sono però fatte per essere ascoltate nel momento in cui sono pubblicate, assolvono ad un compito di memoria e testimonianza ma devono funzionare adesso perché se non fosse così basterebbe il vecchio originale vinile. Oltre al fatto di poter essere "utilizzate" e usufruite da coloro, in primis i giovani, che lo intercettano per la prima volta, senza diventare un monumento fine a sè stesso. Detto questo, l'album più innovativo della discografia degli Small Faces ovvero Ogdens' Nut Gone Flake per le sue ambizioni di esperimento narrativo/musicale, sembra soffrire il tempo e l'età più del primo acerbo Small Faces, meno "costruito" e articolato forse ma ancora oggi fresco e fruibile. Succede spesso che album stilisticamente e culturalmente immagine di periodi storici dalla simbologia "forte" reggano meno di altri più trasversali e meno epocali. Come altri gruppi della fine sixties gli Small Faces trovarono difficile mantenere l' equilibrio costruito attraverso la loro storia e la loro musica, la strada era senza vie di uscita, non era possibile unificare nella loro musica e nelle loro relazioni tutte le diverse sfaccettature e possibilità di una industria discografica in rapida espansione. Non potevano essere ancora contemporaneamente pop e rock , mainstream e underground, ruvidi e raffinati, leggeri e heavy, i contrasti sarebbero stati messi in evidenza nel conclusivo The Autumn Stone (un peccato tralasciarlo in questa operazione) ma poi i nodi sarebbero venuti al pettine e Steve Marriott avrebbe liberato il proprio boogie dando vita agli Humble Pie mentre gli altri tre avrebbero imbarcato Rod Stewart per continuare come Faces. Alle spalle rimane lo straordinario catalogo, riepilogato da queste quattro Deluxe Edition curate nella rimasterizzazione e nella compilazione, che testimoniano di un momento felice ed eccitante di libertà ed ambizione oltre ad offrire una ampia gamma di influenze a tanti successivi british rockers, dai Led Zeppelin ai Sex Pistols, dai Jam ai Britpoppers. Questo è quello che ci hanno lasciato gli Small Faces.
MAURO ZAMBELLINI
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